Tancredi e i suoi interpreti: considerazioni.


Tancredi fra la fine degli anni 70 e gli anni 80 è stato uno dei titoli di punta della ripresa del repertorio tragico rossiniano.
Era, ogni ripresa di Tancredi, a partire da quelle romane del dicembre 1977, un’occasione per il pubblico, che frequentava i teatri d’opera, per esaltarsi e rinnovare trionfi, che facevano tornare ai racconti coevi o quasi alle prime rappresentazioni del titolo, soprattutto quando i panni di Tancredi erano indossati da Giuditta Pasta.
La fonte di tanti entusiasmi, a prescindere da quelli che l’opera in sé può creare, era Marilyn Horne.
Che Tancredi fosse un titolo pensato da tempo dalla Horne è provato dall’inserimento della sezione conclusiva della cavatina e famosi palpiti in un recital della fine degli anni ‘60 e dall’abitudine di eseguire in concerto sempre lo stesso brano.
Strano, ma nell’800 Tancredi, parte scritta per un contralto divenne famosa e circolò, soprattutto grazie ala Pasta, un mezzo acutissimo e che nell’opera, oltre a trasporti considerevoli, ricorreva anche ad impresti da altre opere. Famoso il finale proveniente da altro Tancredi, quello di Niccolini, pure “nobilitato” dalle varianti di Rossini. Non solo, ma altri nominali soprani, come Isabella Colbran a Napoli e Maria Malibran a Parigi ottennero grandissimi successi nei panni del giovane guerriero.
Per i grandi contralti Pisaroni, Brambilla e Alboni il Tancredi fu un’esperienza assolutamente marginale nelle loro carriere. I “loro” ruoli erano Arsace e Malcolm. Quanto ad Arsace è significativo che Giuditta Pasta si fosse presa la briga di scrivere a Rossini, pregandolo di non procedere agli aggiusti per quella parte perché, nonostante la scrittura come “primo musico” non l’avrebbe mai cantata, disposta, invece, a cantare il title role.
Non solo, ma prima di Giuditta Pasta, almeno nei teatri italiani Tancredi per antonomasia fu Carolina Bassi e chi esaminasse la sola parte scritta per lei da Rossini può rendersi conto della certa facilità anche in zona acuta di cui la cantante disponesse e della certezza di trasporti ed aggiusti nell’esecuzione.
La verità è che la scrittura vocale di Tancredi marcatamente centrale e povera di melismi (siamo ancora nella prima fase della carriera di Rossini, quella a coloratura cosiddetta lata) può proprio per queste se caratteristiche (sorge fondato il dubbio che la Malanotte non fosse una irraggiungibile virtuosa) essere aggiustata sia ad un mezzo acuto che ad un contralto.
E questo fu il punto di partenza della Horne. Legittime interpolazioni nei recitativi, acuti ed abbellimenti (alcuni suoi, altri, come nel duetto del secondo atto, di Pacini) in tal modo che la differenza fra questo personaggio ed i travesti successivi non fosse percepibile, ma è innegabile che il personaggio guadagnasse una carica drammatica di cui di suo è privo o almeno carente.
Il Tancredi della Horne era in primo luogo da vedere perchè la musica di Rossini e l’interpretazione della cantante trasformavano una donna indiscutibilmente piccola e grassa, attrice tutt’altro che irresistibile, anche se saggiamente contenuta, in eroe come la letteratura ci consente di immaginare.
Nelle riprese veneziane (dicembre 1981 e giugno 1983) la Horne era insuperabile nel virtuosismo vuoi della cavatina vuoi del rondò finale (abbassato credo di un tono), sfumatissima nelle sezioni centrali dei due duetti con Amenaide e dell’aria del secondo atto, misuratissima nel recitativo accompagnato finale. E sappiamo che la misura non era virtù e mezzo espressivo praticato d’abitudine dalla Horne.
Era, insomma, qualche cosa per cui chi ascolta oggi le registrazioni cosiddette in house può capire gli entusiasmi da stadio che le esibizioni provocavano ovunque. Ne ricordo uno solo puramente vocale l’esecuzione della cadenza alla chiusa dell’adagio del secondo duetto “Ah come mai quest’anima”. D’altra parte le cadenze servono proprio a questo. Togliamo una cadenza con il suo effetto e avremo monca l’esecuzione, anche, dell’intero duetto.
Deve essere anche detto che all’inizio degli anni ‘80 la voce della Horne era accorciata rispetto al decennio precedente e quindi fra la prima esecuzione veneziana e la ripresa vennero eliminate talune puntature acute dei recitativi, scegliendo soluzioni basse, come documentano le registrazioni, già dalla prima edizione il rondò era abbassato (mentre a Roma ed a New York nel 1978 era in tono) e soprattutto risentivano delle caratteristiche vocali il duetto con Argirio, che richiede all’allegro uno svettante registro acuto e la tendenza anche negli andanti ad emettere suono marcatamente di petto nella zona centrale . Suoni tutt’altro che gradevoli. E, forse, censurabili sotto il profilo dell’ortodossia tecnica
Specie a Venezia, se confrontati con quelli della partner veneziana che era Lella Cuberli. Che era l’altra ragione, fondatissima, degli entusiasmo del pubblico. Parlare di precisione di esecuzione, di grande acrobazia di accento patetico e di eleganza assoluta è scontato, come pure scontato mettere in rilievo una voce, che non brillava per qualità naturali. Qualità naturali, che da sole, in Rossini possono poco o nulla. Sia detto che il più credibile esegeta rossiniano, Stendhal, mai parla della bellezza della voce di un qualsiasi cantante rossiniano. Anzi se parla della voce (vedi Pasta) lo fa per ricordarne i difetti naturali, ma Stendhal è sempre concentrato ed inspirato sugli effetti espressivi ed interpretativi che la tecnica di canto consente.
Il vero vuoto della edizione veneziana, come di tutte le precedenti, era Argirio. Palacio, come Casellato, come Gonzales era un tenore leggero, anche se il centro aveva un certo peso, il colore era marcatamente chiaro e l’accento del personaggio da opera seria latitante. Palacio era un cantante da repertorio del ‘700 non da Rossini tragico. Categoria vocale ignota sino all’avvento dei tenori rossiniani di scuola americana.
Inoltre poco prima delle riprese veneziane del giugno 1983 -precisamente il 22 maggio- a New York in forma di concerto era stato eseguito il Tancredi e per la prima volta si era sentito un autentico tenore centrale (per di più in grado di interpolare sovracuti sino al mi bem e complesse figure ornamentali) nei panni di Argirio. Chris Merritt. Una rivelazione.
Le recite di Venezia erano state un autentico trionfo, rappresentavano uno spettacolo di cui il pubblico parla, sopratutto uno di quegli spettacoli, che fanno pensare e riflettere al di là dei legittimi entusiasmi del momento.
E quindi la ripresa dell’agosto 1982, che vedeva il debutto di Lucia Valentini-Terrani nel ruolo protagonistico accompagnata da Katia Ricciarelli assumeva il significato di una risposta al personaggio creato dalla Horne. Con gli immancabili confronti fra le primedonne protagoniste di entrambi i ruoli. Devo, anche, precisare che erano i confronti, che elettrizzavano il mondo operistico di allora. Rossiniano, in particolare.
Che la dote naturale della Valentini fosse cospicua nessuno lo discute, che potesse anche essere una miglior attrice rispetto alla Horne neppure, ma …..la tecnica della Valentini non era quella della Horne. I suoni bassi erano, pur in una voce di autentico mezzo soprano artificiosamente scuriti, quasi a voler richiamare sonorità maschili e la scelta si ripercuoteva sulla fluidità delle agilità e sull’estensione. Non solo, ma una voce non perfettamente immascherata e, quindi, “grossa”, ma non sonora rendeva sistematicamente opachi i numerosissimi piani e pianissimi, riducendo, e di molto, gli effetti interpretativi, tutti lodevoli e pensati. Inoltre la Valentini, pur avendo aderito alla abitudine di inserire variazioni ed abbellimenti, era ben poco convinta del loro valore espressivo e, quindi, il suo Tancredi non aveva certo le potenzialità drammatiche di quello della Horne.
In più la Valentini aveva accanto la sgangherata Amenaide della Ricciarelli, all’epoca stroncata come cantate rossinana, pur la patetica attenuante del timbro malioso, ma in realtà il suo era il canto dei sussurri e grida. Altro che belcanto o almeno canto professionale ! I si bem e si nat della grande aria del secondo atto o del duetto con Tancredi era tutti aperti e spinti, le agilità accennate, e nessuna scansione di accento.
Quanto alla Valentini all’epoca, in vena di stima e di difesa per una cantante sempre ben preparata si parlò di affaticamento dovuto ad un debutto precedente nel ruolo di Quickly. La scusante era una cattiva difesa d’ufficio perchè tre anni dopo (marzo aprile 1985) a Torino la Valentini era in evidente ed irreversibile declino con la voce accorciata, gonfiata al centro ed in basso e priva di quella brillantezza nell’esecuzione dell’agilità che le avevano dato fama e stima
A peggiorare le cose a Torino i panni di Amenaide erano indossati da Gianna Rolandi, una opulenta ragazzotta americana, che nella tecnica di canto e nel gusto richiamava la sua insegnante Beverly Sills. La voce della Rolandi, non bellissima, era, però, proiettata, agilissima ed estesa e nel canto patetico sfoggiava la dinamica sfumata della autentica interprete. In quel momento, era la più completa alternativa alla Amenaide di Lella Cuberli.
L’ultimo Tancredi pesarese (agosto 1991) della Valentini-Terrani e la di poco successiva (gennaio 1992) ripresa bolognese videro il varo di un’altra coppia protagonistica. E se quello di Bernadette Manca di Nissa, voce scura, ma cortissima e di nessuna capacità virtuosistica, pur in una versione di fatto letterale dell’opera, fu un rapporto abbastanza breve quello di Mariella Devia con Amenaide fu, invece -e forse è- un connubio lunghissimo e riuscito. Anche se la Devia cantante rossiniana e più ancora interprete rossiniana può essere discussa con fondati motivi. In primis perché la Devia non ha mai praticato la vera agilità di forza con mordente e slancio (l’unico vero slancio sembra quello del mi naturale, che ancora alla soglia dei sessanta anni Mariella Devia interpola in chiusa della grande aria del secondo atto) e quanto all’accento patetico la cantante è sfumatissima, il gioco di colori nelle sezioni centrali dei duetti e delle arie da grande professionista, ma la poesia di Lella Cuberli, sono un’altra definizione del personaggio. Credo che a Mariella Devia sfugga che l’andante rossiniano di stile patetico come pure la sezione acrobatica delle arie non sono quelle di Bellini e di certo Donizetti. Il personaggio è, e rimane, neoclassico di romanticismo neppure l’ombra. Tancredi viene rapresentato nel 1813.
Mariella Devia, monopolista o quasi del ruolo, è stata Amenaide anche nella ripresa scaligera del 1993, debutto di Luciana D’Intino. Il rapporto con Rossini di Luciana D’Intino è stato sempre e solo occasionale. Peccato perché la qualità vocale della cantante è veramente eccezionale; solo che, applicate a Tancredi, bella voce e saldezza di emissione non bastano. Senza l’accento scandito, la dinamica ricercata, l’esplosione virtuosistica degli allegri, l’ornamentazione e la diminuzione nelle sezioni patetiche, Tancredi sembra essere privo di un suo proprio connotato e l’interprete, per conseguenza, destinata a soccombere.
Insomma si può eccepire che Marilyn Horne come suo costume mentale, culturale nell’affrontare Tancredi abbia “calcato la mano”, attirando il personaggio nell’orbita dei ruoli scritti o pensati per la Pisaroni, che era, in primo luogo, una grande virtuosa, ma l’idea della Horne alla prova del palcoscenico è – complice la coloratura ancora lata e non minuta, come nelle parti successive- inattaccabile e ancor oggi insuperata.


Tancredi

Atto I
Come dolce all’alma miaKatia Ricciarelli, Gianna Rolandi
Oh patria!…Tu che accendi…Di tanti palpitiMarilyn Horne, Lucia Valentini-Terrani
L’aura che intorno spiriLucia Valentini-Terrani & Katia Ricciarelli, Bernadette Manca di Nissa & Mariella Devia

Atto II
Ah! Segnar invan io tentoChris Merritt, Ernesto Palacio
No, che il morir non èLella Cuberli, Gianna Rolandi
Ah, se de’ mali miei…Il vivo lampoMarilyn Horne & Chris Merritt
Giusto Dio che umile adoroLella Cuberli, Gianna Rolandi, Mariella Devia
Lasciami! non t’ascoltoMarilyn Horne & Lella Cuberli, Lucia Valentini-Terrani & Gianna Rolandi, Luciana D’Intino & Mariella Devia
Perchè turbar la calmaMarilyn Horne, Lucia Valentini-Terrani, Luciana D’Intino

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