Gluck: tra riforma e routine

Verso la fine del 1776, il bel mondo culturale parigino, venne “scosso” da una nuova querelle (che ricordava, per certi versi, quella da poco conclusa, detta des buffones, che vedeva contrapposti i sostenitori della nuova opera italiana – simboleggiata da Pergolesi e dai “buffi” napoletani – agli strenui fautori della tradizionale e paludata musica della Francia illuminata che aveva in Rameau il suo re sole). Questa volta l’occasione di scontro venne data dall’arrivo a Parigi di Niccolò Piccinni (l’autore della celebre Cecchina), nel quale una certa parte dell’intellettualità francese vide la bandiera della “resistenza” del classicismo al dilagare apparentemente irrefrenabile della “riforma” del più potente e ben introdotto Gluck (che all’epoca godeva della protezione della regina Maria Antonietta).
Com’è noto, i due compositori non vollero mai entrare esplicitamente nella polemica che li riguardava (anche se Gluck – si suppone – utilizzò tutta la sua influenza per ritardare il più possibile la rappresentazione dell’Iphigénie en Tauride di Piccinni, impedendo così che entrasse in diretta competizione con la sua opera omonima ed evitando che il confronto ravvicinato potesse adombrare il successo di quest’ultima). Altrettanto noto il fatto che detta contrapposizione fu più supposta e chiacchierata che reale: Gluck stesso aveva da tempo abbandonato l’originaria intransigenza della sua “riforma” (secondo la prima formulazione, nel periodo viennese), sacrificandone la “purezza” – assai pragmaticamente – alle esigenze e al gusto del nuovo (e redditizio) pubblico d’oltralpe, “imbastardendola” con il recupero di gran parte di quegli elementi decorativi legati alla tradizione francese (Lully, Rameau e Charpentier). Così pure Piccinni non era certo rigidamente ancorato ai vecchi e ormai logori schemi dell’Opera Seria, e neppure era quel baluardo inossidabile dell’ortodossia contro un preteso “progresso” (basterebbe l’ascolto di Roland, Didon e della stessa Iphigénie en Tauride – cioè le opere del suo periodo francese – per rendersi conto di come il linguaggio della tragédie-lyrique risultasse già profondamente rinnovato rispetto ai modelli e come certe soluzioni di Piccinni risultino talvolta più “moderne”, già protese ad un approccio embrionalmente protoromantico, rispetto a quelle dello stesso Gluck, che appare ancora saldamente fermo alle marmoree idealizzazioni illuministe). L’episodio – così come tutta la questione della “riforma” – al di là della sua reale portata, venne poi ingigantito e utilizzato a sproposito, enfatizzato da certa critica posteriore, scientemente frainteso e, infine, usato a pretesto nell’unico intento di mostrare una presunta superiorità di Gluck rispetto alla musica del suo tempo (Mozart incluso), in quanto epigono del futuro “dramma musicale” wagneriano. In tal senso appare assai condivisibile la riflessione del Dent che nel suo saggio “Il teatro di Mozart” scrive: “La storia dell’opera del XVIII secolo è stata in buona misura mal compresa per il fatto che tutti i nostri testi hanno tratto le loro informazioni da fonti tedesche; ed è stata tendenza invariabile degli storici tedeschi quella di esagerare l’importanza di Gluck, suggestionati dal fatto che Gluck è un compositore tedesco. Non voglio per un solo istante affermare che Gluck in quanto musicista sia stato sopravvalutato, ma è del tutto sbagliato immaginare che egli abbia distrutto in un soffio la vecchia immagine dell’Opera Seria e aperto la via a Wagner e a Richard Strauss”. Proprio a causa di questa lettura critica orientata e partigiana (quella tedesca) l’importanza di Gluck è stata largamente sopravvalutata. Così come pure è stata eccessivamente considerata la reale portata storica della sua cosiddetta “riforma”. Anche rispetto alla musica dello stesso Gluck. Infatti se si scorre la cronologia della vita e delle opere dell’autore, si vedrà che solo una piccolissima parte della sua considerevole produzione è coerente con i dettami delle sue teorie musicali. Possono essere individuati tre distinti periodi nella sua carriera: un primo periodo che va dal 1741 al 1762 in cui, compositore tra i tanti di drammi metastasiani (e neppure baciato da grande fantasia e padronanza tecnica), non si discosta dalla mediocritas degli operisti minori dell’epoca, modellata, senza neppure sfiorare l’originale, sulla falsariga di Haendel (che – ci riferisce l’impagabile Burney – dopo aver conosciuto Gluck a Londra nel 1745 confidò con spregio: “Non sa di contrappunto più del mio cuoco Waltz” – di tutt’altro tenore il medesimo fatto raccontato dal povero Gluck che, ignaro degli “apprezzamenti” del Caro Sassone parlò dell’incontro in termini assai più lusinghieri); un secondo periodo – a Vienna tra il 1762 e il 1770 – è quello della “riforma”, ma di essa gli unici risultati compiuti, in mezzo ad altri titoli che seguivano pedissequamente gli stilemi dell’Opera Seria, si limitano in effetti, a tre lavori (Orfeo ed Euridice, Alceste, Paride ed Elena): solo in essi hanno trovato una reale e completa applicazione, le teorie elaborate di concerto con Ranieri de’ Calzabigi (mediocre intellettuale di fede intransigentemente razionalista e con velleità letterarie, i cui risultati più interessanti – anche se non del tutto originali– non vanno ricercati tanto negli imbarazzanti libretti gluckiani, quanto nelle prefazioni agli stessi, testimonianza della temperie culturale dell’epoca – richiamando per certi versi, gli autori del futurismo italiano: tanto prolifici in proclami e manifesti estetici ed artistici, quanto inconcludenti nei modesti, quando non pessimi, risultati letterari). Infine un terzo ed ultimo periodo, quello dei trionfi parigini, dal 1767 al 1779, l’anno del tonfo di Echo et Narcisse e del conseguente ritiro dalle scene musicali: in questa ultima fase Gluck, com’è noto, rivedrà e disattenderà, almeno in parte, i motivi programmatici della sua “riforma”, rinnegandone l’originaria severità ed intransigenza, dandosi alla rielaborazione dei suoi successi viennesi e componendo nuovi lavori nel recupero di quegli elementi puramente decorativi, danze, balli, effetti strumentali, divertissement – ed indulgendo pure in abbellimenti vocali – contro cui tanto aveva combattuto a Vienna.
Gli elementi chiave della riforma gluckiana sono noti: essi riguardano tanto la struttura dell’opera, quanto il trattamento vocale e il ruolo dell’orchestra. Come si legge nella celebre prefazione all’Alceste (che ricalca, però, molte delle teorizzazioni di Francesco Algarotti) i principali punti programmatici sono: l’abolizione delle arie col da capo e la conseguente eliminazione di cadenze e di ogni altra libertà di improvvisazione virtuosistica (limitando così l’esibizione dell’interprete, da sempre fulcro e protagonista dell’opera, a fedele esecutore della pagina scritta), l’attenuazione dello stacco tra recitativo (non più secco, ma accompagnato) e aria, ampliamento del ruolo del coro (nell’intento di richiamare la funzione di quello delle antiche tragedie greche), una sinfonia iniziale tendenzialmente ridotta (rispetto a quelle in tre tempi, della tradizione haendeliana) e finalizzata ad introdurre l’ascoltatore nel clima dell’opera ricalcandone, quindi, il tono (eroico, pastorale, drammatico etc…). Ovviamente tutto ciò non è “apparso dal nulla” nella storia del mondo, frutto della superiore genialità di compositore e librettista, ma, come sempre accade, deriva da un processo più lungo e sedimentato nel tempo (si pensi ad esempio agli oratori di Haendel, che già – senza alcun bisogno di dichiarare riforme o rivoluzioni – presentano molte delle caratteristiche suddette): merito di Gluck e Calzabigi è certo quello di averlo teorizzato in modo sistematico, tuttavia vanno riconosciuti, in tale operazione, i tanti debiti contratti con predecessori e contemporanei e la reale incidenza di tali teorizzazioni (al di là, quindi, delle forzature che la critica tedesca – imbevuta di wagnerismo – ci ha inculcato). A ben guardare, infatti, ben più incisivi nell’evoluzione dell’opera, sono stati i lavori teatrali di Mozart, e non soltanto la trilogia dapontiana (che da sola basterebbe a smentire gli assunti di tali posizioni ideologiche), ma anche e soprattutto Idomeneo e La Clemenza di Tito, per non parlare delle grandi Arie da concerto. Eppure ancora oggi certa critica (e non solo germanica) ripete la vulgata di un Gluck riformatore che in un soffio distrugge l’Opera Seria e getta le basi della “musica dell’avvenire”, mentre Mozart si accoda, influenzato e soggiogato dal modello, senza mai riuscire – soprattutto nei lavori seri – ad avvicinarvisi. La realtà è ben diversa. Mozart vive sì in un ambiente musicale che deve giocoforza confrontarsi con la “riforma” gluckiana, la Vienna della seconda metà del ‘700, tuttavia fin da subito si allontana da questo presunto modello per seguire una strada assolutamente originale e priva di dogmatismi. L’Idomeneo, per fare un esempio, non ha nulla da spartire con le teorizzazioni di Gluck/Calzabigi, sia per il trattamento del soggetto, sia per la realizzazione musicale: esso, anzi, si rifà costantemente alle grandiose costruzioni haendeliane, operistiche e oratoriali (i grandi cori e i recitativi accompagnati ne sono una esemplificazione). E’ un’opera italiana e metastasiana, ma rivista attraverso il linguaggio personale e geniale dell’autore. Mozart rivoluziona l’Opera Seria dall’interno delle sue forme e strutture. Le forza, le porta al limite estremo, senza mai scardinarle esplicitamente. Senza rigidità dogmatiche, senza ideologie, senza schematismi programmatici. Non abolisce, ad esempio, il virtuosismo vocale tout court, in nome di una non meglio precisata verosimiglianza drammatica (se è vero che le persone normalmente non “gorgheggiano” è pur vero che, nella vita di tutti i giorni neppure dialogano cantando: ergo l’opera lirica non potrà mai essere “realistica”), semplicemente lo rende evocativo ed espressivo di per sè, attribuendogli significati ulteriori che non il mero esibizionismo vocale. Ma non vi rinuncia in base a preconcetti e teorizzazioni. Non si assume l’incarico, o la missione, di rivoltare il mondo dell’arte per riportare in vita la tragedia greca (evidentemente i tedeschi non riescono a concepire sé stessi senza sacre missioni da compiere o reich millenari da costruire: ma si sa come è andata a finire…). Per lungo tempo però la critica, troppo occupata a immaginare improbabili parallelismi Gluck/Wagner, non ha avuto il tempo, l’occasione e, soprattutto, la voglia di accorgersi di come l’evoluzione dell’opera lirica in generale, sia debitrice dell’austriaco Mozart più che delle intellettualistiche teorizzazioni del collega tedesco e di come il primo, in realtà, non possa in alcun modo essere considerato un emulatore del secondo (e restando a Idomeneo, gli unici episodi in cui può ravvisarsi una certa influenza gluckiana, vanno circoscritti al lungo Intermezzo tra primo e secondo atto, di natura essenzialmente decorativa con cori, danze e marce, ed al Balletto finale: cioè le parti meno significative dell’opera).
Un esempio rilevatore delle differenze tra i due approcci – dovute non tanto al breve spazio temporale che separa i due autori, quanto piuttosto alla incolmabile diversità di sensibilità, abilità e concezione musicale, va ravvisato nel trattamento che entrambi riservano all’aria “Popoli di Tessaglia”. L’Alceste di Gluck (1767), da cui è tratto il brano, è forse l’opera che più di tutte applica rigorosamente gli assunti della “riforma”. Tuttavia il confronto con l’Aria da concerto KV 316 di Mozart (1779) ne rivela tutti i limiti. Già a partire dal recitativo iniziale: secco e scarno in Gluck, laddove Mozart lo veste di uno straordinario accompagnamento orchestrale: un vigoroso sostegno sinfonico di incredibile varietà e movimento ad una altrettanto movimentata linea vocale. A distanza ancora più incolmabile le due arie: mentre la prima non si discosta da un’algida e plastica compostezza formale, con uno strumentale ordinato e schematico che si limita ad accompagnare la retorica del fraseggio vocale, la seconda, nel suo alternarsi di tempi (andantino sostenuto e cantabile, allegro assai), di inserti strumentali e di scalate vertiginose in cadenze ed agilità (di gusto e valore totalmente “nuovo” rispetto alla mera esibizione vocalistica, che pure non manca) sino alla vertiginosa altezza del Sol5, assume un carattere di tale grandiosità e complessità, di fronte al quale impallidisce il preteso e pesunto modello gluckiano. Eppure la solita critica ha ripetuto e ripete ancora, l’inferiorità drammatica e musicale dell’aria di Mozart. Cos’altro, se non l’esagerazione dell’incidenza e della reale importanza della “riforma”, ha potuto portare alla mala fede di un tale pregiudizio?
Questa sopravvalutazione ha spiegato, poi, i propri effetti anche nei confronti del catalogo dello stesso Gluck: in particolare quello non riformato che, abbastanza rapidamente, ha conosciuto un oblio pressocché totale. Spesso giustificato dalla evidente modestia e mancanza di ispirazione di quei lavori (se confrontati con i grandi capolavori francesi), in alcuni casi, almeno a giudicare da quei pochi segni che sembrano ultimamente riemergere, resta però un oblio ingiusto. Preso atto della convenzionalità di quei lavori, infatti, neppure riscattata da una particolare abilità tecnica (che Gluck non padroneggiò mai compiutamente) né da una costante e felice ispirazione (se confrontata ad altri suoi colleghi, senza scomodare il sommo Haendel, quali lo stesso Piccinni, Galuppi, Jommelli), si tratta comunque, di opere che, talvolta, ben possono essere accostate ai titoli più celebrati del periodo riformato. Nonostante certa critica abbia sempre considerato con imbarazzo quei lavori (che occupano la maggior parte del catalogo gluckiano). L’Ezio, ad esempio – sia nell’essenziale versione praghese del 1749, sia nella radicale revisione approntata per Vienna nel 1763 – ha pagine di grande bellezza (penso alle grandi arie di Fulvia – la vera protagonista dell’opera – e su tutte “Misera, dove son! …Ah! Non son io che parlo” che, pur non distaccandosi dal modello haendeliano, si evidenzia per la levigatezza formale, di neoclassica purezza screziata da agilità anche impegnative, e per la ricerca di un Bello Ideale che anticipa le pagine più riuscite dei suoi capolavori francesi) che nulla hanno da invidiare all’interminabile sequela di scarni recitativi e accenni di ariosi (ancor più scarnamente accompagnati) che costituisce l’Alceste (prima versione), dove la medesima costruzione musicale (seppur di plastico e sublime declamato classicheggiante), rigidamente ancorata al tono elegiaco, si ripete per le 3 ore di durata dell’opera, sortendo, alla fine, un senso di innegabile monotonia. Le stesse osservazioni si possono ripetere per La Clemenza di Tito o per L’Innocenza Giustificata (in particolare l’aria di Flavia “D’atre nubi” con il suo virtuosismo “barocco” oppure la suggestiva cavata di Claudia “Fiamma ignota”). Ma anche per titoli oggi misteriosi come Semiramide Riconosciuta, Il Re Pastore, Antigono. Una seconda conseguenza la rileviamo oggi: l’assenza nei teatri e nel mercato discografico del Gluck pre-riformato. Con poche eccezioni, infatti, ci si è esclusivamente concentrati sulla produzione in francese (che in effetti è la più interessante) o sul solo Orfeo ed Euridice (pur in versioni “spurie”) ignorando quasi del tutto le opere precedenti. In questi ultimi anni tuttavia, si assiste ad un rinnovato interesse verso i titoli antecedenti la “riforma”, anche se, purtroppo, vengono affidate quasi esclusivamente a compagini baroccare e soffrono, soprattutto dal punto di vista vocale, delle carenze più vistose (e dal momento che spesso l’ipotetico interesse per quei lavori risiede solo nell’eccellenza dell’esecuzione, si comprende quanto siano rilevanti le deficenze dei cantanti). Oggi sono disponibili entrambe le edizioni di Ezio (ma entrambe presentano un controtenore come protagonista, oltre a tutti i vezzi delle esecuzioni barocchiste), Aristeo e Bauci e Filemone (per le cure di Roussett che, pur con grande sforzo e impegno, non riesce a rimediara alla scelta di un cast del tutto inadeguato a restituire un minimo di linfa vitale a quelle due assai poco ispirate feste teatrali). Si può agevolmente reperire, L’Innocenza Giustificata: anche qui il cast è squilibrato (soprattutto il tenore è censurabile e rovina la bellezza della prima aria di Valerio “Sempre è maggior del vero”, eseguita mostrando ogni sorta di problema, dalla pronuncia pessima ai fiati corti, dalle agilità pasticciate agli acuti difficili, all’approssimazione di fraseggio). Di altrettanto facile reperibilità vi sono altri titoli editi da Orfeo (La Corona, La Danza, Le Cinesi, I Pellegrini della Mecca): non sono incisioni recentissime e tradiscono una certa pesantezza esecutiva di insopportabile marca teutonica. I cantanti impiegati, poi, sono quasi tutti estranei all’estetica belcantista (e alla lingua italiana). Non c’è molto altro. Ovviamente si tratta di lavori minori, spesso modesti, poco ispirati e noiosi. Ma anche questo è Gluck. Ed è indispensabile conoscerlo per valutare senza le facili suggestioni di certa agiografia interessata e partigiana. Lungi da me l’idea di sostenere che siano migliori delle grandi opere del periodo parigino, ma resta il fatto che la comprensione dell’autore resta parziale qualora non si voglia considerare anche quei titoli (che costituiscono, poi, la maggior parte del suo catalogo): titoli in cui il preteso “riformatore” appare molto più ancorato a stilemi usurati e stanchi (e pure mediocremente maneggiati, quanto a qualità musicale e freschezza di invenzione) dei presunti “conservatori”, oggetto critico delle sue teorizzazioni estetiche. Solo riflettendo su questo – abbandonando le facili verità della vulgata ufficiale, tanto comode e rassicuranti, quanto ingiuste e preconcette – si può comprendere quell’universo variegato e multiforme che è l’Opera Seria nella sua stagione estrema: un periodo di profondi cambiamenti che porteranno le forme di quel modello ad espandersi e ad estremizzarsi, fino a Mozart (La Clemenza di Tito ne è un superbo ed ancora frainteso esempio) e fino a Rossini (cosa sono Semiramide o Guglielmo Tell se non due Opere Serie, le cui strutture sono portate sino al “punto di rottura”, ma senza mai perderne il controllo?). Ed in questa evoluzione (c’è chi dice lunga decadenza, ma non sono d’accordo) Gluck non è certo la chiave di volta, non è certo il “distruttore”, non è certo colui che prepara il terreno a Wagner e Strauss (questo lasciamolo credere ai critici tedeschi et similia). Le radici della trasformazione vanno individuate in Haendel, nel belcanto, negli “sconfitti” di quella storica querelle e nei figli più illustri ed eterodossi di quella tradizione (sempre Mozart e Rossini), che senza dogmi, ideologie e costruzioni quasi metafisiche, hanno, magari controvoglia e con diffidenza, aperto la strada al protoromanticismo, al melodramma e a tutto ciò che ne è conseguito (Wagner incluso…). Scriveva Goethe: “grigia è ogni teoria, verde è l’albero della vita”.

Gli ascolti

Ch. W. Gluck – Alceste

Atto I: Divinità infernal Ebe Stignani

Atto II: A’ vostri lai Leyla Gencer

N. Piccinni – Didon

Atto II: Ah! que je fus bien inspirée Yvonne Brothier

19 pensieri su “Gluck: tra riforma e routine

  1. Mi dichiaro sinceramente ammirato da quest’articolo (che forse più propriamente meriterebbe il nome di “saggio), esauriente, documentato, chiarissimo. Mi ha ricordato alcuni commenti caustici di Rodolfo Celletti sia su Gluck che su Calzabigi…

    Continuate così, per la mia gioia (e spero di molti altri..)

    Gabriele Brunini

  2. Complimenti davvero per il saggio… Scritto con chiarezza ed erudizione davvero notevoli… Un solo appunto: il lavoro del Dent, nonostante l’importanza, è un tantino superato (l’edizione originale inglese è del 1913!!!).
    A ciò si unisca che è doveroso, a mio modo di vedere, un cenno a quel vero e proprio rompicapo filologico che è il Telemaco, altra opera cosiddetta “riformata” di Gluck (la prima rappresentazione avvenne a Vienna nel 1756 per le nozze di Giuseppe e Maria Josepha…), ma che presenta non pochi spunti di grande interesse esecutivo (l’opera si basa in massima parte su materiale preesistente reimpiegato, ma soprattutto i cori sono di una grande bellezza… Non mi pare ci siano incisioni; una rappresentazione dovrebbe essere stata messa in scena a Salisburgo nell’87, ma non so con chi e da chi…).
    Comunque COMPLIMENTI davvero!!!

  3. Tutto quello che vuoi, Velluti, ma il valore e l’importanza di un testo non si misurano in base alla sua età…

    Del Telemaco esiste una registrazione dal vivo (ovviamente non in commercio, ma scaricabile dal web) effettuata a Vienna nel 1987, con Grace Bumbry nel ruolo del titolo.

  4. Beh, caro Tamburini, il valore di un testo è inevitabilmente sottoposto al passare del tempo… Se non altro perchè la scienza progredisce e mutano le prospettive metodologiche con cui si guardano ai fenomeni… E’ inevitabile… Nulla da togliere però al lavoro del Dent, che è tuttora fondamentale…

  5. Le prospettive metodologiche mutano, questo è sicuro, ma non è detto che tali trasformazioni si traducano in un vero progresso… Se penso che ho recentemente sentito un importante critico musicale italiano (di cui non farò il nome, perché mi fa un po’ pena) definire Cecilia Bartoli una “musicista/musicologa/vociologa” (!!!) che ci riporta alla vocalità di Maria Malibran… direi che non c’è altro da aggiungere!

  6. Il mio appunto era riferito semplicemente alla data del testo del Dent (senza nulla togliere al suo fondamentale studio). E’ indubbio che solo dopo gli studi di Mila si sia incominciato a capire davvero cosa sia il teatro mozartiano nella sua “globalità”… Di certo non ogni trasformazione è un progresso, ma non capisco perchè si debba pensare allo sviluppo storico in termini necessariamente di progresso o regresso… E’ un’idea crociana (e hegeliana) dello sviluppo storico – la cui matrice è occidentale e “cristiana” (blahhhhh!!!) – che la filosofia del ‘900 (quella si che ci voleva, per far entrare un po’ d’aria nelle chiuse e polverose “sagrestie” della cultura italiana dell’800-‘900, della cui arretratezza facciamo ancora le spese!) ha definitivamente abbandonato. Le prospettive di indagine su un fenomeno mutano; se in meglio o in peggio questo dipende dai parametri con cui si valutano gli stessi fenomeni. Sul critico della Bartoli non so che dire… Ma come non ricordare le terribili stroncature del grande Pannain ai danni della Callas? Critici cattivi ce ne sono stati, ce ne sono e ce ne saranno… In barba ad ogni qualsivoglia idea di evoluzione (o involuzione!!!).

  7. Innanzitutto ringrazio per l’apprezzamento.

    Il testo del Dent è certamente risalente nel tempo (ma questo, come ben ha scritto Tamburini, non significa che sia superato), tuttavia ha posto i riferimenti essenziali per gli studi successivi sul teatro mozartiano (di Mila, ma anche di Kunze). Del resto l’idea di un Gluck “che spazza via l’Opera Seria e apre la strada a Wagner” è mistificazione assai più risalente del testo del Dent, eppure a tutt’oggi è ripetuta e riproposta da parte di certa critica e accolta senza riserva dalla vulgata più o meno popolare (su riviste e siti internet anche specializzati, ho di recente letto affermazioni che riportavano pacificamente – e come verità incontentestabile – ad un Gluck che anticipa Wagner e il “dramma musicale).

    Neppure io reputo ogni trasformazione come un progresso migliorativo rispetto a ciò che la precede: è un comodo schematismo costruito ex post per poter dimostrare – attraverso un uso scorretto delle fonti storiche – determinati assunti ideologici (come tutta la questione della cosiddetta “riforma”). Ed infatti, nello scritto, rifuggo dall’idea di Gluck come colui che da solo distrugge l’Opera Seria.

    Non conosco molto bene il “Telemaco” e le sue vicende, tuttavia non lo riterrei certo espressione coerente delle teorizzazioni della “riforma” (anche se il libretto è adattato da un allievo di Calzabigi su di un vecchio originale scarlattiano): protagonista è un castrato e la musica in gran parte è presa da lavori precedenti (quindi non riformati). E’ un lavoro preparato in fretta e furia dal compositore per un’occasione mondana e che non fu neppure completato, mi pare. Certo anche questo è Gluck (come ho scritto).

  8. Cari Velluti, al di là delle opinioni di Dent e del caso specifico, mi sento di invitarti soltanto a questo: non avere una concezione positivista della scienza e della produzione scientifica. Ossia, non ritenere che il presente sia sempre e comunque meglio del passato solo perchè è presente, e moderno. Ahimè, questa concezione, di origine ottocentesca, come tu sai, ci affligge nelle arti come nella scienza, e potrei documentarti molti casi( extramusicali soprattutto ) in cui questa presunzione ha prodotto scienziati miopi, che hanno spazzato via molto del background che li ha preceduti, senza sostituirlo con visioni e conoscenza delle cose di pari respiro.
    Oggi abbiamo grandissimi esperti di DETTAGLI, conoscitori finissimi di particolari ( talvolta anche caccole …..!!!!!) ma studiosi incapaci di avere una visione generale di una materia e di trarre una conclusione personale…..Ecco, non entro nel merito del Dent, nè mi permetto di fare allusione alcuna, ma permettimi di invitarti a non sedere ingenuamente nella poltrona sicura del positivista, che si ritiene più avanzato perchè moderno.
    Dai, ti saluto con una provocazione delle mie:….in fondo l’arte del canto è certamente in regressione oggi come non mai, perciò……perchè non ammetti che ciò possa avvenire anche mondo degli studiosi????
    ciao e a presto!

  9. Gentile sig.ra Grisi, la mia percezione della scienza è assolutamente antipositivista, glielo posso assicurare! Non a caso rifuggo, nel mio intervento, da ogni idea di evoluzione. Proprio in virtù di questo inviterei a non usare, però, nemmeno il concetto di “involuzione”, il quale è anch’esso figlio del positivismo (il termine essendo modellato su quello di evoluzione, espressione della teoria darwiniana!).
    Per quanto concerne il mondo degli studiosi, è indubbio che oggi è molto difficile trovare persone che abbiano una vastità di competenze pari a quelle del passato (proprio perchè è cambiato il modo di studiare e sono cambiate le istituzioni accademiche). Ma è altrettanto indubbio che rimpiangere il passato non serve a granchè, se questo non si traduce in una operatività di qualsivoglia natura… A meno chi non lo fa non ritenga di essere, semplicemente per il fatto di portare dei fiori su una tomba, espressione di quel passato che non c’è più e in virtù di questo si senta investito di una superiore missione, una sorta di moralizzatore delle umane genti. Cara s.ra Grisi, di solito i moralizzatori hanno ben poco da dire… Ripiegandosi sul passato, non fanno altro che rimpiangerlo, e, in virtù di questo, non riescono a costruire nulla di realmente nuovo. Si immagini se tutti incominciassero a rimpiangere lo splendore dell’antica Roma e, a forza di piangere e lamentarsi per la sua scomparsa, e disprezzando tutto quello che è venuto dopo, si mettessero a scrivere e a vivere come si faceva allora… Questo assicurerebbe un ritorno a quel passato? Direi proprio di no… Preservare il passato significa, volenti o nolenti, adattarlo e rifunzionalizzarlo… Immetterlo nel sacrario del mito è pericoloso, dato che il mito è, per sua natura, qualcosa che rifugge dal reale… Il mio appunto era semplicemente sulla data di un testo, e quando si fa scienza bisogna “purtroppo” essere aggiornati, soprattutto quando si vuole criticare e rilevare mancanze… E questo lo dico senza nulla togliere allo splendido saggio su Gluck, scritto davvero bene…
    Sa sig.ra Grisi, quando penso a coloro che amano il passato in maniera “a-critica” e quasi fanatica, mi viene in mente la figura di Monti… A parte il fatto che la moda dell’epoca comportava – per coloro che scrivevano testi improntati all’antico – un maggiore guadagno in termini economici (per cui non so fino a che punto il tanto dichiarato amore di Monti per l’antichità fosse disinteressato, così come il dispregio nei confronti dei cosiddetti “novatori”, evidentemente avvertiti come concorrenti temibili, e quindi da dileggiare…), resta che le sue odi, tutte lambiccate e smancerose, nonostante la tendenza a imitare l’antico, restano pur sempre delle imitazioni, che dell’antico non hanno assolutamente nulla… Il punto, cara s.ra Grisi, è che riprendere il passato è sempre e comunque riprendere una percezione parziale di quel passato, è sempre un adattamento e una rifunzionalizzazione, che dice molto proprio sulla sensibilità di chi attua l’operazione, e poco (molto poco!!) su quel passato che si pretende di riprendere e far rivivere. La percezione che oggi si ha di Mozart è piuttosto diversa da quella che aveva il Dent… Ma ciò non significa che quella del Dent fosse più vicina alla realtà (cos’è la realtà “Mozart”? Questa è, nella sua più intima essenza, inattingibile)… Sono entrambe figlie di un’epoca, sono entrambe frutto di una prospettiva ermeneutica… Anche la sua critica ai “novatori”, cara s.ra Grisi, è frutto di un’epoca e, qualora l’avesse fatta in quel periodo a cui lei guarda con tanta ammirazione, non avrebbe avuto assolutamente alcun senso. Per questo, cara s.ra Grisi, i moralizzatori, di qualsiasi epoca e contesto, hanno fatto sempre e tutti la fine del marchese Capponi: ci ricordiamo di lui perchè è proprio un “novatore” a parlarne!!!

  10. Caro Velluti,
    la trovo veramente poco…..estivo! Fa troppo caldo per un post così lungo e per rispondere con analoga lunghezza.
    Una sola parola: moralizzatori!
    Siamo oggettivamente in crisi di vocalisti: i cantanti sono sempre malati, danno forfait, non riescono ad essere uguali tutte le sere, il repertorio ormai incantabile è sempre più vasto; stentiamo a produrre cantanti e direttori che reggano le serate come si è sempre fatto; a 40 anni in cantanti si ritirano;….etc.
    Lei ci accusa di moralismo in tanto sfascio, quando è divenuto impossibile dirigere decentemente la Traviata in un teatro come la Scala di Milano? Siamo noi i moralizzatori in un ‘epoca in cui questa arte ha perso i fondamenti minimali su cui si è retta per secoli? e senza i quali non può reggersi?

    Ma caro Velluti, ti invito all’obbietività ed al realismo!
    Abbiamo dei problemi oggettivi nel mantenere viva l’arte del canto, tanto da far pensare che si sia giunti alla fine di questa arte, come già molte volte in passato.
    Scomparvero la glittica, l’arte dei fondi oro, dello stucco finta pietra, delle vetrate; la tecnica delle piramidi e degli zigurrat…..è la storia che viaggia così, in modo discontinuo.
    Sarò moralizzatrice ad oppormi ai modi del presente e ad interrogarmi ferocemente sui perchè, may be, ma……..non sono ancora pronta, come evidentemente lo è lei, a far senza il recitar cantando!

    saluti

  11. caro velluti,
    siccome sono un povero, ignorante hobbista parole e categorie messe in campo da chi sia ben più dotto di me mi lasciano molto perplesso.
    Sono convinto che la vita dell’essere umano non possa prescindere dal passato, proprio ed altrui.
    Proprio perchè ciascuno di noi vive delle pregresse, proprie esperienze di ogni genere.
    Altrui per quello che può apprendere dal contatto con il mondo esterno, muovendo dalla famiglia, dalle persone con cui per le più svariate ragioni viene in contatto, sino alle letture e ad ogni approccio culturale.
    In pratica non siamo e non possiamo essere il buon selvaggio. Buon selvaggio, che rappresenterebbe il sogno delle case discografiche, dei loro falsi divi dell’ugola o della bacchetta, dei loro manutengoli sparsi per quotidiani, riviste, che si dicono specializzate, fori.
    Anzi per parte mia non voglio esserlo.
    Quindi non posso entrare in un teatro senza il bagaglio (purtroppo incompleto per la limitatezza della umana natura) del passato. Se poi questo è essere moralisti o passatisti non so e forse non lo voglio sapere. E, più ancora, non
    mi interessa sapere.
    Pragmaticamente mi limito ad osservare che i cantanti di oggi cantano sempre peggio, che le divette da copertina non hanno la preparazione tecnica e musicale delle dive di regime di un tempo o delle pin-up del Met anni ’30, che tacciate di essere tecnicamente mediocri furono per vent’anni Butterfy, Carmen etc mostrando quanto meno una resistenza che deriva dalle cognizioni del proprio mestiere.
    Ha mai paragonato la resa vocale di due belloni anni ’30, come Kiepura e Pattiera, con i belloni di oggi, che calano, stonano nel “parigi o cara” o ascoltato veline e sirenetti, per i quali la scena della seduzione della Manon di massenet è diventato un defilé di biancheria intima, accompagnato da urti e strilletti.
    Ridateci il solido mestiere (non tiriamo in ballo la parola arte, che c’era, per altro) di Antonio Guarnieri, che nel volger di mezz’ora, concertò Manon di Massenet all’arrivo di Schipa, che sostituiva il “bombardato” Gigli nel 1943. Fonte Mafalda Favero. Davanti a questo esempio gli odierni dierettori sono uno scempio ed una jattura peggiore dei cantanti e sono, mi scusi signor Velluti, la prova che solo il ritorno al passato può consentire ad un’arte, che è manifestazione del passato, di provare a sopravvivere.
    Proprio Lei che per scrivere qui ha scelto il nick name di chi fu ultimo e rimpianto da Rossini come ultimo rappresentante dell’ARTE critica il richiamo al passato e l’istanza di un suo costante riferimento.
    Mi scusi ma non era meglio come nick name un bel Jonas Bartoli?
    saluti domenico

  12. Non credevo che il mio intervento su Gluck suscitasse un dibattito sui “massimi sistemi” di arte e scienza o sui rapporti tra passato e presente. Detto questo, e volendo anch’io risponderti, caro Velluti, circa l’accezione che dai alla definizione “moralizzatori” con la quale, mi sembra, tu voglia indicarci, non posso che essere d’accordo con chi mi ha preceduto. Vorrei solo aggiungere che bisognerebbe fare un pò di chiarezza in definizioni e titoli. Un atteggiamento passatista (nell’accezione spregiativa) è quello di colui che A PRESCINDERE da ogni circostanza esalta il passato al solo scopo di denigrare il presente, senza – per far ciò – avere necessità di motivare e spiegare le proprie valutazioni. Attribuirci questo genere di approccio è ingiusto e sospetto (nel senso che tradisce un espediente dialettico: distorcere, attraverso un consapevole fraintendimento, le tesi avversarie sino a renderle ridicole e poco serie, al fine di ridicolizzarle confutandole – come insegna Schopenauer in un suo fortunato libello). In realtà il passato per noi è un punto di riferimento che permette il confronto. E il confronto è l’essenza di ogni critica che si vuole onesta e libera. Non c’è nessuna tesi da dimostrare e nessuna ideologia da sostenere: solo un’amara – spesso – constatazione della realtà. Se nel confronto appaiono chiaramente i tanti problemi che affliggono oggi l’arte del canto, colpa non è certamente nostra (che non sospiriamo invocando “Caffariello…”), bensì è merito di un presente che ha perso la bussola in questa disciplina. I fatti sono incontestabili e già la Divina Grisi li ha elencati (dai forfait alla mancanza di affidabilità tecnica, dalle durate delle carriere al restringimento del repertorio, dall’imbarazzo di non riuscir più a fare un Traviata decente all’aumento dei ruoli “incantabili” etc…). E così pure sono stati ben esposti i motivi di interesse di quello che è oggi il mondo dell’opera. Ne prendiamo atto. Non ci illudiamo di far rivivere glorie passate, ma, per cortesia, non ci si costringa – per amore della pace – a ringraziare e a godere buoni buoni di ciò che ci viene propinato! Quando però, purtroppo non spesso, capita di imbattersi in chi merita ne diamo conto con piacere ed entusiasmo. E non è colpa nostra se chi merita parla un linguaggio tecnico ferrato e solidissimo (proprio come i grandi interpreti del passato). Ma il dubbio che una solida preparazione tecnica sia l’unica chiave di volta per cantare bene e conservare mla voce per tutta una carriera non ti sfiora minimamente Velluti? O anche la tecnica è passatismo e moralismo? Certo il confronto è scomodo perchè comporta onestà e intelligenza, in un mondo dove queste parole hanno perso molto del loro “corso legale”. Il confronto può essere antipatico, cattivo, spietato pure. Ma è strumento sincero e oggettivo. Liquidarlo con uno schizzinoso “moralizzatori passatisti” tradisce una certa mala fede in chi lo afferma.

  13. Francamente non pensavo neanche io di suscitare una tale bagarre, per affermazioni che sono succedute a una provocazione che mi è stata lanciata, forse proprio per trascinare la discussione su un aspetto che non era nemmeno sotteso a quello che voleva essere un semplice complimento per l’articolo su Gluck.
    Detto questo, voglio precisare una serie di aspetti (e non me ne voglia la Grisi se – nonostante il caldo – mi dilungherò… Comprendo, però, che per una che passa i pomeriggi estivi sui circuiti motociclisti il caldo deve essere veramente insopporrabile).
    1. Ritengo che il passato dell’opera vada conosciuto, apprezzato, additato come esempio… E non mi sognerei mai di dire il contrario… Mi piacerebbe mostrarvi la mia collezione di dischi, cd e musicassette (si! Uso ancora le musicassette, proprio perchè molte di quelle esecuzioni che adoro, in nome non so di quale barbara politica commerciale, non sono state riversate in CD) – quasi 5.000 tra opere, recital, selezioni, collezioni… L’80% sono esecuzioni che oscillano tra gli anni 40 e gli anni 80… Non sono un grande estimatore dei cimeli anni ’10 e ’20, ma perchè li trovo poco godibili e non del tutto fededegni per quanto concerne il ritratto vocale degli interpreti…
    2. Ritengo che la tecnica di cantanti come Schipa, Gigli, Callas, Scotto, Sills, Sutherland, Horne, Verrett, Freni, Caballè, Gruberova, etc. etc. e voci come quelle di Muzio, Caniglia, Stignani, Barbieri, Tebaldi, Simionato, Bastianini, Cossotto, etc. etc. non ci siano e non ci saranno mai più…
    3. Ritengo che spettacoli storici come la Norma del ’55 alla Scala, o la Forza del destino di Firenze diretta di Mitropulos, o il Macbeth della Scala diretto da Abbado o la Forza del destino diretta sempre da Abbado, siano dei fari che risplenderanno per sempre ad indicare la strada per coloro che si immettono nella navigazione nel mare dell’opera…
    4. Ritengo che quanto oggi accade in moltissimi teatri sia davvero straziante, e offenda una tradizione gloriosa che va tutelata e preservata.
    Detto questo, mi preme però sottolineare che:
    1. Una tradizione va preservata non semplicemente mostrando dei modelli e rilevando quanto questi siano lontani dall’attuale, ma cercando di storicizzare il più possibile, il che non vuol dire demolire, i cambiamente avvenuti, e rilevando che cambiamenti sono avvenuti anche in quel passato che rappresenta il modello del confronto. Insomma, all’epoca della sua apparizione, il fenomeno Callas sembrò a moltissimi critici una sorta di non sense; leggere certe stroncature del grande Pannain (addirittura si diceva che sentire la Callas cantare in forte era come sentire un pianoforte scordato a cui era stata tolta la sordina… Cose da pazzi!!!!) – fatte in nome della “tradizione”, lette con gli occhi di oggi, non possono non far sorridere, eppure sono specchio di un’epoca, nonostante il prosieguo abbia dato ragione al canto della Callas e non alle critiche di Pannain.
    2. Io credo – ma questa è una mia personale visione dei fatti (e sottolineo che non credo che vi appartenga) – che la vuota venerazione dei cimeli sia, molto spesso, qualcosa che nuoce molto alla preservazione e tesaurizzazione del teatro operistico… E’ vero che oggi l’aspetto registico è, il più delle volte, un vero fallimento che snatura la più intima essenza del teatro operistico; ma è pur vero che esistono ancora registi pieni di gusto, uno su tutti Pizzi (il suo recente Ernani a Trieste è stato, sotto il lato espressamente estetico, un bello spettacolo; i costumi erano bellissimi, e anche la regia si è rivelata abbastanza aderente alla sottile retorica che pervade l’opera), oppure Hugo de Ana (penso al Trovatore scaligero diretto da Muti; la caterva di cadaveri dell’ultimo atto era piuttosto suggestiva, così come la scena del convento). E’ verissimo che oggi l’aspetto canoro è in profonda decadenza, decadenza che sfiora in molti casi l’indecenza vera e propria (il caso Theodossiu, ad esempio, e qui mi fermo per buon gusto!!!), ma è anche vero che esistono ancora cantanti dotati di grande e solida tecnica (una su tutte la Devia, a mio parere da voi trattata ingiustamente, la quale canta tutto con gusto, pur non eseguendo sempre opere adatte alla sua vocalità… Ma questo accadeva anche nel passato, e non di certo con esiti sempre migliori!!!), ma anche la sig.ra Pratt (che ho conosciuto personalmente al corso diretto dalla Scotto… Una carissima ragazza!!!), o la sig.ra Dessay (nonostante l’attuale declino vocale… Ma molte delle sue esecuzioni le trovo, è un mio gusto personale, di alto livello), o altri di cui avete reso conto nel vostro sito (penso ad esempio a John Osburn, la cui esecuzione dell’aria del Guglielmo Tell mi piace moltissimo!!!!). Per quanto concerne l’aspetto direttoriale, devo dire che oggi si è fatto molto di più rispetto al passato; di certo non esistono più i Karajan, i Schippers, i Mitropulos, i De Sabata, i Toscanini, ma quelli erano tutto sommato eccezioni. Oggi è indubbio che il livello dei musicisti sia, di media, più alto rispetto al passato, ed è altrettanto indubbio, secondo me, che le orchestre suonino molto meglio… Di rado si ascoltano bande che accompagnano con tenui valzerini… L’opera è si canto, ma è canto accompagnato da un’orchestra, la quale amplifica ulteriormente il momento drammatico. Il Mozart di Muti, insomma, è stato un vero e proprio toccasana, così come il Verdi di Maazel… Altro è quando si eccede nella cura orchestrale, abbandonando completamente il canto a se stesso e non curandosi delle voci (cosa che oggi accade abbastanza di frequente; ma tale “moda” è iniziata, questo bisogna dirlo, proprio col Karajan anni ’70).
    3. Nello sviluppo storico ogni cosa deriva sempre da qualcos’altro… E lo stesso sta accadendo nel canto, come in qualsiasi altra cosa. La tendenza di molti cantanti odierni a eseguire opere lontane dalla loro vocalità non è altro che una conseguenza della rivoluzione callasiana (forse sarà in molti casi un vero e proprio fraintendimento, ma è altrettando indubbio che molte delle opere che la Callas ha cantato non erano assolutamente per la sua vocalità, penso alla Manon di Puccini); la tendenza a riscoprire opere minori, a volte troppo “minori”, non è altro che una conseguenza della Rossini e Belcanto-reinassance degli anni ’60-’70; lo strapotere dei direttori, non è altro che una prosecuzione delle ombre di Toscanini-De Sabata-Karajan-Muti; l’importanza dell’aspetto registico-attoriale non è altro che una conseguenza della rivoluzione Viscontiana-Zeffirelliana. Insomma, credo che lo stato attuale del teatro operistico non sia nato per caso, ma non sia altro che il frutto di uno sviluppo, a volte riuscito, il più delle volte maldestro, le cui origini vanno rintracciate in quel glorioso passato che va preservato e tutelato.
    Il presente è comunque figlio di un passato… Questo ho cercato di rilevare nel mio intervento (evidentemente senza successo, visto che sono stato frainteso… E la cosa mi spiace molto…); per questo non amo termini come “evoluzione” o “involuzione”… Sui cosiddetti “moralizzatori” voglio solo dire che si trattava di un’ironia – forse eccessivamente acre – tesa a evidenziare un atteggiamento che – a volte – potrebbe sembrare eccessivamente spocchioso, e che però non sempre appare equilibrato. Insomma, è giusto fare le pulci alla Devia, se però le si fanno anche alle falle tecniche della Gencer (che indubbiamente aveva…). Mi scuso se sono andato troppo oltre, ma è inevitabile che in una tradizione come quella operistica, dove le ricchezze sono sparse un po’ ovunque, quando qualcuno le mette in mostra, ci sia qualcun altro che rimane scontento perchè non ha visto la sua preferita ugualmente onorata al pari delle altre… Ma – molto più semplicemente – il mondo è bello perchè è vario… Grazie, cmq, per avermi dato la possibilità di chiarire il mio pensiero…

  14. Velluti for president!!! Avevo già apprezzato i commenti sul post del CD di Cencic e confermo!

    Ma poi siamo così sicuri che i problemi di cui parla la signora Grisi fossero del tutto assenti nel passato? Mi pare che di forfait storici (cui si legano sostituzioni/debutti altrettento storici), carriere finite presto, voci usurate anzitempo, disuguaglianze e quant’altro sopra esposto sia pieno anche il passato. Forse ora è tutto un po’ più strombazzato perché i media hanno una portata più ampia.
    Poi sul repertorio oggi incantabile… vorrei delle precisazioni, perché mi pare che nei cartelloni odierni ci sia un po’ più di varietà e di riscoperta rispetto a quello che mostrano i cartelloni del periodo anteguerra cioè quello in cui hanno cantato gli artisti spesso presentati come modelli in questo blog. Sugli esiti di questi recuperi non mi pronuncio come spero non lo facciate voi… perché sono sicuro che nella stragrande maggioranza dei casi non ci incontreremmo mai!

  15. Caro Musicofilo,
    non offenderti se ti dico…….Ma che noia!!!!
    Cosa devo argomentare che non sia già abbonondantemente provato in parole, date, documentazione storica ed audio in questo blog?

    Ma provate voi che il presente vale il passato con argomenti migliori dei nostri….se li avete!

    Provate voi,a cominciare dagli spartiti per finire con la qualità delle voci e le capacità esecutive che mostrano di avere, che i vostri “can-tanti” sono equivalenti ai modelli qui da noi proposti. Ma dateci argomentazioni oggettive, indubitabili, e non le ragioni del gusto o dell’orecchio disattento o poco allenato.

    Quel che è importante prima di issare il vessillo del modernismo è SENTIRE davvero, con attenzione ed interesse gli ascolti proposti, messi alla base della critica.

    Quanto al passatismo, se ci ha fatto caso, il poco di buono che il presesnte offre, questo blog lo segnala, e apertamente.

    saluti.

    saluti

  16. Signora Grisi,
    mi scuso subito del tedio arrecatole… però le questioni da me sollevate non trovano risposta nei vostri numerosi interventi in questo blog. Che voi leggiate un declino a precipizio dell’arte canora è ben evidente, ma io mi riferivo all’esistenza di alcuni fenomeni negativi attuali anche nel passato, come per dire, insomma, che almeno quelli non sono “cosa nuova”.
    Per quanto riguarda le prove che presentate in questo blog… beh le parole sono molto convincenti… faccio fatica però a rintracciare ciò che predicate negli ascolti che proponete, principalmente per la qualità audio talvolta modesta e che sono sicuro rappresentano solo parzialmente i pregi e i difetti dei grandi cantanti del passato. Su questo almeno sarete concordi: che la qualità audio attuale (quando non sia mistificata da correzioni varie) permetta una più fedele registrazione di quanto una voce possegga. Certo, niente è più vero della musica dal vivo…
    Per quanto riguarda le motivazioni che possiamo addurre, partitura alla mano, per difendere alcuni cantanti di oggi… potrebbero essere esattamente le vostre! Io ho la sensazione che a volte sentiate cose che non ci sono e non sentiate cose che ci sono… mah! Sarà solo una mia impressione. Di certo avete molta più esperienza e un orecchio molto più educato del mio. Però a volte l’educazione stessa diventa una sorta di paraocchi (in questo caso paraorecchie): forse, esclusi i casi evidenti di orrori canori, non vi piace come si canta oggi perché è semplicemente diverso da come si cantava ieri, a prescindere da ulteriori considerazioni e giudizi di valore. Siete abituati a quel modo di cantare che considererete l’unico per cui, comunque quello odierno risulta inadeguato. Per fortuna io ascolto per lo più un ramo da voi poco toccato, probabilmente perché quel repertorio ai tempi dei vostri beniamini era completamente trascurato. Ma apprezzo sempre i vostri commenti perché se presi con le pinze (come tutti i commenti del mondo) possono fornire degli ottimi insegnamenti.
    Nella speranza di non averla annoiata ulteriormente.
    Saluti

  17. Caro Musicofilo,

    che si malcantasse anche in passato l’abbiamo detto e lo ribadiamo ora. Ma era l’eccezione e non, come oggi avviene, la regola. Anche perché il pubblico era molto più attento (e feroce!!!) di oggi.

    Carriere costruite sull’avvenenza e comunque sulle qualità extravocali dei cantanti ce ne sono sempre state. Ma si aveva l’accortezza di costruirle non sulla base dei grandi titoli del Belcanto, bensì su titoli ben più abbordabili.

    Gli ascolti, per quanto di modesta qualità tecnica, non mentono quanto a qualità di emissione e sapienza virtuosistica delle voci. Meglio una Galli-Curci o una Ivogün registrate con mezzi precari o una Machaidze o una Peretyatko in dolby digital?

    Oggi si canta “diverso”, diverso dal passato, diverso… dagli spartiti (!) perché……. non si sa più cantare. O meglio, non c’è più interesse per il canto così come ci è stato tramandato dalla grande tradizione della scuola italiana.

    Per curiosità, il ramo che trascuriamo quale sarebbe? L’opera barocca per caso? Perché un Haendel come quello di Alexander Kipnis (tanto per non scomodare la solita Sutherland) ha pochi termini di paragone anche nel nostro “aureo” presente.

  18. Signor Tamburini,
    La ringrazio per la cortese risposta che mi soddisfa quasi completamente… io credo che neanche oggi sia una regola, solo una forte tendenza.

    Un cane resta un cane anche in dolby digital, certo… però io mi sento frustrato e infastidito dal dover ascoltare delle voci, magari eccelse, limitate dalla cattiva qualità delle registrazioni. E poi purtroppo non riesco ad immaginare delle qualità che non si possono percepire chiaramente, per cui i tanti esempi (storicamente interessantissimi) sono spesso da prendere con cautela. Almeno il digitale mette in bella evidenza pregi e difetti.

    Ovviamente il grande Sassone non è da voi trascurato, specie nelle stoccatine ai (da Voi e altri) così detti “baroccari”… mi riferisco comunque ai suoi coevi. Non intendo fare illazioni su incompetenza in materia… sono certo che siete ben edotti anche in quell’ambito; volevo solo dire che si leggono interventi un po’ più sporadici… tutto qui.

    Rileggendomi ho notato che ho usato un termine piuttosto greve, “paraocchi/paraorecchie” che vorrei rimangiarmi perché non volevo includere i connotati negativi e l’intenzionalità che il termine implica.
    Intendevo solo dire che un fenomeno come la fruizione di una performance musicale è imperniata tra due poli: l’esecuzione e l’ascolto. Potrei meglio dire, quindi, che voi avete una sensibilità d’ascolto “A” formatasi su un tipo di esecuzioni di tipo “A”. Oggi invece il tipo di esecuzioni “A” è venuto meno ed esiste un tipo di esecuzioni “B”, alla quale la vostra sensibilità non è abituata. Io, pur avendo una certa esperienza del tipo di esecuzioni “A”, sono per lo più abituato a “B” e ho sviluppato una sensibiità “B”. Immagino voi troviate orribili certe trasformazioni, imperdonabili certe mancanze, impertinenti certe aggiunte rispetto ad “A”… io trovo invece fuori dal mio gusto certi “vezzi” o certe tecniche di “A”… cerco di prescindere da espliciti giudizi di valore per “limitare la discrezionalità soggettiva a favore di una razionalità intersoggettiva”; ne faccio appunto una questione di gusto. Il mio si è formato su esecuzioni che voi giudicate carenti, il vostro su esecuzioni che io giudico (talvolta, non sempre) datate e discutibili.
    Ma mi piace sempre il confronto con la vostra visione, da cui c’è comunque sempre da imparare.
    Cordiali saluti.

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