“Aci, Galatea e Polifemo” a Milano

Aci, Galatea e Polifemo, serenata a 3 voci per Soprano, Contralto e Basso venne composta da Haendel nel 1708, durante il suo soggiorno napoletano. L’occasione, venne data dalle lussuose nozze di Tolomeo Saverio Gallio, duca d’Alvito, con Beatrice Tocco Sanseverino. Il lavoro – l’unica serenata composta da Haendel in Italia – si caratterizza per la grande varietà drammatica (inusuale per lavori di tal genere, ove l’intento celebrativo suggeriva strutture più lineari e vicende meno “cruente”) e per il linguaggio estremamente ricco e vivace, sia per ciò che concerne il trattamento vocale, sia per ciò che riguarda l’accompagnamento strumentale (estremamente vario e raffinato, e ricco di inserti concertanti).
Le arie dei tre solisti sono difficilmente inquadrabili nello schema solito dell’aria tripartita tipico dell’opera seria. Haendel, pur non rivoluzionandone la forma, stravolge il contenuto: molto varia è l’invenzioni melodica, la fantasia, le ardite soluzioni armoniche (dissonanze, intervalli atipici, strumentazione che vuole trasfigurare in musica certi effetti naturalistici o fisiologici: come il canto di uccelli, il battito del cuore, l’affanno del respiro o il movimento dell’acqua). A ciò si aggiunga la fioritura di ornamentazioni, virtuosismi e cadenze (scritte e non scritte) che arricchiscono la già lussureggiante struttura musicale. Una ispirazione costante, quindi, che dona al lavoro una straordinaria compattezza estetica e stilistica e che ben può esemplificare l’essenza della musica barocca. La sua ricchezza, il suo fasto. E la meraviglia che deve suscitare nello spettatore.
Ma torniamo allo spettacolo a cui abbiamo assistito a Milano – Teatro dell’Arte – lo scorso 23 settembre, alle ore 21.00. Il breve, ma interessante saggio contenuto nel libretto di sala che ne accompagnava la rappresentazione (nell’ambito della manifestazione MiTo) si apre con la descrizione del lussuoso scenario ove si svolsero le nozze che furono l’occasione per Haendel di comporre la sua serenata: “Un palazzo sontuosamente addobbato, ove le ricche tappezzerie, i controtagli, i ricami, i broccati, gl’ori, le gemme, le statue, i quadri e ogn’altro preziosissimo arnese erano inestimabili, banchettandovisi splendidamente”. Ecco, bastano queste poche righe (così come un quadro di Rubens o un’architettura di Juvarra) per farci comprendere il senso del barocco. Il suo spirito. Allo stesso modo va – o andrebbe – intesa la musica barocca che, sostituendo ai ricami, alle architetture sontuose e ai broccati, le acrobazie e la ricchezza di voci e strumenti, deve suscitare nell’ascoltatore quella stessa meraviglia che suscitano quei quadri, quelle sculture e quei palazzi. Di tutto ciò non vi è traccia alcuna nelle odierne rappresentazioni (corrispondenti ai dogmi baroccari). E non fa eccezione questa Aci, Galatea e Polifemo. Non si può certo dire che la Cappella della Pietà dei Turchini suoni “male”, né che il direttore Antonio Florio “mal” diriga, tuttavia è mancata nell’esecuzione quello stupore, quell’abbandono e quel tocco di “follia” (intesa in senso barocco) che tali musiche suggerirebbero. Ecco dunque un’accompagnamento corretto e pulito, ma metronomico e monotono, dal suono povero e secco. La sensazione è quella di una artificiosa meccanicità, di mancanza – rectius di rinuncia – a quella libertà espressiva che l’opera barocca imporrebbe. Certo si evitano gli stridori e le stonature di altre compagini specialistiche (che hanno fede più intransigentemente baroccara) e così pure si percepisce l’intento di superare certo appiattimento dinamico tipico di altre tradizioni filologiche (anglosassoni e germaniche in particolare). Ma non basta: così come non basta l’estrema perizia tecnica degli strumentisti che, pur senza alcuna sbavatura, nulla hanno concesso ad una lettura più appagante ed emozionante.
Diverso il discorso sui solisti. Aci era Roberta Invernizzi (che ha sostituito all’ultimo momento l’indisposta Maria Ercolano), Galatea era Romina Basso e Polifemo era interpretato da Raffaele Costantini. Ma mentre le prime due hanno eseguito senza troppe difficoltà e con correttezza le loro parti, pur con tutti i limiti dovuti all’autoimposta fissità della voce (ed è un peccato dato che i timbri e la corposità erano buoni…), all’assai parco abbandono alla fioritura virtuosistica (in ciò seguendo l’asciuttezza dello stile orchestrale) e a certe asprezze (attribuibili ai soliti dogmi baroccari), Costantini (forse non in perfette condizioni fisiche?!?) ha rivelato una voce assai poco controllata, incerta nelle tante agilità previste, e si è dimostrato sempre torniturante e trucibaldo (gliel’avranno spiegato che si trattava di una serenata settecentesca e non di Fafner?) e di costante volgarità interpretativa. La voce del basso infatti, soprattutto nei recitativi, indulgeva in sgradevolissimi effetti di ingrossamento e arrochimento (tipo l’orco delle fiabe) unito a sbracature veriste inclini al parlato, vocione artificioso che assomigliava “tragicomicamente” alle parodie di Alberto Sordi e gestualità al limite della farsa (mancavano davvero solo i fischi e le “risatazze”, come i Mefistofele di certi bassi bolliti e a fine carriera). Insomma, mi stupisce sempre (ma ahimè, non mi meraviglia più, dato la frequenza con cui accade) che, mentre ci si sdilinquisce in ricerche sulle pretese sonorità originali, sullo strumento antico, sul diapason, sulla corda di budello o sui pistoni delle trombe, si avallano certi recitativi strillati e parlati che neppure il peggior Compare Turiddu di provincia avrebbe proposto con pari volgarità. Ciò che mi meraviglia davvero, invece, è il fatto che Costantini sia allievo di Matteuzzi (cantante di tutt’altra tecnica e gusto). Un peccato, dunque, ascoltare l’impressionante aria di Polifemo “Fra l’ombre e gl’orrori”, dove la voce va su e giù per il pentagramma, lungo due ottave e mezza di tessitura (evidente omaggio di Haendel alle straordinarie capacità del suo primo interprete), ridotta ad una traballante ed improba lotta con intonazione, esecuzione delle agilità e stile interpretativo. Resta da dire che certi difetti di Costantini sono riscontrabili anche nelle altre due interpreti: in particolare i recitativi troppo caricati e la gestualità eccessivamente sottolineata (quindi da attribuire ad una precisa e sciagurata scelta interpretativa generale). Inoltre la Basso a volte tende a suoni gutturali e ad eseguire le agilità in modo non “ortodosso” (un “vavavavava” che ricorda certi orrori della Genaux). Meglio la Invernizzi (forse la migliore della serata, nonostante qualche agilità aspirata). Mi sarebbe piaciuto, però, ascoltare delle variazioni più coraggiose (nelle riprese) e qualche cadenza maggiormente acrobatica. Ma tant’è… Il pubblico, abbastanza scarso, alla fine ha tributato un buon successo. Immeritato? Direi di no: tuttavia era lecito aspettarsi qualcosa di più, vista la grande bellezza della serenata (Haendel ne riutilizzerà svariati brani per le sue opere successive), che un compitino ben eseguito, ma fondamentalmente asettico, più consono, cioè, ad una conferenza dotta che ad una sala da concerto.

Haendel: Alessandro Lusinghe più care Marcella Sembrich

42 pensieri su ““Aci, Galatea e Polifemo” a Milano

  1. AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAH! Mi sono perso la Invernizzi che fa Aci!!!! Maledizione… a saperlo avrei preso il primo aereo e ci sarei stato anch’io fra il pubblico. Anche la Basso è molto brava e penso valga la pena di ascoltarla dal vivo e la Cappella della Pietà dei Turchini è garanzia di un’esecuzione di alto livello(io mi meraviglio con loro).
    Non conosco il basso ma è così difficile trovare una voce per la parte sovrumana di Polifemo.
    Andrò a Torino a giugno per sentire Aci Galatea e Polifemo sperando che la Ruth Rosique (che non conosco e potrebbe anche essere una piacevole sorpresa) venga sostituita dalla Roby!
    Lancio una sfida alla mia pazienza e ti chiedo: cosa ne pensi dell’incisione piuttosto recente (“baroccara”) Haim-Piau-Mingardo-Naouri?

  2. Io non ho assistito all’Aci, ma ricorda la Invernizzi in una Johannes-Passion di qualche annetto fa: una voce piccola, fissa e pigolante. Confesso che mi ha impressionato leggere che è stata la migliore… non oso immaginare gli altri due!

    Musicofilo, forse sulla Haim le replicherà Duprez… ma deve avere pazienza con noi… siamo figli della Sutherland, certe magie barocc[h](ar)e ci sfuggono inesorabilmente…………..

  3. Ma sì che avrò pazienza… in fondo sono stao io a provocarvi(mi). Sì: siete i figli sella Sutherland… ma anche i suoi nonni, a volte… e siete abituati ad altra meraviglia! Non vi si può biasimare per questo. Sulla Invernizzi: non so cosa ti aspettassi, lei è una voce sì piccola e chiara, ma corre benissimo e comunque ha intelligentemento scelto di cantare Belcanto (quello vero non Donizetti e Bellini), mica Wagner, per cui… Voce fissa? Ti assicuro che opportunamente sa vibrare come una “sana” voce lirica; e dico opportunamente perché secondo i canoni esecutivi per ora vigenti per la cosidetta musica antica (che voi non condividete notoriamente, per cui non disturbatevi a rispondere a questo argomento) il vibrato è un artificio che serve a sottolineare particolari momenti e affetti (un po’ l’inverso di quello che accadrà nel futuro, dove tutto vibra e i suoni fissi fanno da evidenziatore di particolari parole e sensazioni). Pigolante?!?!? Credo sia una delle voci più pulite, limpide e tecnicamente agguerrite in circolazione.
    Una provocazione sulla Sutherland (che adoro e accanto al cui marito sto passando alcuni giorni qui in Sicilia): se si canta allo stesso modo Handel, Bellini, Verdi, Puccini… l’effetto straniante della distanza storica che fine fa?
    Mi meraviglio molto di più a sentire le mirabilie vocali della Invernizzi in Handel e molto più quelle della Sutherland in Donizetti che viceversa (solo che la Invernizzi non canta Donizetti!).

  4. anch’io prenderei l’aereo per Handel. Anzi l’avrei preso ad esempio per un Giulio Cesare in Egitto, la mia preferita che schierasse (anno di Dio 1985)
    Horne (GC), Cuberli/Anderson (Cleopatra), Dupuy (Sesto), Berganza/von Stade (Cornelia) Podles (Tolomeo) sul podio Bonynge o per un’Alcina (sempre 1985) Cuberli (Alcina), Anderson/Devia/Serra (Morgana), Dupuy (Roggiero), Podles (Bradamante) solito direttore.
    ciao domenico

  5. caro musicofilo,
    invece, con lo spirito critico e di contraddizioen con il quale da quasi quarant’anni vado all’opera ti rispondo.
    Concordo che per Bellini e Donizetti sia improprio parlare di Belcanto, che finisce con Rossini.
    I due ne usano taluni mezzi espressivi, ma non ne condividono la poetica.Poetica che forse comincia a traballare anche in Rossini (penso a donna del Lago e, soprattutto a Zelmira e Maometto).
    Però un conto è la differente modalità espressiva ed un conto è la differente cognizione tecnica.
    Lo percepiamo noi oggi e lo percepivano benissimo nell’800 che la modalità espressiva di Giulia Grisi fosse differente da quella della Frezzolini e Verdi era chiaro nelpreferire Kashmann e Maurel a Battistini. Quest’ultimo però in Bellini e Donizetti è inattacabile.
    Per venire in tempi più vicini a noi il Verdi della Sutherland è sempre stato censurato, meno il suo Bellini ed il Donizetti, mai Bononcini o Handel. I motivi sono palesi ascoltando le registazioni.Non voglio ammorbarTi.
    E qui però, consentimi, “casca l’asino” dei baroccari. L’altra sera, come l’anno passato in Alcina e tacciamo di quell’orrenda Didone scaligera, ho percepito nei recitativi, che sono importanti quanto le arie e più sotto il profilo drammatico (termine usato alla greca) accenti che connotano le migliori Fedore o Santuzze. So bene che i baroccari dicono che i cantanti nei recitativi si ingegnavano di imitare gli attori di prosa. Lo dice anche Stendhal, richiamando Talma in raffronto, se la memoria non fa difetto, con Garcia.I baroccari ed i loro adepti però dovrebbero per onesta storica rammentare e ricordare come la moderna recitazione passi attraveso il teatro del ‘900 (Ibsen, Pirandello, Strinberg e sopratutti Brecht) che con al recitazione dell’800 ( e figuriamoci con quella del ‘700) proprio nulla aveva a che spartire.
    Nella notte dei tempi sulla televisione svizzera ascoltai un’intervista a Wanda Capodaglio, la quale censurava l’idea di recitazioen epica brechtiana, voluta da Strehler nel Coriolano, sulla tradizione e condivisibile differenza ( rimonta ad Aristotile se non erro) fra epica e genere drammatico (tragedia o commedia che fosse)
    Sei in Sicilia, beato Te!
    Io correrei ad Alcamo a chiedere al mr Bonynge “coma cantava Giulia Grisi?” “possiamo avere un’idea del suo canto, anche indiretta?”.
    La domanda non nasce dalla stima per la cantante, titolare di questa sede telematica, ma da una frase dello stesso Bonynge che parlava di Giulia Grisi, comem la cantante più interessante sotto il profilo della storia del canto.

    ciao domenico!

  6. Caro Musicofilo, non mi risulta che la Invernizzi canti Rossini. Quindi di Belcanto non ne vedo comunque, nel suo orizzonte. Mi accontenterei di un canto solido, possibilmente senza vezzi pseudofilologici. Insomma, quel tipo di canto che permette anche alle voci microbiche, come quelle di molti dei nostri beniamini, di essere perfettamente udibili anche su un orchestrale che comprenda qualche strumento in più rispetto a due archi e tre pifferi.

  7. Ti rispondo volentieri Musicofilo:
    1) Della recente Aci, Galatea e Polifemo incisa dalla Haim, ho ascoltato alcuni brani, e non posso che dirne male: non mi è mai piaciuto l’approccio rigido e integralista della Haim (accompagnato, nel suo caso, a scarsa perizia tecnica, sua e della sua orchestrina), e non fa eccezione questa incisione. Ritengo la Haim un fenomeno esclusivamente commerciale e legato a certa “moda”, oltre al sodalizio con la Dessay che l’ha portata ad incidere, senza aver meriti particolari, per la Virgin/Emi. Il suono è povero, i tempi sono velocissimi, le dinamiche ridotte all’osso, il vibrato è sostituito da uno stridore che assomiglia alle unghie sulla lavagna, le stonature non si contano. Manca persino la precisione che di solito tali compagini offrono. Sui cantanti discorso analogo, voci fisse come sirene della polizia, coloratura e agilità ridotte al lumicino, sostanziale monotonia d’impianto. A ciò si aggiunga la solita pessima pronuncia italiana (che pare proprio non interessare un ette agli stolidi baroccari, più interessati a corde vi budello e puntali dei violoncelli…). Voglio chiarire che La Cappella della Pietà dei Turchini è compagine 1.000 volte più interessante, precisa e “piacevole” rispetto al complessino della Haim (che per me, insieme a Malgoire e Jacobs, per restare in “zona vip”, è il peggio del peggio).
    2) Sullo spettacolo milanese: ho scritto e ribadisco che la Invernizzi è stata la migliore. La voce è piccola, certo, ma nello spazio ristretto del CRT correva abbastanza bene. Il problema è l’impostazione generale: la rinuncia a priori di un certo tipo di canto per questioni meramente filologiche. Poi il resto ne consegue (agilità, cadenze, messe di voce). Scrivi che sa “vibrare”, bene, lo faccia e restituisca il barocco al canto e non alla canzonetta (come è ridotto oggi a causa delle pretese di certa filologia posticcia). Tu dai per scontate cose su cui il dibattito è aperto: prassi esecutiva, emissione di voce, vibrato. E come tutti i baroccari non ti poni domande, ma credi di aver già tutte le risposte: è solo ideologia (lo dice bene Barenboim nel suo ultimo e fortunato libro), è solo un atteggiamento arrogante e saputello, che nulla c’entra con la libertà di ricerca e la vera filologia (che non è rigidità e ottusità come ci fanno credere codesti baroccari). Così pure è frutto di elucubrazioni ideologiche quel preteso “effetto di straniamento” di cui parli. Che vuol dire? Che senso ha? E’ ovvio che Wagner è diverso da Bellini e che Verdi è diverso da Haendel, ma tutti costoro hanno praticato la medesima arte, per cui, pur con le differenze e le varianti dovute alla naturale evoluzione della specie, il linguaggio è il medesimo (e poi le differenze tra la Sutherland che canta Arne o la stessa che canta Donizetti, ci sono eccome, basta essere in grado di percepirle)! Poi sarai liberissimo di preferire l’Haendel della Invernizzi a quello della Sutherland, o magari le sbrodolature di certi direttori/rock star che pontificano di scemenze nelle note introduttive ai loro cd auto premiati al sano ragionamento, ma prima di tranciare questi giudizi e prima di rinunciare all’uso autonomo della facoltà dell’intelletto fai una chiacchierata con Bonynge (visto che ne dichiari la vicinanza) chissà che ti chiarisca le idee….

  8. Credo sia abbastanza noto che il vibrato non è una caratteristica del canto antico… Addirittura si diceva che il vibrato andasse bene per le parti comiche, ma non certo per quelle auliche e drammatiche (se non erro lo stesso Rossini ebbe a sostenerlo!!!!).
    Premetto che non conosco lo spettacolo a cui fate riferimento, quindi non posso pronunciarmi nel merito. So solo che l’incisione della Haim di cui avete parlato presenta un soprano tutt’altro che fisso, con voce e agilità di buon livello (la Piau, che si può ben apprezzare su youtube nel mottetto di Vivaldi In furore iustissimae irae, con variazioni nelle riprese di grande effetto; basta ascoltarla senza pregiudizi). Per quanto concerne l’orchesta concordo sul giudizio di secchezza e sbrigatorietà dato nel merito della Haim, della quale però ho apprezzato le incisioni delle cantate haendeliane, per alcune delle quali, musicalmente bellissime, l’esecuzione in questione rappresenta l’unicum in commercio. Ma addirittura mettere bocca sulle capacità di una musicista seria, dotata e di grande cultura quale la Haim mi sembra eccessivo, anche perchè la critica viene da un anonimo pseudonimo di cui non è possibile controllare credenziali, curriculum musicale e preparazione filologica; un conto è leggere libri o notizie sparse in vari libri e manuali ritagliandosi uno spazio nel proprio tempo libero, il che non implica essere un musicista in grado di valutare le competenza altrui, un altro conto è fare ricerca musicologica sul campo… Un’esecuzione può piacere o meno, ma da questo a dare dell’ignorante a colui che mette su un’esecuzione che non ci piace ce ne corre!!! La cultura dovrebbe dare l’ampiezza mentale di quella tolleranza che non sfocia nel personale ma riesce ad osservare anche il maggiore degli orrori con quel relativismo di chi è sicuro della bontà delle proprie idee (fanatismo e cultura sono due cose molto diverse!!!).
    Anche sul concetto di belcanto è interessante qualche osservazione. Quando nasce il termine? Non so se alcuni di voi se lo sono chiesti… Esso nasce solo dopo la metà del XIX secolo, e per definire una perdita rispetto a un nuovo modo di intendere il canto (Verdi e Wagner per intenderci), ed è dunque una di quelle definizioni -etiche, ovvero esterne al fenomeno cui ci si riferisce, e non -emica, ovvero interna ad esso. Ciò implica che si incominciò a definire il “bel canto” per opposizione a ciò che “belcanto” non era. Insomma nel XVII secolo non si aveva la benchè minima idea del belcanto, dato che era quello l’unico modo di cantare, e non c’era per questo bisogno di distinguerlo o di definirlo. Ora, tutto questo sproloquio vuole semplicemente dire che, forse, l’unico belcanto che può essere definito tale è quello di Rossini, perchè era così definito rispetto a quello che egli non considerava come tale. Ciò non toglie che Donizetti e Bellini potessero utilizzare molto di Rossini, e quindi – in quei casi – fare anch’essi “belcanto”, nel senso di una supremazia del canto in sè rispetto al momento scenico (ovviamente sempre nella loro ottica!!!!). Il barocco è un capitolo a parte, e non può essere letto alla luce di Rossini, nonostante molte cose del barocco vengano riutilizzate (ma con una funzione diversa, per cui sarebbe meglio parlare di rilettura!!!!) dal grande pesarese. Leggere il prima alla luce del dopo è sempre molto pericoloso, perchè si rischia di sovrapporre mondi lontanissimi. Per barocco io intendo la musica del 1600, fino ai primordi del 1700, per cui Haendel cronologicamente è un compositore che riprende il barocco come una sorta di fossile, in una temperie culturale completamente mutata. L’estetica di quel tempo è certamente lontanissima dalla nostra, e cercare di riprodurla così com’è è una pia illusione, e non credo che nessun filologo-musicista la intenda così. Ogni interprete filologo riprende le fonti e le rilegge alla luce di altre e cerca di fornire una sua lettura di quelle fonti, lettura che sembra il pià possibile aderente alle fonti prese in esame. Ma dato che all’epoca c’erano un’infinità di scuole e di prassi esecutive, difficilmente riassumibili in una cifra unitaria (ad esempio haendel dice una cosa, ma questa non è detto che fosse valida per la scuola di Monteverdi), appare chiaro quanto un’esecuzione odierna, che tiene conto spesso di una specifica tradizione, possa essere contraddetta da notizie racchiuse in altre fonti.
    Sta solo all’ascoltatore giudicare se una cosa gli piace o no, evitando di trascinare la questione in politica culturale di fronda (che spesso è cifra tipica degli esclusi!!!!).

  9. Caro Velluti, francamente non capisco perchè mai uno "pseudonimo anonimo" (come ami definirmi) non possa esprimere giudizi tecnici o di gusto, mentre un altro "pseudonimo anonimo" (come te ad esempio) si permetta di attribure a destra e manca credenziali di competenza o incompetenza. Qui, per scelta da te insindacabile, scriviamo con un "nom de plume" perché…perchè ci va così, se non ti piace la cosa, o ti irrita, o ti infastidisce, o ti sconvolge sei liberissimo di rivolgerti altrove (con o senza pseudonimo). Sicuramente non credo di aver bisogno di mostrare a te curricula o attestati (né tu per altro ne fai mostra prima di scrivere le tue, opinabili, considerazioni). Detto questo gradirei che ti limitassi a contestare puntualmente ciò che io scrivo, senza fare "variazioni sul tema", personali e gratuite, onde attribuirmi frasi e concetti che non mi appartengono: nello specifico non ho mai scritto che la Haim è un'ignorante, dico solo – e confermo – che ALLA LUCE DEI TANTI ASCOLTI FATTI – la trovo sbrigativa e non precisa nella concertazione, con un suono brutto e con stonature frequenti (oltre a tutti i vezzi della "moda" baroccara). Mi sembra di essere legittimato a fare tali considerazioni (che si chiamano critica) dal momento che, in caso contrario, bisognerebbe limitarsi ad applaudire o stare zitti! Ribadisco dunque il fatto che ritengo la Haim esclusivo fenomeno commerciale (ce ne sono tanti) i cui meriti sono largamente inferiori al successo ottenuto. Dal suo Orfeo al Dido & Aeneas, dal Combattimento di Tancredi e Clorinda a Haendel…trovo sempre i medesimi difetti: stonature frequenti, suono stridente, poca precisione, tempi forsennati. Perchè mai non posso scriverlo? Non è con l'autocensura o con il silenzio che si dimostra tolleranza, caro Velluti, piuttosto è proprio pubblicando sempre e comunque interventi come il tuo (e come quelli di altri) offensivi nella forma e nel contenuto che ti si dimostra la liberà totale che lasciamo (e in altri luoghi del web – un tempo assai frequentati da melomani e no – te la puoi scordare un simile trattamento). Ma lasciamo perdere…

    Torniamo al "vibrato": ciò che tu affermi come "fatto notorio" è in realtà opinione (assai diffusa) di certa filologia. Ipotesi, non certezza. Come parimenti sono ipotesi tutte le questioni relative al diapason, alla velocità, alle dinamiche etc… Il problema è che oggi impera una certa moda nelle esecuzioni barocche: moda che sta omologando ogni interpretazione e che, come una sorta di Sacra Inquisizione attribuisce la patente di legittimità filologica. Ora io credo – te lo dico chiaramente – che tutte questi "dogmi" siano stupidaggini, ad uso e consumo dell'attuale mercato discografico e che hanno il solo vantaggio (oltre al rientro economico) quello di sottrarre l'interprete baroccaro al confronto con la tradizione che l'ha preceduto (tutta tacciata di scorrettezze ignobili). Ne ho parlato spesso e ribadisco che trovo assurdo cercare di riprodurre (in condizioni del tutto differenti) una pseudo prassi d'epoca, quando tutto il resto del mondo è cambiato e quando non vi sono neppure certezze relative a quella prassi. Per restare al canto vibrato (non so a cosa tu ti riferisca quando ritieni che persino in epoca rossiniana non venisse praticato). Il canto vibrato (che risuona di armonici e che comporta voce rotonda che suona "sul fiato") è la condicio sine qua non del canto impostato, che si contrappone allo sbraitare del canto rigido e fisso, cioè la differenza che corre tra il canto lirico e la canzonetta. Rinunciare per motivi ideologici ad una tecnica codificata in tutti i trattati di canto, in una tradizione ininterrotta ed in testimonianze d'epoca, sulla sola base poi di teorie sorte in ambienti culturali che nulla hanno mai avuto a che fare con l'opera lirica (e sulla cui bontà e buona fede diffido) come il mondo anglosassone, mi sembra cosa stupida. Certo è legittima, a patto di autoconvincersi della "bellezza" di suoni fissi come sirene dei pompieri. Non parliamo poi del fatto che dovrebbe trattarsi di belcanto (e quindi, letteralmente, bel canto) dove non vedo grossi spazi per stridori e urla. A te piacciono? Amen. A noi no. Punto. E a capo: probabilmente riterrai che anche per Rossini vada bene una cura alla Jacobs o alla Haim, ma perchè fermarsi? C'è Bellini, Donizetti, Verdi…Puccini magari? Ma certo…arriviamo ai giorni nostri: così FINALMENTE scopriremo come si canta davvero!

  10. Nessuno mette in dubbio la legittimità della critica… Ognuno è libero di dire quello che vuole motivando come meglio può. Certo una frase come questa “non mi è mai piaciuto l’approccio rigido e integralista della Haim (accompagnato, nel suo caso, a scarsa perizia tecnica, sua e della sua orchestrina)” denota certo un giudizio di valore che entra nel merito di una musicista che, ripeto, può piacere o no, ma che di certo non può essere giudicata come tale in toto… Se questa è davvero la critica non saprei dire… Diciamo allora che mi sembra eccessivamente totalizzante. Per quanto concerne i miei interventi, non credo che essi siano offensivi o di cattivo gusto (di certo lo sono stati alcuni giudizi da voi pubblicati; “sorelle bandiera” o cose del genere… Ops!!!!Quella era ironia!!!); essi denotano semplicemente un’opinione diversa dalla vostra… E credo di aver sempre motivato i miei punti di vista. Non so bene in che cosa lei abbia giudicato offensivo il mio intervento… Di certo è un dato di fatto che voi scrivete con pseudonimi anonimi (dove sta la maldicenza?). Resta che è un dato di fatto che un conto è entrare nel merito delle esecuzioni, un conto è giudicare musicisti come tali. Se per voi il passaggio è automatico, per me non è così.
    Per quanto concerne il vibrato, è importante stabilire che cosa si intende con esso, dato che i trattati antichi su questo punto sono abbastanza vaghi (in realtà nei trattati antichi non si parla mai neanche di respirazione “diaframmatica”, ovvero su come il cantante dovesse respirare. Era un fatto talmente ovvio per loro da risultare superfluo il metterlo in evidenzia). Il vibrato è lo stesso di un “suono vibrato”? Non credo. Non sapremo mai come cantavano in quell’epoca, per cui resta – come miglior metro di giudizio di un’esecuzione – il gusto: una cosa è bella o no? Aderisce al testo musicale o no? Aderisce al momento teatrale o no? Se si ascoltano alcuni cimeli a voi tanto cari, è facilissimo vedere come ci siano alcune voci che presentano pochissimo vibrato. A voi piace? Benissimo. Ma questo è in linea con la “tradizione vera” del canto ottocentesco? Difficile dirlo con sicurezza per tutti i casi. E’ vero che ci sono molte opinioni nella filologia… Questo è ovvio dato che ci troviamo di fronte a una “scienza storica” che per definizione non può giungere a conclusioni apodittiche e dogmatiche. Ma è proprio il senso del mio intervento (non dico da nessuna parte che quello che dico io è la verità assoluta): come non è certa la tesi che sostengo io, non è però certa nemmeno la sua, nonostante nelle varie valutazioni critiche da voi espresse serpeggi spesso la sensazione che coloro che la pensano diversamente da voi siano degli emeriti ignoranti che non capiscono nulla. Il gusto è ciò che alla fine decide sovrano. Il suo gusto la fa decidere in un senso, il mio in un altro. E nessuna persona veramente seria ha la pretesa di avere la verità in tasca (quella pensano di averla solo coloro che inseguono le vacuità dei dogmi).

    P.S. Grazie per la “concessione” della pubblicazione degli interventi…

  11. Velluti, Lei sostiene che si possono giudicare le esecuzioni, ma non un esecutore nel suo complesso. Mi limito a farle notare che la signora Haïm può essere la filologa più colta e preparata del mondo (dubito, ma concedo per amor di discussione), ma se i suoi archi stridono e i suoi fiati spernacchiano, e se lei non sa nemmeno farli andare a tempo… a poco serve la grande studiosa del Barocco. E lo stesso vale per i cantanti: poco importa che siano dottissimi, se dalle loro ugole sortono suoni che poco o punto rimandano a quella musica delle sfere che del canto barocco dovrebbe essere l’esempio supremo, per non dire il noumeno. E’ questione di coerenza, prima ancora che di gusto.

  12. Lasciamo perdere l’andare a tempo, lo stridore, lo spernacchiamento e l’orchestrina; vogliamo dosquisire sulle calamità orchestrali di esecuzioni da voi giudicate paradigmatiche? Ops!!! Per quanto concerne i cimeli protostorici da voi tanto amati di orchestra non si puà neanche parlare!!! Sarebbe pià corretto parlare di banda di paese.

  13. Velluti..innanzitutto non c’è nessuno da ringraziere e nessuna concessione riguardanti i tuoi interventi. Semplicemente volevo farti notare che l’apertura alla discussione e la tolleranza si evincono anche e soprattutto direi, dal fatto di pubblicare ogni intervento (salvo gli insulti più volgari ovvio, ma solo per motivi di decenza) anche quelli più lontani dalle idee condivise da chi gestisce questo spazio. Ripeto ancora che una tale apertura e disponibilità è pressocché introvabile altrove dove non si lesina in censure e bannature. Per ciò che riguarda gli pseudonimi: il primo a dire che chi si firma con pseudonimo non sarebbe titolato ad esprimere critiche e opinioni sei stato tu, quindi non rigiriamoci in “giochetti dialettici”. Detto questo e sperando di averti chiarito la questione (proprio non mi è andata giù l’accusa implicita di non tollerare le opinioni divergenti) torniamo pure all’argomento.

    Tu stesso, ora, affermi che le tesi circa la prassi esecutiva antica altro non sono che ipotesi. Bene, è quel che dico io. Peccato però che ogni volta si tocchi l’argomento, vien dato per scontato che tali ipotesi siano invece la prassi corretta. Quando si parla di filologia barocca, la sensazione è quella di trovarsi in una guerra di religione: ortodossia da una parte ed eretici dall’altra. Quelli che chiamo baroccari neppure si pongono il problema del dubbio, ritengono loro di aver già ogni risposta (suoni stimbrati, assenza di vibrato, fissità, stonature, velocità) è così e basta…tutti gli altri sono eretici da bruciare sul rogo (e tra questi Richter, Bonynge, Klemperer..tutti colpevoli di condotta antifilologica). Questo per me è inaccettabile. La mia reazione (a volte piccata) a questi assolutismi ideologici deriva spesso dall’arroganza indubitabile degli assunti. Mai un dubbio, mai un’incertezza? Sant’Agostino scrisse “dubito ergo sum”…costoro ritengono invece di non aver bisogno di porsi domande. E’ solo questo il problema. Crica la definizione di “bande” per le orchestre che accompagnano i nostri ascolti, mi riporto ai commenti di chi mi ha preceduto, ma, se davvero vogliamo parlare seriamente di orchestre, di modo antiquo, di vera o falsa filologia, beh..ti garantisco che approfondirò l’argomento. Lasciami però, nel frattempo, preferire il Bach di Klemperer o l’Haendel di Solti e di Bonynge (sono bande anche quelle?), alle orchestrine stridenti e stonate della Haim o di Malgoire. E pure di Jacobs…

  14. Non per amore di polemica, ma semplicemente per chiarezza, non accuso nessuno di non essere in grado di valutare solo perchè anonimo. Riporto il mio pensiero testualmente: “Ma addirittura mettere bocca sulle capacità di una musicista seria, dotata e di grande cultura quale la Haim mi sembra eccessivo, anche perchè la critica viene da un anonimo pseudonimo di cui non è possibile controllare credenziali, curriculum musicale e preparazione filologica”. In questo caso la polemica parte dal fatto che si sindaca sulle capacità di una musicista e la si valuta in toto, nonostante non sia possibile valutare allo stesso modo (cioè ugualmente in toto) colui che effettua la critica. Ma spiegate le ragioni di tale scelta (che a mio parere non è totalmente equilibrata: il critico può essere valutato solo ed esclusivamente per quello che dice, mentre la musicista in questione, da quello che produce, viene valutata come musicista in toto… Non mi sembra molto “equo”, ma “Sta ben!”), è chiaro che ognuno fa le sue valutazioni. Di certo il riferimento che facevo non era nè a Solti, neppure a Klemperer o a Bonynge, le cui interpretazioni rappresentano dei veri e propri capisaldi della rinascita seicentesca e settecentesca “in epoca moderna”, e tali vengono considerati dallo stesso Jacobs, come ha avuto modo a sostenere recentemente lui stesso. Va ricordata anche, in merito a Bach, la splendida Passione secondo Matteo diretta da Abbado, con strumenti originali tutt’altro che stridenti e sbandati, un altro capisaldo della rinascita bachiana in epoca moderna. Il mio riferimento era agli ascolti dei cimeli protostorici che da voi vengono postati comne esempi di canto trascendentale, e che saranno certamente tali, ma dove l’orchestra è se non assente, direi quanto meno una sorta di ologramma. Mi direte: 1. all’epoca certi strumenti non erano adatti, per ovvi motivi tecnici, alla ripresa sul cilindro; 2. non è l’orchestra il punto fondamentale di queste esecuzioni, ma il canto, esempio preclaro di cosa voglia dire cantare secondo il modo antico (come vedi, caro Tamburini, non sono così stupido come vorrebbe far credere… Il suo piglio a volte richiama quello di un vecchio insegnante di scuola elementare!). Ciò dimostra che la valutazione di ogni ascolto è sottoposta a inferenze di carattere esterno non sempre direttamente collegabili al dato oggettivo di quello che l’orecchio semplicemente percepisce. Insomma, quando si valuta un ascolto bisogna tenere presente un contesto e valutare il tutto alla luce di quel contesto. Il discorso è esattamente speculare per l’uso attuale degli strumenti originali per la musica antica, la cui secchezza timbrica va addebitata, il pià delle volte, non all’imperizia dei musicisti, ma alla natura stessa dello strumento. Per quanto concerne i cimeli protostorici, a voi piacerà sommamente quella supremazia del canto (che a quel punto potrebbe essere anche a cappella, che differenza fa? Basta che c’è UNA VOCE CHE CANTA!!!!!), io personalmente in un’esecuzione lirica cerco altro, ovvero una voce che canta su un’orchestra, dato che – guarda caso – i compositori hanno scritto opere per orchestre e non per bande o pianoforti (trovo egualmente censurabili coloro che a concerti cantano arie d’opera semplicemente con l’accompagnamento del piano; a meno che non si tratti del canto della Sutherland, ovviamente, che fa storia a sè!!!). Come vedete si torna sempre a una questione di gusto, a una questione di sensibilità, rispetto a quello che uno si aspetta da una esecuzione lirica. Gli attuali musicisti di musica antica interpretano quel tipo di musica partendo da un preciso assunto metodologico, che nasce da precise istanze critiche e da un lavoro su un certo tipo di fonti. E non credo che abbiano la pretesa di affossare completamente il passato (conosco personalmente Jacobs, e posso dire che raramente ho conosciuto persona piè colta, amabile e amante delle incisioni storiche!!!!), ma semplicemente di esplorare nuove possibilità.

  15. Ma Velluti, il giudizio sulla Haim discende dall’ascolto di ciò che produce! Non ho sindacato sulla cultura della stessa, sulle sue capcità di ricerca, nè curiosità intellettuale. Tutte doti ammirevoli, ne convengo, ma che a nulla servono per giudicare il prodotto finale. Vedi, se ascoltando la Haim rilevo 10 volte su 10 gli stessi problemi (tempi velocissimi e tenuti con difficoltà, stonature, fiati spernacchianti, oltre a tutti i problemi connessi alle scelte intorno a suono e dinamiche) non posso che trarre determinate conclusioni.
    Non sono affatto d’accordo, invece, quando parli degli odierni esecutori di musica barocca, che a tuo dire partirebbero da assunti metodologici precisi senza per questo affossare il passato o ritenere di possedere l’unica prassi esecutiva corretta. In base a scritti, interviste, dichiarazioni etc.. si evince l’esatto contrario: costoro ritengono essere una ed una sola la corretta filologia, cioè la loro. Sarebbe splendido se fosse come dici tu, cioè una ricerca di altre possibilità. In realtà essi si pongono come l’unica attuale possibilità di eseguire musica barocca (e non solo). Taccio poi sulla pretesa di invadere altri campi ed imporre il loro approccio pseudo barocco a ciò che barocco non è (Mozart, Beethoven, Rossini, Donizetti, Bellini, Wagner pure e tra poco ci sarà Verdi).
    Su Jacobs: mi fa piacere che nelle conversazioni private risulti molto più amabile di quanto appaia dalle dichiarazioni pubbliche: leggendo le note introduttive al suo Don Giovanni (che ritiene di aver restituito alla verità storica dopo secoli di scempi) non mi sembra affatto sia persona che si pone dubbi o domande. Anzi, scrive che tutti coloro che l’hanno preceduto non hanno capito sostanzialmente nulla dell’opera e di Mozart. E dicendo questo fa un bel pò di confusione circa la tradizione esecutiva (da lui generalizzata come wagneriana e tardo romantica, dimenticandosi della tradizione mozartiana italiana e francese – ma anche tedesca in realtà). Taccio poi sulla fantasiosa applicazione di variazioni in Mozart (e ti rimando alla mia recensione di quel Don Giovanni). Mi sovviene tra l’altro di un’intervista rilasciata da Jacobs al giornale Classic Voice (n. 93 – Febbraio 2007) in cui ad una domanda circa l’eredità di Toscanini (bizzarramente ritenuto dall’intervistatore come pioniere delle odierne prassi filologiche) risponde: “Senza dubbio il rigore dei suoi tempi lo avvicina ai movimenti AUTENTICI, mediamente più veloci”. Ma chi lo dice??? Perchè spacciare un’ipotesi di scuola per verità assodata???? E poi aggiunge: “Non ascolto dischi antichi, anzi non ascolto dischi in assoluto”. Così evita il confronto? E come può mai liquidare il passato senza conoscerlo? Questa per me è ideologia. Sono però felice che nel privato non creda a ciò che dichiara in pubblico…mi fa quasi rivalutare il personaggio!

  16. “I compositori hanno scritto opere per orchestre e non per bande o pianoforti”. Grazie Velluti, senza il Suo aiuto non ci saremmo mai arrivati. E comunque quelli che lei consideri polverosi cimeli non sono esempi di canto “modo antiquo”, ma esempi di canto tecnicamente corretto, l’unico che rende la voce udibile, sopra un piano, una banda o un’orchestra wagneriana, attraverso il più precario dei cilindri così come dal vivo. Vada al posto.

  17. Povero Tamburini… La sua frustrazione di dover scrivere di opera solo su un blog si evince in maniera quasi palmare… Se questo la rende soddisfatto, buon per lei…
    P.S. Se vuole fare il maestrino, impari a non fare errori di ortografia

  18. caro velluti,
    pubblico il tuo commento anche questa volta, anche se siamo al limite dell’insulto. Che è il solo limite per non pubblicare i commenti.
    E lo faccio convinto che il tuo acido commento, stonato come l’acuto di un controtenore baroccaro, in una discussione che era di contenuto interessante ed alto, si commenti da solo.
    Al massimo posso ricordare a me stesso la profonda verità del senario fedriano “nondum matura est, nolo acerbam sumere”.

    Ciao ed alla prossima.
    domenico

  19. Meglio soprassedere sulla provocazione lanciata… Pan per focaccia… Nondum MATURA… Credo che tra me e Tamburini ci sia una notevole differenza di età, che però non si evince di certo dal commento stupido e offensivo lanciato in precedenza, commento che non è entrato nemmeno nel merito della discussione. Da una leggera ironia (l’accenno al maestro) si è caduti veramente ihn basso… E non vedo perchè tacere di fronte alla bassezza

  20. Riscrivo il mio commento in breve tralasciando cose che, in fondo, lasciano il tempo che trovano:

    per Antonio Tamburini, quando scrivi che la Invernizzi non canta Rossini. Sì, ma secondo quello che intendo io (e non solo io) il Belcanto fonda le sue radici nel Seicento, si sviluppa nel Settecento nelle ugole di quelle macchine per il canto che sono i castrati, e tramonta nell’Ottocento dopo Rossini. Per cui la Invernizzi ci ricade in pieno nel Belcanto secondo l’accezione di cui sopra.

    per Gilbert-Louis Duprez: probabilmente non è la migliore prova della Haim, ma io non riscontro le difficoltà di cui parli tu in tutte le sue esecuzioni e trovo la sua concertazione interessante, vivida e capace di coloriture originali. Probabilmente sono io ipersensibile a queste e iposensibile alle differenze tra le interpretazioni della Sutherland di Arne e di Puccini.
    Mi viene il dubbio che tu abbia ascoltato per intero il disco perché tacciare la Mingardo di avere una pessima pronunzia o di una scarsa attenzione alla dizione del testo mi sembra surreale; ancora più grottesca l’affermazione su colorature e agilità ridotte al lumicino quando nel cast c’è una Sandrine Piau, la cui voce è tutt’altro che fissa e incolore, e anche disdegnare l’ottima prova di Naouri nell’impressionante parte di Polifemo mi pare cosa assurda.
    Sul vibrare delle voci barocche: il suono è di per sè vibrazione, pertanto come scrive anche Velluti, ogni suono ben emesso vibra, sia emesso da “baroccari” che da “veristi”. Altra cosa è il vibrato artificiale espressivo che, usato opportunamente, serve, come il suono fisso, a sottolineare certi affetti. Ma solo se usato parcamente… se tutto è sottolineato, niente è sottolineato.
    Sulla bellezza dei suoni: non è che un suono è bello di per sè se è fisso o vibrato, ci sono suoni fissi brutti e suoni vibrati orrendi! E comunque stridori e urla abbondano più nelle voci vibranti che in quelle fisse… ma non perché lo dico io, ma per caratteristiche fisiche del suono fisso, che non può essere urlato!! E comunque la Invernizzi è molto lontana dalla canzonetta, cui, piuttosto si avvicinano molti degli esempi protostorici che postate.
    Se l’Handel della Sutherland o della Sills, il Vivaldi della Horne, sono stati un vero shock per il mondo della musica è anche perché hanno fatto da battistrada (e quindi, in un certo senso, sono responsabili dell’oggi). Le loro esecuzioni sono sicuramente fondamentali ed esemplari, soprattutto per l’importanza storica, ma è anche mia opinione che oggi si sia arrivati (in certi casi è ovvio) ad un raffinamento.
    Inoltre, perché fare di tutta l’erba un fascio, utilizzando l’epiteto dispregiativo di “baroccari” per tutte le compagini che oggi frequentano quel repertorio (e dico tutte, perché quelli che per voi si salvano ormai non praticano più la professione)? Voi stessi vi rendete conto che ci sono differenze tra i vari ensemble.

    Ora una cosa a cui tengo veramente. A parte l’ironia che ogni tanto può anche divertire e ravvivare i discorsi, a me pare che le locuzioni prossime all’insulto e le illazioni offensive vengano molto spesso proprio da voi. Cosa ti fa pensare che io non mi ponga domande, che non legga per documentarmi e che non metta in discussione le provvisorie posizioni che prendo in base a quello che secondo quello che studio mi sembrano più plausibili. Se scrivo in questo blog, in cui le vostre posizioni sono ormai ben note, è proprio per mediare quello che sento da una campana, per arricchire, mettere in discussione ecc. Ci si resta un po’ male quando, forse infervorati dal proprio credo, si risponde “come tutti i baroccari non ti poni domande, ma credi di aver già tutte le risposte: […] è solo un atteggiamento arrogante e saputello, che nulla c’entra con la libertà di ricerca e la vera filologia (che non è rigidità e ottusità come ci fanno credere codesti baroccari)” e “prima di rinunciare all’uso autonomo della facoltà dell’intelletto “… insomma, signori, c’è modo e modo per esprimere le proprie idee e voi avete il brutto vizio di andarci giù un po’ pesante.

    E scusa se questa volta sono uscito un po’ dal gioco dei personaggi e ho sfacciatamente dato del tu; non voglio certo mancare di rispetto, ma ho preferito un approccio più diretto perché in queste ultime considerazioni si è andati sul personale. Forse quel Ti maiuscolo in “ammorbarTi” serviva a rimarcare questa confidenza che mi ero preso anche prima per una svista? O era un refuso?

  21. Musicofilo…OVVIAMENTE io non mi riferivo a te, ma a certi baroccari. Poi considera che la parola scritta non riesce quasi mai ad assumere tutte le sfumature di quella parlata. Comunque mi spiace se ti sei sentito offeso dalle mie parole. Tornando all’argomento della discussione-_: il problema resta uno ed uno solo, cioè il dubbio e la possibilità. Io non voglio ritornare sempre sui medesimi argomenti, tuttavia riscontro una totale chiusura quando parlo con certi fautori del modo antiquo (baroccari…). Lo dico senza intenti polemici: c’è una specie di “spocchia” come di chi ha la verità in tasca. E da questo discende il fango più o meno spesso che viene gettato su tutto ciò che baroccaro non è! Il fatto che tu, al contrario, ti ponga domande e dubbi, mi può solo far piacere poichè rende la discussione più interessante, amabile e costruttiva. Certo è che se dallo scambio di opinioni motivate si arriva all’ideologia (come quella propagandata da Jacobs – a proposito, attendo da Velluti una risposta cira le dichiarazioni dell’amico René…ma temo che aspetterò ancora a lungo) allora ogni discussione cade.

    Ps: ho scritto che l’Aci, Galatea e Polifemo della Haim l’ho sentito solo a pezzi (mi riprometto di riascoltarlo) pertanto qualcosa mi è sicuramente sfuggito. Non mi è sfuggito però l’approccio della concertazione, assolutamente insufficiente a rendere la meraviglia del barocco (e così le voci…checchè tu ne dica, fisse e stimbrate…ma riascolterò). Questione di gusti? Non so…ti consiglio però di gustarti le differenze (assai evidenti) della Sutherland che canta Arne e quella che canta Turandot…altro che Piau o Mingardo…

  22. L’intervista fatta da Hastings è preclaro esempio del metodo seguito da Jacobs nell’approccio alla musica… Ovviamente direte che gli esiti per voi sono sempre fallimentari… Ma mi interessa qui evidenziare la totale assenza dell’atteggiamento incriminato, su cui avete spostato la polemica (mi verrebbe da dire quasi in maniera malevola). Dov’è la presunzione di chi ritiene di avere la verità assoluta? Dov’è l’atteggiamento di chi non si pone dubbi? Io francamente non lo vedo… Ai lettori “ingenui” l’ardua sentenza!!!

  23. Caro Velluti,
    non mi permetto nè, credo, posso legalmente pubblicare una intervista edita su un’altra e diversa testata di carta stampata.
    Se ti fai autorizzare dalla rivista in questione, o possiedi un link internet, o ti accontenti di un rimando bibliografico, ti pubblico e facciamo proseguire questa discussione. Ci farebbe piacere andare avanti in quanto avremmo alcune cose da osservare rispetto a quanto afferma Jacobs.
    Trova un modo diverso per sottoporre la questione
    ciao

  24. Caro Velluti, ti rispondo circa la querelle riguardante René Jacobs, dopo aver letto l’interessante intervista che ci hai segnalato. Purtroppo – come già ti ha scritto la divina Grisi – non abbiamo ritenuto di poter pubblicare direttamente il testo, poiché materiale proveniente da altro sito e luogo: non vogliamo, infatti, incorrere in problemi di “diritto d’autore”, e quindi, senza autorizzazioni o liberatorie dei diretti interessati, ci limiteremo a segnalare il link che permette di accedervi direttamente, così che ciascuno possa facilmente confrontare le mie risposte alle parole di Jacobs. Ti anticipo subito che non potrò essere breve, come non breve è l’intervista al buon René. Detto questo inizierei seguendo (per quanto possibile) l’ordine delle domande.

    Una premessa: le dichiarazioni di un artista (in questo caso esecutore di musica) sono sì interessanti e utili, ma devono essere sempre raffrontate con le realizzazioni pratiche. Una bella idea che non trova un’applicazione coerente, rimane solo una teorizzazione, affascinante quanto si vuole, ma pur sempre priva di valore fattuale. Ecco, per essere chiari ritengo che Jacobs – che in questa intervista appare amabile, conciliante e per certi versi condivisibile – nella pratica disattende poi puntualmente molti dei suoi assunti.

    Ma procediamo:

    1) Su variazioni e appoggiature: rimando in generale alla mia recensione del Don Giovanni, qui soltanto voglio sottolineare alcune cose. Jacobs scrive che “Si abbelliva molto nel tardo Settecento, ed è giusto eseguire la musica di Mozart con la stessa libertà con cui si eseguono Cimarosa e Paisiello”. In realtà l’ambiente musicale di Cimarosa e Paisiello è assai diverso da quello mozartiano, e pure in Mozart un conto è sono le opere serie giovanili, un conto i singspiel tedeschi, un conto le commedie di Da Ponte, un conto, infine, le grandi opere serie. Non si può applicare “la regoletta” che va bene per per gli Orazi e i Curiazi di Cimarosa, o per La Molinara di Paisiello o per il Lucio Silla e il Mitridate, anche alle Nozze di Figaro o alla Clemenza di Tito. Mi sembra filologicamente scorretto e frutto – anch’esso – di una certa ideologia che non si cura delle differenze e delle opportunità, ma che tende a inquadrare ogni cosa entro i suoi ristretti limiti (del resto Jacobs è lo stesso che pure nell’Orfeo ed Euridice di Gluck introduce variazioni e cadenze, nonostante l’autore avesse ESPLICITAMENTE segnato per iscritto – tra i punti programmatici della sua “riforma” – l’assoluto non gradimento/proibizione per l’apporto vituosistico dei cantanti). Se poi si vuole proprio variare, allora lo si faccia secondo lo stile, con gusto e nei luoghi deputati: Jacobs varia dove non dovrebbe e dove potrebbe non varia (penso al Don Giovanni, dove non tutte le arie col da capo vengono variate, mentre ci sono fastidiosi e brutti abbellimenti nell’aria del catalogo – Leporello è personaggio comico, non gli si addice il virtuosismo – o nella serenata del protagonista). E comunque sono spesso variazioni fuori stile (che guardano più a Haendel o addirittura a Monteverdi, più che a certa compostezza neoclassica). E poi basterebbe confrontare le variazioni scritte da Mozart stesso per le sue opere giovanili (o per altri autori) per rendersi conto di come e dove abbelliva. Con un dubbio: viste le differenti scritture (con o senza virtuosismi) di alcune arie (Idomeneo e Ratto del Serraglio), non sorge il sospetto che (a parte le appoggiature – comunque da utilizzare cum grano salis) Mozart scrivesse esattamente l’abbellimento che voleva, e dove non ha scritto probabilmente non l’ha ritenuto necessario?
    2) Per ciò che riguardo le scelte di tempi, dato che Jacobs si riferisce segnatamente alla sua incisione di Don Giovanni, anche io rimando alla mia recensione al riguardo (di nuovo). Solo voglio aggiungere che la questione non dipende solo dalla velocità. O meglio non si può andare spediti solo per scelta ideologica, a prescindere da tutto il resto, azzerando le dinamiche, sterilizzando e impedendosi quel gioco di sfumature che è il senso stesso di un’interpretazione direttoriale (e che in assenza diviene meccanica e metronomica). Ti faccio un esempio: il Mozart di Solti (o di Szell) è molto più veloce e vivace, eppure non rinuncia ad essere espressivo, e non assomiglia a quella specie di organetto meccanico che è l’accompagnamento del Mozart baroccaro.
    3) Sugli organici che dovrebbero adattarsi all’acustica della sala, sul dogmatismo di certe compagini inglesi, sulla necessità di studio e tecnica, sull’importanza della pronuncia italiana (che, per amor di verità, è spesso assai deficitaria anche nelle sue incisioni) sulle voci rovinate da carriere sballate che fanno affrontare ruoli inadatti o anzi tempo, sull’arrogante inutilità di certi registi (cita Ronconi giustamente), sono sostanzialmente d’accordo con lui, ma scopre l’acqua calda: non è certo il primo a sostenere ciò. Non ci voleva certo l’avvento della filologia baroccare per confermare ciò che non solo è ripetuto da anni da musicisti ed esecutori dell’esecrabile tradizione (ad esempio la Sutherland), ma che è anche espressione di buon senso e intelligenza. Il fatto che Jacobs, caso raro tra i catecumeni della filologia barocca, sia “tornato a Canossa” dopo anni in cui si è ripetuto il contrario, mi fa piacere, certo, ma non mi emoziona più di tanto.
    4) Circa il rapporto con altri direttori e orchestre non “originali”, che dire… L’intervista non dice molto, fuorchè una chiusura pregiudiziale nei confronti di orchestre che suonano con gusto e strumenti moderni (ritenute implicitamente scorrette), tanto da costituire uno sforzo sopportato assai mal volentieri quello di suonare con loro (probabilmente ritenuti musicisti di serie B perché suonavano senza corde di budello, magari col puntale, oppure – ORRORE! – su fiati con pistoni: ed è INACCETTABILE per un baroccaro che un trombone o un corno sia intonato) e che comunque ha dovuto fargli un ripasso di come si suona davvero (ah se non ci fosse René…). Su altri direttori nulla dice, a parte Bohm e Karajan che gli piacquero molto in gioventù (ma ci voleva Jacobs per farci scoprire il Mozart di Karajan e Bohm???). Devo però ribadire che qui il pensiero jacobsiano diverge da altre sue dichiarazioni (che ho riportato) ove si dice chiaramente che lui musica diretta da altri non la ascolta proprio…

    A parte tutto, Velluti, non capisco però il senso di riportare questa intervista. Cosa vuole dimostrare? Cosa vuole comunicare? Che Jacobs non è spocchioso o arrogante? Vero: in questa intervista è amabile e conciliante (quasi sempre) tuttavia potrei citarti altre dichiarazioni su giornali, riviste, introduzioni a sue incisioni (Don Giovanni docet) in cui non vi è traccia alcuna di questa amabilità, anzi appare di un’arroganza fastidiosa! Perché far mostra di cotanta umiltà (?) e poi annunciare urbi et orbi che il proprio Don Giovanni è l’unico e il solo a restituirci un’immagine autentica dell’opera, ripulita dalle incrostazioni successive e che prima di lui il pubblico ha dovuto sorbirsi una versione adulterata? Non è arroganza il far mostra di sé come del depositario di verità ed autenticità? Oppure vuoi forse mostrarci quante belle idee ha il buon René? Te ne do atto, ma perché poi scegliere Veronique Gens come Fiordiligi (per nulla sensuale e tendenzialmente fissa), o la Donna Anna di Olga Pasichnyk o la Donna Elvira di Alexandrina Pendatchanska (dalle pronunce inintelleggibili e che segnano, forse, il livello più basso nell’interpretazione di quei personaggi nella non scarsa discografia dell’opera) Jacobs, come tutti, va giudicato per quello che fa o ha fatto, non per quello che ha detto o dice. Anche perché la saggezza popolare (spesso inascoltata, ma quasi sempre vera) ci suggerisce che “tra dire e fare, c’è di mezzo il mare..).

  25. L’intervista è stata riportata proprio per evidenziare quanto sia assente quell’atteggiamento spocchioso, arrogante e presuntuoso di chi ritiene di possedere la verità in tasca (dato che a un certo punto la discussione è stata trascinata sulle dichiarazioni, sulle intenzioni, sul non detto, e cose di questo genere). Questo è il motivo principale… Ciò non impedisce, però, a Jacobs di proporre la SUA visione di Mozart (tra parentesi: l’excursus su Paisiello mi sembra superfluo. Forse non ho ben letto l’intervista, ma non mi sembra che Jacobs associ Mozart a Paisiello; semplicemente ricorda come ci fosse UNA TEMPERIE storica e musicale in cui la variazione e l’abbellimento, nel caso specifico le appoggiature, fossero di inserimento continuo e costante…). Per quanto concerne l’ascendenza barocca degli abbellimenti e delle variazioni inseriti da Jacobs, questa è un’affermazione che andrebbe mostrata sotto l’aspetto musicale… Non basta dirlo! A ciò si unisca che è vero che Mozart indica chiaramente i punti in cui andrebbe inserita una variazione o un abbellimento, ma ciò non toglie che spesso fosse proprio il cantante ad inserirli sua sponte e questi gli derivavano dalla sua cultura e dalla sua formazione… Se un cantante proveniva dalla scuola napoletana, ad esempio, mi sia concesso sostenere che avrà sicuramente abbellito sulla base della sua formazione e del suo gusto, che all’epoca di Mozart ancora moltissimo doveva a musicisti come Pergolesi… Di certo Mozart era un autore di estrema lucidità, per cui scriveva abbellimenti e variazioni laddove lo riteneva opportuno dal punto di vista drammatico. Ma ciò non toglie che – per quanto concerne il caso delle appoggiature, caso richiamato da Jacobs in maniera specifica – queste siano segnalate anche nell’edizione critica (dato su cui bisognerebbe riflettere con maggiore attenzione!!!).
    Per quanto riguarda il sottinteso da Lei individuato nell’accenno alle orchestre non barocche, non trovo l’inferenza da lei data per scontata. Se viene chiamato un direttore come Jacobs a dirigere un’opera, sarà di certo lui a scegliere che tipo di fiati avere in orchestra… Ma è interessante notare come Jacobs non faccia il benchè minimo cenno a presunte incapacità degli strumentisti… Semplicemente – per dirigere un’opera – egli richiede un certo tipo di approccio alla musica, necessita di un certo lavoro con gli strumenti, si sforza di far entrare gli strumentisti nella SUA visione dell’opera (Santiddio… Ma non è questo il lavoro del direttore???!!!???).
    Sulle voci impiegate da Jacobs dò atto della loro sostanziale inadeguatezza… Ma, mi sia concesso, avreste avuto qualche nome da suggerire al povero Renè? Al di là del materiale vocale sfoggiato da Alexandrina Pendatchanska, in sè notevole (sulla pronuncia un direttore può insistere quanto vuole, ma se una non la domina, c’è poco da fare, non la dominerà mai!!!), è indubbio che l’esecuzione vocale sia piuttosto fallimentare… Ma questo nulla toglie all’esecuzione musicale, che in molti punti dell’opera trovo davvero originale e, secondo il mio punto di vista, illuminante per il momento drammatico che si svolge dalla musica mozartiana (ovviamente immaginando altre voci che cantano!!! Che sarebbe stata la Berganza su quell’orchestra!!!). Mi fa piacere comunque che il discorso sia stato riportato sui dati e non sulle intenzioni (ovviamente secondo lei le intenzioni di Renè non si riscontrano nell’esecuzione… Io posso dire di ritrovare nel suo Don Giovanni tutti i caratteri evidenziati nell’intervista… Che poi l’esecuzione non le piaccia è un altro paio di maniche. Ma segue un preciso intento metodologico, eseguire Mozart nella maniera più aderente possibile alla prassi esecutiva dell’epoca, così come ricostruibile dalle fonti in nostro possesso… Ma ogni cosa, in questo ambito, è opinabile!!!). Sulle appoggiature e gli abbellimenti in Mozart consiglio la lettura del documentatissimo studio di Nicholas Till, Mozart and the Enlightenment: Truth, Virtue and Beauty in Mozart’s Operas, New York 1993. Potrete trovare alcune notazioni interessanti emerse proprio dagli scritti di Mozart indirizzati alla cugina e ad alcuni cantanti.

  26. Eh no caro Velluti, non cambiamo le carte in tavola:

    1) Jacobs nell’intervista, parlando non di appoggiature, ma di abbellimenti dichiara testualmente: “Ho dato diverse indicazioni ai cantanti sui luoghi in cui variare o introdurre cadenze. Ai tempi di Mozart le corone per esempio indicavano chiaramente un’occasione per improvvisare. Si abbelliva molto nel tardo Settecento, ed è giusto eseguire la musica di Mozart con la stessa libertà con cui si eseguono Cimarosa e Paisiello” Non sono io a forzare l’accostamente: io continuo a sostenere che quella “temperie” di cui lei parla Velluti, non sia la medesima che riunisce Paisiello, Cimarosa e Mozart, proveniendo gli stessi da mondi musicali diversi, con tradizioni e connotazioni diverse (almeno in parte). Un conto è la scuola napoletana, un altro è la Vienna di Mozart (dove operavano Gluck e Salieri). Certo esibizionismo vocale non trova spazi nell’estetica mozartiana, costruita sul delicato equilibrio di sfumature e strutture assolutamente originali e particolari. E questo mi pare innegabile. E poi se nelle prime opere vi è ancora grande spazio lasciato all’improvvisazione del cantante, già a partire da Idomeneo e dal Ratto del Serraglio, questa è assai ridimensionata (lì è Mozart stesso a scrivere cadenze e abbellimenti – avendo egli a disposizione un certo tipo di cantante).

    2) L’inadeguatezza delle voci: ma che diamine! Si tratta di opera lirica, non di una sinfonia o un quartetto! La scelta delle voci è ESSENZIALE! Il fatto che le idee di Jacobs in merito non trovino realizzazioni compiute, non fa che testimoniare la rilevanza del problema! L’esecuzione musicale, così com’è, rimane zoppa e quindi per nulla soddisfacente.

    3) E’ vero che sulla pronuncia di un cantante un direttore ha poca influenza, ma quando si dichiara: “Anche la pronuncia italiana non è facile, e sono sicuro che se dovessi riascoltare oggi le prime incisioni che feci in italiano troverei errori ricorrenti: doppie consonanti trascurate, vocali impure ecc.. Il mio amore per la dizione italiana perfetta deriva dalla collaborazione con cantanti e maestri sostituti italiani nella preparazione di spettacoli teatrali. E ogni volta che ho diretto un lavoro italiano in disco, ho sempre voluto con me un preparatore esperto della lingua” significa che il problema della lingua è aspetto fondamentale. Eppure il potente Jacobs (lo scrivo senza ironie: lo è di fatto nella casa discografica che lo supporta) scrittura cantanti che sono del tutto alieni all’italiano! Chi li ha chiamati? Chi ha fatto le audizioni?

    4) Sugli accenni alle orchestre moderne: io ho trovato le parole di Jacobs fuori luogo. Non si limitano ad indicare una preferenza (legittima per carità), ma ad attribuire patenti di autenticità storica (cosa del tutto opinabile poi). Che poi preferisca utilizzare la sua orchestra mi pare ovvio, sugli “esiti stupefacenti” invece, lascerei il giudizio agli ascoltatori.

    5) Su abbellimenti e appoggiature già ho articolato il mio pensiero (qui e in altri luoghi). Un’appunto: sono convintissimo del fatto che “eseguire esattamente come scritto” sia una prospettiva sbagliata, sempre. Non deve certo convincermi della legittimità delle appoggiature, nè sull’uso dell’edizione critica (che ho consultato con attenzione prima di scrivere e recensire). Tuttavia le faccio notare che già Bonynge negli anni ’60 ha inciso un Don Giovanni con tutte le appoggiature del caso, senza bisogno delle prescrizioni di Jacobs. Questo per dire che non è vero il fatto che prima degli “specialisti del barocco” ci fossero solo pachidermi para wagneriani…

  27. Lei quindi propone un Mozart senza variazioni, se ho capito bene… Personalmente non credo che questo sia totalmente possibile… Nel volume che le ho citato in precedenza, Till riporta lettere e missive di Mozart in cui parla con cantanti e soprattutto con la cugina in merito ad abbellimenti e variazioni delle opere italiane… Ovviamente altro è l’opera in tedesco mozartiana, ma di questo Jacobs non parla, almeno così mi sembra… Credo che il riferimento sia alle opere italiane (non a caso ha inciso il Don Giovanni). Comunque fa bene a tenere sempre davanti la complessità e la varietà del teatro mozartiano, non riassumibile solo alle opere italiane. Ma per quanto concerne quelle, Mozart si rifà indubbiamente alla tradizione operistica italiana, di cui riprende “lingua, strutture, modelli e tradizioni esecutive” (la citazione è da un bel saggio di M. Aspinall), ergo anche la tendenza alla variazione (le cadenze finali, quasi sempre segnate con il punto a corona e una nota ferma… Lì è quasi ovvia la variazione, si pensi al Mitridate). Forse, per quanto concerne le opere “semiserie” italiane, il discorso andrebbe sfumato, ma anche in quel caso, ci sono arie dove la variazione è difficile da inserire (anche se lo stesso Furtwaengler in talune occasioni faceva concludere il “Mi tradì…” alla Schwarzkopf con una corona finale sul sib acuto, anzichè farla scendere…), altre in cui le seconde strofe possono presentare variazioni e abbellimenti… Ma il discorso di Jacobs nell’intervista credo sia in generale sul Mozart italiano. Sull’accostamento a Paisiello e Cimarosa, ritorno a dire che mi sembra semplicemente un parallelismo per quanto riguarda la temperie culturale e le tradizioni esecutive italiane dell’epoca, che Mozart condivide, almeno quando scrive un’opera secondo gli stilemi dell’opera seria italiana. Ciò non toglie che il grande salisburghese presenti delle specificità… Ma un conto è sostenere a priori la specificità mozartiana, un altro è illuminarla e renderla tale sulla scorta di un contesto (una specificità è sempre tale rispetto a qualcos’altro…). Sui cantanti ho già detto, e non credo che Jacobs potesse fare di più. Oggi mettere su un Don Giovanni degno delle parti scritte sullo spartito è davvero quasi impossibile. Mancano le voci adatte a Donna Elvira e Donna Anna… Manca una voce per Zerlina (a mio avviso fraintesa anche nelle incisioni cosiddette “d’oro”… Ma dove sta scritto che Zerlina debba essere soprano leggero? La partitura di certo non suggerisce questo… Tutt’altro!), manca un vero Don Giovanni che si rispetti (l’ultimo, per il mio gusto personale, è stato Ghiaurov).
    Per quanto concerne Bonynge, nessuno ne mette in discussione la grandezza e la fondamentale importanza… Ma ogni direttore propone una sua visione, senza per questo disconoscere qualcun’altro (è un modo di pensare alquanto manicheo questo, non crede?).

    P.S. L’accenno iniziale, alquanto brusco, del suo ultimo intervento (“Eh no caro Velluti, non cambiamo le carte in tavola”), evidenzia quell’atteggiamento abbastanza ostile e arrabbiato che già altre volte mi sembra di averle imputato… Francamente lo trovo eccessivo: non c’è nessuno che sta cercando di attentare alla sua o altrui vita…

  28. Riprendendo le fila del discorso…non mi sembra di aver scritto quello che lei mi attribuisce, cioè un Mozart “così com’è scritto”. Ciò che contesto in Jacobs è l’assunto iniziale: la “regolina” per cui se all’epoca i cantanti abbellivano e infarcivano di variazioni Cimarosa e Paisiello allora va fatto anche in Mozart. E questo senza tener conto delle differenze e delle peculiarità all’interno del catalogo mozartiano. Ripeto per l’ennesima volta: Lucio Silla, Mitridate o La Finta Semplice si inseriscono in un certo tipo di opera indubbiamente legato ai modelli della tradizionale opera serie (schemi e forme la rispecchiano: arie tripartite inframezzate da recitativi secchi), ovvio quindi che l’interprete arricchisca la parte come gusto, ispèirazione e tecnica richiedono e consentono. Del resto proprio la struttura dei brani solistici (spesso lunghi e con “da capo”) lo impone. Diverso è il caso delle opere della maturità almeno a partire da Idomeneo (vi faccio rientrare però anche il Ratto del Serraglio, perchè pur essendo un singspiel tedesco non è assimilabile per fruizione e intenti al Flauto Magico). Da lì in poi cambia il rapporto tra interprete vocale e musica scritta. L’opera diviene una struttura più complessa ove orchestra, strumenti solisti, aspetti sinfonici e concertanti, si intrecciano al dato puramente vocale, in una differente visione estetica. In quest’ambito è difficile concepire per il cantante quella stessa libertà che poteva rivendicare nel Mitridate (così come nelle opere di Haendel). E’ ovvio che il mutamento della struttura melodica attraverso il forzato inserimento di cadenze e variazioni finisce per “stuprare” la purezza della linea musicale mozartiana. Significa rinunciare agli abbellimenti? Assolutamente no: significa l’uso moderato degli stessi. Che non si dovrebbe prevaricare la scrittura musicale o variarne i profili. Cosa imputo a Jacobs? Nelle sue parole il fatto che tende a non considerare queste intrinseche diversità interne al catalogo mozartiano; nelle realizzazioni (incisioni) l’uso francamente eccessivo di variazioni e cadenze, non sempre riuscite o “in stile” (a volte richiamano quelle del recitar cantando: penso a certi trilli ribattuti) e – nel caso di Don Giovanni – francamente brutte (penso alla serenata).

    Ps: su Zerlina hai in parte ragione (certo potrei citarti delle ottime Zerline nella Sciutti, nella Freni, nella Guden, nella Horne), ma di certo la soluzione di Jacobs è ancora peggio del solito…

    Pps: sul manicheismo: ma non le pare, Velluti, che sostenere come prima del proprio avvento nessuno avesse capito un ette di Don Giovanni (come fa Jacobs) sia assolutamente un atteggiamento rigido e manicheo???

  29. Devo rileggere l’introduzione al Don Giovanni… Da quello che so di Jacobs, il suo intento è stato quello di riportare il Don Giovanni alla sua tradizione esecutiva originaria… Ma questo non vuol dire disconoscere ciò che è stato fatto prima. Al di là dei proclami pubblicitari, che lasciano il tempo che trovano, è indubbio che Mozart sia un autore talmente grande e geniale da aver influenzato epoche e tradizioni esecutive lontanissime dalla sua epoca. Ciò vuol dire che si è innescato un processo ermeneutico di continua rilettura e attualizzazione che non fa altro che confermare della grandezza della sua musica… Oggi abbiamo gli strumenti (almeno musicologici e filologici) per cercare di riprodurre un’esecuzione mozartiana così come avveniva alla sua epoca (facendo ovviamente un po’ di astrazione!); questo non significa esaurire la ricchezza di Mozart e non significa obliterare completamente ciò che è stato fatto prima. La tradizione esecutiva alla tedesca del Mozart italiano, ad esempio, è espressione di una temperie particolare, di un’epoca specifica, in cui l’interesse filologico per le varianti filologiche, per le tradizioni esecutive settecentesche, etc. etc. non era molto vivo. L’intento principale di un’esecuzione mozartiana era di tutt’altro tenore. Ciò non ha impedito ad alcune esecuzioni di assurgere all’Olimpo della storicità… Il punto sono sempre gli intenti: sarebbe interessantissimo vedere l’intento per cui Mozart veniva rappresentato durante il nazismo, oppure le poliedriche riproposizioni del suo teatro in epoca vittoriana… Ogni esecuzione nasce in un contesto storico-sociale, che riversa nella riproposizione di un capolavoro del passato gran parte della Wetanschauung della sua epoca. Non è un discorso meramente astratto, ma ha precise ripercussioni, quando si parla di opera, nell’esecuzione concreta di uno spartito. E’ indubbio che la nostra sia un’epoca dove l’interesse principale per l’opera lirica si sia riversato sul dato antiquario, sul dato filologico e storico (con numerosi eccessi, ve ne dò atto!), soprattutto sulla scorta del lavoro compiuto da pionieri come Bonynge… Questo intento è assolutamente diverso da quello di un Furtwaengler, ad esempio, che di questi problemi non si curava molto; per lui Mozart era un autore della tradizione tedesca (nonostante avesse scritto opere in italiano), e testimoniava le origini di una tradizione musicale che via via si portava a Wagner… Di certo anche la prospettiva di Furtwaengler, dalla sua ottica e secondo l’ottica del suo contesto culturale e storico, coglie nel giusto un aspetto del geniale teatro mozartiano, ma che di certo non è totalizzante.
    In sintesi, quello che voglio dire è che a seconda dei contesti sociali e culturali, la riproposizione di un capolavoro del passato obbedisce ad istanze che sono tipiche dell’epoca in cui quel determinato capolavoro viene riprodotto.
    Eseguire Mozart secondo gli stilemi dell’epoca propria di Mozart non è un voler tacciare gli altri di incompetenza, ma è semplicemente specchio di una temperie storico-culturale, la nostra, dove il dato filologico ha assunto rilevanza (invero eccessiva) nel campo musicale (in seguito ad importanti approcci pioneristici condotti in precedenza). Il Mozart di Boehm, diversissimo da quello di Busch, ad esempio, è specchio di un’epoca diversa, dove l’intento della riproposizione di un capolavoro mozartiano era del tutto diverso dal nostro, un intento che mi viene da definire “teatrale”, che va inteso nel senso della fruibilità a livello teatrale di un’opera mozartiana. Oggi questo intento è passato assolutamente in secondo piano, per una serie di motivazioni sociali abbastanza ovvie, che non sto qui a riproporre. Con Furtwaengler, Boehm, Busch e Moralt (nipote di Strauss, e principale artefice della “straussizzazione” di Mozart nella Vienna degli anni ’50), le cui esecuzioni mozartiane sono lontanissime tra loro, ci troviamo in una temperie dove l’interesse principale era quello di rendere Mozart un prodotto fruibile a livello teatrale. Oggi questo intento sta scomparendo perchè sta scomparendo l’idea di teatro così come concepita allora (che però era diversissima dall’idea stessa di teatro che c’era all’epoca dello stesso Mozart), per lasciare spazio al teatro come “fatto culturale”, ovvero come riproposizione di un passato che va analizzato (e riproposto) con gli strumenti filologici con cui di solito si ricostruisce il passato.

  30. E’ vero Velluti, ogni interpretazione risente delle circostanze storiche e culturali in cui si è venuta a trovare. Ergo ogni fenomeno andrebbe inserito in una visione storicizzata e “dinamica”. Tuttavia per dirla con Shakespeare “ci sono più cose in terra e in cielo di quante possa comprenderne la nostra filosofia”. Che vuol dire? Beh, vuol dire che non si può ridurre l’interpretazione di Mozart (e di qualunque altro autore classico) ad una visione manichea che divide da una parte i buoni (fautori di un modo esecutivo “corretto e autentico”) e dall’altra i cattivi (che, chi più chi meno, hanno “falsificato” l’autore). E non si può per due motivi: per prima cosa perchè la stessa definizione di “autenticità e correttezza” è discussa e discutibile (per non parlare dei problemi connessi ad una pretesa e irrealizzabile riproduzione esatta della prassi esecutiva d’epoca); e poi perchè l’universo dei “cattivi” è talmente variegato da non permettere una generalizzazione sotto un’unica etichetta. Infatti accanto al Mozart “tedesco” (più o meno straussizzato o wagnerizzato) c’è un Mozart “italiano” o “francese”. Accanto ad un Furtwangler (il cui Don Giovanni però è una pietra miliare della discografia operistica) c’è Bruno Walter o Kleiber o Gui, latori di un’interpretazione del tutto differente. Pensa al Mozart di Glyndeburne, o a quello italiano (Così Fan Tutte diretto da Cantelli, Don Giovanni di Molinari-Pradelli, Nozze di Figaro di Gui). Non vi è traccia di quella pretesa “falsificazione tardoromantica” di cui parla Jacobs. Gli specialisti del barocco invece, oltre a presentarsi come gli unici interpreti attendibili (e questo per me è insopportabile) tendono a uniformarsi tutti intorno ai medesimi paradigmi. Se ascolto il Mozart “storico” rilevo libertà, varietà, differenze. Se ascolto invece il Mozart “filologico” di moda oggi trovo una sostanziale uniformità: Ostman, Gardiner, Norrington, Malgoire, Jacobs. E’ sempre la solita minestra. Il problema è che nel menù non c’è nient’altro. Non c’è scelta. O meglio si impongono come l’unica scelta possibile. E qui non c’entrano gli strumenti filologici di cui disponiamo (sacrosanti e benvenuti), ma è un problema esclusivamente ideologico.Ecco io vedo in questa imposizione forzata di ideologie interpretative, un grave pericolo per la libertà esecutiva di certi autori e una grave perdita di varietà, differenze e autonomia di lettura.

  31. Adoro il Mozart di Cantelli e Gui (nonostante le reciproche e profonde divergenze; non passa mattina che non ascolti la sinfonia delle Nozze diretta da Gui… Lo consiglio a tutti per iniziare la giornata nel migliore dei modi!!!!): sono entrambi di una modernità straordinaria… Si vedono chiaramente i rivoli che dall’opera italiana settecentesca arrivano via via fino a Rossini… Sento un po’ meno vicino alla mia sensibilità il Mozart di Boehm, un po’ troppo “viennese”, nel senso folkloristico del termine… Posso dire che, in quanto filologo, non mi sogno assolutamente di dire che la mia attività ha la pretesa di stigmatizzare come “false” le letture appena citate… Semplicemente cerca di apportare un contributo per la valorizzazione di nuovi aspetti della grandezza mozartiana, i quali possano gettare, soprattutto per i posteri, una certa luce su questa stessa nostra epoca.

  32. Velluti, pure io adoro il Mozart di Gui (le sue Nozze di Figaro sono, secondo me, ancora insuperate). Vede, lei parla del suo lavoro di filologo esattamente come io intendo la filologia (e mi riporto alle dichiarazioni che il Prof. Della Seta ha rilasciato per il nostro sito, condividendole in toto): purtroppo molti “specialisti del barocco” non hanno questo stesso atteggiamento. La filologia dovrebbe essere un punto di partenza, non un punto d’arrivo.

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