Vi fu un tempo, nella storia d’Europa – prima che al centro di tutte le speculazioni filosofiche, dei valori civili, dell’etica e della moralità, delle concezioni estetiche, dell’arte e della letteratura, della musica e dell’architettura, vi fosse l’Uomo (e la Ragione Universale presa dai philosophes di turno a bandiera dei loro ideali tanto sublimi quanto freddi e distanti) – in cui protagonista fu l’uomo soltanto. Nella sua semplicità e nella sua complessità. E’ l’epoca barocca.
Tra ‘600 e ‘700 cambia radicalmente la visione del mondo. Tra i penitenziali rigori della Controriforma e il bruciore dell’epoca dei Lumi, si inserisce un tempo ricco di contraddizioni, di estro, di fantasia, di splendori e ombre, di fasto e di leggerezza (lo stesso termine deriverebbe dalla parola portoghese barroco, indicante le perle non coltivate asimmetriche, irregolari) che, pur nelle astrazioni dei suoi risultati artistici e speculativi, mai ha perso il contatto con la realtà terrena e carnale. Una nuova visione del mondo, dicevo, interpretato e visto nelle sue molteplici sfaccettature (tante quanti sono gli aspetti molteplici della vita) e senza pretese sistematiche: del resto proprio in quegli anni nasce e si sviluppa la moderna scienza sperimentale, che abbandonerà il concetto dell’auctoritas (concezione scolastica che innervava ogni ramo del sapere) per un metodo di ricerca più concreto e umile, aperto al dubbio, alla confutazione e alla dimostrazione degli assunti: la realtà è data, attraverso la tecnica e la ricerca essa va studiata e modificata per poterla governare. Una visione, dunque, più materialistica che ideale e che invaderà tutti gli spazi della cultura dell’epoca. Tutti gli aspetti della cultura del tempo tradiscono la profonda umanità dello stesso: il fasto, la ricchezza, l’elaborazione formale, la sovrabbondanza, altro non sono che tentativi di regolare l’imprevedibilità delle forme del reale attraverso la tecnica e l’intelletto (non ancora la Ragione metafisica degli illuministi). Lo stesso concetto di “meraviglia” si può comprendere appieno solo partendo da qui. Lo stupore non è dato dalla mera osservazione del sublime e dell’irrazionale (come sarà poi in epoca romantica), ma attraverso la traduzione che la tecnica e l’uomo (inteso come essere umano di carne ed ossa), riescono a dare di questa realtà complicata e complessa. E’ il concetto di astrazione, ossia la traduzione della realtà mediata dal sapere tecnico, dall’arte e dall’intelletto (e sempre finalizzato all’utile dell’uomo). Paradossalmente è proprio dall’uso virtuosistico della forma (che di per sé potrebbe far pensare a qualcosa di rigido e immobile) che si esprime la fantasia e l’irregolarità dell’estetica barocca. Concentrando l’attenzione sull’aspetto che qui più interessa, ossia la musica e l’opera, si nota come proprio dall’uso delle forme apparentemente statiche, si realalizza quell’astrazione che traduce il meraviglioso in meraviglia, ossia la causa in effetto. Riconducibile allo stesso aspetto è la concezione barocca della Magia. Non vista come abbandono all’irrazionale, o ai misteri della natura (non c’è spazio per questo nella weltanschaung barocca), ma come tecnica, arte, abilità, per piegare la realtà ai desideri dell’uomo. Una via alternativa alla scienza che nulla ha di misterioso o sovrannaturale, ma che, di nuovo parte e si risolve nell’uomo e che altro non è se non un aspetto ulteriore della complessità del mondo (si pensi all’Amleto di Shakespeare: “vi sono più cose in terra e in cielo di quante ne possa sognare la tua filosofia”). La magia è vista più come alchimia che come cupo rifugio di forze inconoscibili: tutto si può comprendere per l’uomo barocco, a patto di possedere la tecnica giusta. La magia, così intesa, irrompe nell’arte: nella pittura, nella letteratura e soprattutto, per quel che interessa a noi, nella musica. Ovviamente si parla di Haendel: egli dedicherà ad essa ben 5 titoli del suo catalogo (5 opere in cui la magia è protagonista nello scioglimento dell’intreccio, nella caratterizzazione di taluni personaggi, e nel linguaggio espressivo musicale). E precisamente: Rinaldo (1711, rivisto nel 1731), Teseo (1713), Amadigi (1715), Orlando (1733) e Alcina (1735). Ora di argomento cavalleresco (tratte dal Tasso, dall’Ariosto nonché dall’epica francofona) ora tratte da fonti classiche (Euripide, anche se per tramite della tragédie del teatro francese), presentano sì notevoli diferenze tra loro (dovute ovviamente alla maturazione dello stile compositivo dell’autore nel corso di 20 anni abbondanti, e, ancora più ovviamente, alle diverse peculiarità degli interpreti creatori dei ruoli), ma anche tratti comuni proprio nella traduzione in musica degli elementi magici. Essi si possono riassumere in un’accentuata irregolarità e apparente squilibrio nelle forme, nella ricchezza di inserti strumentali, nell’uso alternato dell’arioso e del recitativo accompagnato (a simboleggiare una certa imprevedibilità dell’elemento, rispetto alla maggior quadratura con cui vengono tradotti i caratteri più terreni), nella sovrabbondanza della coloratura, nell’asimmetricità della stessa e dall’esasperazione del virtuosismo (oltre ad una maggiore presenza – nell’economia generale dell’opera – di “arie di furore”). Nel Rinaldo il personaggio magico è rappresentato da Armida (originariamente scritto per il soprano Elisabetta Pilotti-Schiavonetti e poi, nella revisione del 1731, dal contralto Antonia Maria Merighi). A lei sono dedicate 4 arie di carattere prevalentemente agitato (e quindi espresse in virtuosismi e acrobazie). La stessa prima interprete di Armida creerà anche i ruoli magici di Medea nel Teseo (dalla scrittura più tradizionale) e di Melissa nell’Amadigi (a cui Haendel riservò un trattamento musicale di particolare complessità ritmica e virtuosistica, sia nelle arie – prevalentemente di furore con sfoggio di acrobazie e difficilissime agilità – sia nell’atipico recitativo accompagnato e arioso nella scena della morte, poco prima del finale dell’opera, caratterizzato da ambiguità e irregolarità). I tre ruoli, dunque, scritti per la medesima cantante, presentano comuni aspetti per ciò che riguarda la tessitura e le difficoltà tecniche. Tralasciando Orlando (che presenta un basso nel ruolo magico e che, dunque, esula in parte dal discorso, atteso che la sua vocalità è differente e non accomunabile alle altre maghe) resta Alcina, la cui protagonista veste i panni dell’incantatrice. Ruolo creato per Anna Maria Strada del Po’, consta di 6 arie (a cui si può aggiungere – in ossequio ad una tradizione consolidata – una settima aria Tornami a vagheggiar, originariamente affidata a Morgana), di carattere più elegiaco rispetto a quelle affidate alle altre maghe, ma in cui si ritrovano ugualmente lo stesso virtuosismo e la stessa apparente irregolarità formale.
Il necessariamente breve, e sicuramente incompleto, excursus permette dunque di tracciare un identikit vocale della Maga di Haendel: ampie tessiture, possesso di tecnica perfetta onde poter al meglio rendere lo spericolato virtuosismo con cui il Caro Sassone condisce le parti, capacità di rendere gli aspetti ambigui dei personaggi (furore e amore, aggressività e rassegnazione, eroismo e crudeltà) ed infine grande fantasia (che ha da esprimersi nelle variazioni e nelle cadenze che prescrivono da capo e corone). Il 10 marzo Alcina torna alla Scala, nel non più nuovo allestimento di Robert Carsen (approntato una decina d’anni fa per l’Opéra di Parigi) e che – al solito – riduce la vicenda “magica” a dramma borghese con artificiose innervature di inquietudini strindberghiane (un cliché che il regista, molto à la page negli ambienti che contano ormai, perpetua in qualsiasi titolo egli si trovi ad affrontare: suggestivo, forse, e interessante quando si tratta di novità, ma che all’ennesima replica di sé stesso appare come stanco manierismo). Nel ruolo della protagonista si alterneranno Anja Harteros e Inga Kalna. Se esse sapranno incarnare i caratteri della maga hendeliana, così come sono stati individuati, lo si vedrà a breve, alla prova dei fatti: nel frattempo preferisco ascoltare le magie di Joan Sutherland.
Tra ‘600 e ‘700 cambia radicalmente la visione del mondo. Tra i penitenziali rigori della Controriforma e il bruciore dell’epoca dei Lumi, si inserisce un tempo ricco di contraddizioni, di estro, di fantasia, di splendori e ombre, di fasto e di leggerezza (lo stesso termine deriverebbe dalla parola portoghese barroco, indicante le perle non coltivate asimmetriche, irregolari) che, pur nelle astrazioni dei suoi risultati artistici e speculativi, mai ha perso il contatto con la realtà terrena e carnale. Una nuova visione del mondo, dicevo, interpretato e visto nelle sue molteplici sfaccettature (tante quanti sono gli aspetti molteplici della vita) e senza pretese sistematiche: del resto proprio in quegli anni nasce e si sviluppa la moderna scienza sperimentale, che abbandonerà il concetto dell’auctoritas (concezione scolastica che innervava ogni ramo del sapere) per un metodo di ricerca più concreto e umile, aperto al dubbio, alla confutazione e alla dimostrazione degli assunti: la realtà è data, attraverso la tecnica e la ricerca essa va studiata e modificata per poterla governare. Una visione, dunque, più materialistica che ideale e che invaderà tutti gli spazi della cultura dell’epoca. Tutti gli aspetti della cultura del tempo tradiscono la profonda umanità dello stesso: il fasto, la ricchezza, l’elaborazione formale, la sovrabbondanza, altro non sono che tentativi di regolare l’imprevedibilità delle forme del reale attraverso la tecnica e l’intelletto (non ancora la Ragione metafisica degli illuministi). Lo stesso concetto di “meraviglia” si può comprendere appieno solo partendo da qui. Lo stupore non è dato dalla mera osservazione del sublime e dell’irrazionale (come sarà poi in epoca romantica), ma attraverso la traduzione che la tecnica e l’uomo (inteso come essere umano di carne ed ossa), riescono a dare di questa realtà complicata e complessa. E’ il concetto di astrazione, ossia la traduzione della realtà mediata dal sapere tecnico, dall’arte e dall’intelletto (e sempre finalizzato all’utile dell’uomo). Paradossalmente è proprio dall’uso virtuosistico della forma (che di per sé potrebbe far pensare a qualcosa di rigido e immobile) che si esprime la fantasia e l’irregolarità dell’estetica barocca. Concentrando l’attenzione sull’aspetto che qui più interessa, ossia la musica e l’opera, si nota come proprio dall’uso delle forme apparentemente statiche, si realalizza quell’astrazione che traduce il meraviglioso in meraviglia, ossia la causa in effetto. Riconducibile allo stesso aspetto è la concezione barocca della Magia. Non vista come abbandono all’irrazionale, o ai misteri della natura (non c’è spazio per questo nella weltanschaung barocca), ma come tecnica, arte, abilità, per piegare la realtà ai desideri dell’uomo. Una via alternativa alla scienza che nulla ha di misterioso o sovrannaturale, ma che, di nuovo parte e si risolve nell’uomo e che altro non è se non un aspetto ulteriore della complessità del mondo (si pensi all’Amleto di Shakespeare: “vi sono più cose in terra e in cielo di quante ne possa sognare la tua filosofia”). La magia è vista più come alchimia che come cupo rifugio di forze inconoscibili: tutto si può comprendere per l’uomo barocco, a patto di possedere la tecnica giusta. La magia, così intesa, irrompe nell’arte: nella pittura, nella letteratura e soprattutto, per quel che interessa a noi, nella musica. Ovviamente si parla di Haendel: egli dedicherà ad essa ben 5 titoli del suo catalogo (5 opere in cui la magia è protagonista nello scioglimento dell’intreccio, nella caratterizzazione di taluni personaggi, e nel linguaggio espressivo musicale). E precisamente: Rinaldo (1711, rivisto nel 1731), Teseo (1713), Amadigi (1715), Orlando (1733) e Alcina (1735). Ora di argomento cavalleresco (tratte dal Tasso, dall’Ariosto nonché dall’epica francofona) ora tratte da fonti classiche (Euripide, anche se per tramite della tragédie del teatro francese), presentano sì notevoli diferenze tra loro (dovute ovviamente alla maturazione dello stile compositivo dell’autore nel corso di 20 anni abbondanti, e, ancora più ovviamente, alle diverse peculiarità degli interpreti creatori dei ruoli), ma anche tratti comuni proprio nella traduzione in musica degli elementi magici. Essi si possono riassumere in un’accentuata irregolarità e apparente squilibrio nelle forme, nella ricchezza di inserti strumentali, nell’uso alternato dell’arioso e del recitativo accompagnato (a simboleggiare una certa imprevedibilità dell’elemento, rispetto alla maggior quadratura con cui vengono tradotti i caratteri più terreni), nella sovrabbondanza della coloratura, nell’asimmetricità della stessa e dall’esasperazione del virtuosismo (oltre ad una maggiore presenza – nell’economia generale dell’opera – di “arie di furore”). Nel Rinaldo il personaggio magico è rappresentato da Armida (originariamente scritto per il soprano Elisabetta Pilotti-Schiavonetti e poi, nella revisione del 1731, dal contralto Antonia Maria Merighi). A lei sono dedicate 4 arie di carattere prevalentemente agitato (e quindi espresse in virtuosismi e acrobazie). La stessa prima interprete di Armida creerà anche i ruoli magici di Medea nel Teseo (dalla scrittura più tradizionale) e di Melissa nell’Amadigi (a cui Haendel riservò un trattamento musicale di particolare complessità ritmica e virtuosistica, sia nelle arie – prevalentemente di furore con sfoggio di acrobazie e difficilissime agilità – sia nell’atipico recitativo accompagnato e arioso nella scena della morte, poco prima del finale dell’opera, caratterizzato da ambiguità e irregolarità). I tre ruoli, dunque, scritti per la medesima cantante, presentano comuni aspetti per ciò che riguarda la tessitura e le difficoltà tecniche. Tralasciando Orlando (che presenta un basso nel ruolo magico e che, dunque, esula in parte dal discorso, atteso che la sua vocalità è differente e non accomunabile alle altre maghe) resta Alcina, la cui protagonista veste i panni dell’incantatrice. Ruolo creato per Anna Maria Strada del Po’, consta di 6 arie (a cui si può aggiungere – in ossequio ad una tradizione consolidata – una settima aria Tornami a vagheggiar, originariamente affidata a Morgana), di carattere più elegiaco rispetto a quelle affidate alle altre maghe, ma in cui si ritrovano ugualmente lo stesso virtuosismo e la stessa apparente irregolarità formale.
Il necessariamente breve, e sicuramente incompleto, excursus permette dunque di tracciare un identikit vocale della Maga di Haendel: ampie tessiture, possesso di tecnica perfetta onde poter al meglio rendere lo spericolato virtuosismo con cui il Caro Sassone condisce le parti, capacità di rendere gli aspetti ambigui dei personaggi (furore e amore, aggressività e rassegnazione, eroismo e crudeltà) ed infine grande fantasia (che ha da esprimersi nelle variazioni e nelle cadenze che prescrivono da capo e corone). Il 10 marzo Alcina torna alla Scala, nel non più nuovo allestimento di Robert Carsen (approntato una decina d’anni fa per l’Opéra di Parigi) e che – al solito – riduce la vicenda “magica” a dramma borghese con artificiose innervature di inquietudini strindberghiane (un cliché che il regista, molto à la page negli ambienti che contano ormai, perpetua in qualsiasi titolo egli si trovi ad affrontare: suggestivo, forse, e interessante quando si tratta di novità, ma che all’ennesima replica di sé stesso appare come stanco manierismo). Nel ruolo della protagonista si alterneranno Anja Harteros e Inga Kalna. Se esse sapranno incarnare i caratteri della maga hendeliana, così come sono stati individuati, lo si vedrà a breve, alla prova dei fatti: nel frattempo preferisco ascoltare le magie di Joan Sutherland.
Gli ascolti
Georg Friedrich Handel
Rinaldo
Atto II
Vo’ far guerra – Carol Vaness (1984)
Alcina
Atto I
Dì, cor mio – Christine Deutekom (1974)
Atto II
Ah! Ruggero crudel…Ombre pallide – Joan Sutherland (1959)
Peculiare ed interessante articolo! Ci sono delle fonti da cui attingere per approfondire questo argomento? Sto facendo una ricerca per una mia tesi universitaria e queste informazioni mi hanno molto incuriosito.