Mese di agosto XI – Opera tragica, terza puntata: Medea in Corinto

Giovanni Simone Mayr, conosciuto tutt’al più per essere stato il maestro di Donizetti (che nel 1806 ebbe i suoi primi rudimenti musicali proprio grazie alle Lezioni Caritatevoli che il compositore tedesco aveva istituito a Bergamo), fu in realtà autore molto fecondo e, per un certo periodo, conobbe fama, successi e onori. Nato in Baviera nel 1763, ricevette la propria istruzione musicale dal padre, perfezionandosi in breve tempo nello studio della viola di cui divenne riconosciuto virtuoso. Si trasferì presto in Italia (prima a Venezia e poi a Bergamo), dove si svolse la sua parabola artistica. Le sue spoglie riposano nella cattedrale della sua città d’adozione, accanto a quelle dell’allievo prediletto. Uomo di cultura (studiò diritto canonico e teologia all’università di Ingolstadt) e con la passione per la didattica, scrisse quasi 70 opere nell’arco di un trentennio – fino al 1824, quando i disturbi alla vista (che lo portarono alla quasi totale cecità) lo costrinsero a ritirarsi dal teatro – a cui vanno aggiunte almeno 60 sinfonie, 12 oratori (la maggior parte risalente al periodo veneziano) e poi cantate, messe, mottetti, inni, sonate, concerti, balletti, musica da camera, lieder e canzoni.

Scrisse anche un gran numero di testi teorici (ad uso dei suoi allievi). Oggi la quasi totalità del suo vasta catalogo è dimenticata, eppure i suoi lavori furono premiati da generosi successi in Italia e in Europa, e da continue riprese, almeno sino alla metà del secolo. Mayr è figlio della grande cultura musicale europea, che bene aveva appreso la lezione di Haydn, Mozart e Beethoven: fu tra i primi a diffondere in Italia la conoscenza e lo studio dei grandi maestri austriaci e tedeschi (diresse, tra l’altro, la prima esecuzione italiana della Creazione, proprio a Bergamo nel 1809). E già come Cimarosa (i cui Orazi e Curiazi hanno aperto questo nostro breve excursus nell’opera italiana tra Rossini e Donizetti) appare come una specie di estraneo nel panorama musicale della penisola, ancora impantanato nelle formule ormai svuotate dell’Opera Seria. Ogni volta che viene riscoperto un titolo del suo catalogo, infatti, si resta sorpresi per l’abilità della scrittura musicale, che unisce all’eccellenza tecnica (nella costruzione sinfonica dell’ordito orchestrale, con ampie e spettacolari concessioni ad inserti concertanti), la padronanza delle forme e la robustezza dell’ispirazione. Mayr riesce a fondere mirabilmente le conquiste della cosiddetta riforma gluckiana (nei suoi più elaborati sviluppi “francesi”: in particolare Cherubini) da cui gli deriva l’afflato tragico e la tensione drammatica, con le più complesse costruzioni musicali di Haydn e Mozart, lasciando intravedere – pur solo sullo sfondo – l’imminente esplosione romantica (che segnerà in modo più compiuto la generazione successiva: quella del melodramma donizettiano e belliniano) di cui anticipa linguaggi e suggestioni.
Scrisse quasi 70 opere – si diceva – e tra i tanti titoli, particolare attenzione merita quello che è riconosciuto essere il suo capolavoro: Medea in Corinto. Scritta “alla maniera francese”, per soddisfare i gusti della corte di Giacchino Murat, per la celebrata ugola di Isabella Colbran (la futura Signora Rossini), fu rappresentata per la prima volta il 28 novembre 1813, al San Carlo di Napoli. Fu un trionfo. Accanto alla Medea della Colbran, Andrea Nozzari e Manuel Garcia si spartivano i difficilissimi panni tenorili di Giasone ed Egeo, Michele Benedetti (creatore di numerosi ruoli rossiniani: Elmiro, Idraote, Mosé, Ircano, Fenicio, Douglas, Leucippo) interpretò Creonte, Teresa Luigia Pontiggia fu Creusa e nel ruolo minore di Tideo si esibì Domenico Donzelli (una curiosità: tra le comparse – quale figlia di Medea – apparve per la prima volta sul palcoscenico di un teatro la figlia di Garcia, che, nel giro di qualche anno, sarà universalmente conosciuta come Maria Malibran). Fin da subito la stampa, i critici e il pubblico si resero conto di essere di fronte ad uno dei lavori più importanti dell’epoca. L’opera, subito ripresa l’anno successivo, iniziò presto a girare i maggiori teatri italiani ed europei: nel 1821 a Dresda, nel 1823 a Milano e a Parigi dove si “appropriò” del ruolo di Medea, Giuditta Pasta, che poi portò l’opera a Londra (nel 1826, 1827, 1828, 1831, 1833 e 1837), a Napoli e ancora a Parigi (1826) e a Milano (1829). Fino al 1850 a Londra – interpretata da Teresa Parodi (allieva della Pasta) – nella sua ultima apparizione nel secolo XIX. I maggiori cantanti dell’epoca interpretarono l’opera nelle sue tante riprese: Elisabetta Ferron, Fanny Ayton, Carolina Hunger, Domenico Donzelli, Giambattista Rubini, Gilbert Duprez, Vincenzo Galli, Luigi Lablache…

Lo stesso Mayr apportò alcune modifiche per la ripresa del ’23 per meglio adattare il testo alle esigenze dei nuovi interpreti: in particolare accanto a modifiche minori e ad un duetto ripreso da un lavoro precedente, dotò Giasone di una nuova e spettacolare cavatina (di dubbia paternità però, giacché identica – o quasi – ad un brano della coeva Zoraida di Granata: per cui non si riesce a stabilire se questo fosse di mano donizettiana o se quello che compare nell’opera di Donizetti fosse stato in realtà scritto da Mayr) e aggiunse un’impervia cabaletta per Egeo.
Vista da vicino l’opera rappresenta il meglio dello stile di Mayr. La complessità sinfonica è evidente sin dall’overture e dalla ricca ed elaborata introduzione; i numeri si fondono l’uno con l’altro senza cesure e interruzioni, grazie all’uso sapiente dei recitativi accompagnati e dei cantabili che collegano i brani solistici e i pezzi d’insieme. L’uso del coro rivela la familiarità dell’autore con il genere oratoriale, mentre le ricche introduzioni alle arie, sono veri e propri dialoghi tra voce e strumento obbligato. La scrittura vocale è sì fiorita e virtuosistica, ma mai in modo meccanico o fine a sé stesso (l’uso della coloratura richiama quello del Mozart delle grandi arie da concerto) e le pur spettacolari difficoltà appaiono finalizzate all’espressione di drammaticità e tragedia, più che al mero esibizionismo vocale. Di grande spessore drammatico le arie della protagonista, in particolare la scena delle ombre nell’atto II, ma in generale tutti i suoi brani solistici mostrano una superba concezione musicale, incentrata sulla severità e la tragicità dell’accento: dall’aria di sortita con il violino obbligato a quella finale (di cui sono state tramandate due versioni con differenti gradi di coloratura e diversi strumenti solisti: corno inlgese e violino). Più smaccatamente virtuosistici i brani per i due tenori e e per Creusa (in particolare l’episodio che apre l’atto II con la suggestiva arpa obligata e l’elaboratissima scrittura fiorita). Ciò che colpisce, dopo l’ascolto, è la cura del minimo dettaglio e la coerenza compositiva, l’ampio respiro dell’invenzione musicale: il tutto denota una consapevolezza superiore, decisamente superiore, alla stragrande maggioranza della musica coeva, tanto che per raggiungere la stessa eccellenza bisognerà attendere il miglior Rossini napoletano. Opera dunque che presenta molteplici punti di interesse, ma che sconta delle difficoltà oggi quasi insormontabili per una sua compiuta riscoperta: richiede una protagonista che possa padroneggiare il canto declamato e tragico (di ascendenza cherubiniana), due tenori capaci di affrontare ruoli monstre per difficoltà ed esigenze, una seconda donna dalla coloratura sicurissima, un’orchestra che sappia suonare davvero (abituata a Mozart e Haydn, non come certi complessi più o meno festivalieri che paiono ensemble semi dilettantesche e si limitano ad eseguire – spesso maluccio – le mere note) e un direttore d’orchestra capace di non ingarbugliarsi negli intrecci dell’orchestrazione (non un mero accompagnatore di primedonne…destinato, nel caso di Mayr, a soccombere). In gran parte insoddisfacenti i più recenti tentativi di riesumazione (con la sola eccezione della bella incisione Opera Rara): sia i più risalenti nel tempo (1969 e 1977) che paiono costruite solo sulla protagonista (rispettivamente la Galvany e la Gencer) ma che attorno ad essa sfoggiano il nulla (con punte di imbarazzo per i tenori e la direzione d’orchestra), oltre ad essere funestate da tagli sconsiderati; sia l’ultima uscita cronologicamente, registrata dal vivo nel 2009 in Svizzera e basata sulla nuova edizione critica dell’opera (di cui viene scelta la versione del manoscritto del ’21, assai più comoda per gli interpreti, e che contempla numerosi raggiusti e tagli d’autore, per adattarla alle più modeste capacità della compagnia milanese). Una nuova produzione di Medea verrà presentata a Monaco, nell’ottobre di quest’anno, con la direzione di Ivor Bolton (onesto kappelmeister del Mozarteum di Salisburgo di ascendenza baroccara, non molto dotato di fantasia, ma in grado, si spera, di non ridurre l’accompagnamento ad una bandaccia), la rediviva Iano Tamar nel title-role, Ramon Vargas nei difficili panni di Giasone (confermandosi ancora tenore in cerca d’autore), nonchè l’immancabile regia alla tedesca: in questo caso il pernicioso Neuenfels.

Gli ascolti

Giovanni Simone Mayr

Medea in Corinto

Melodramma tragico in due atti

Libretto di Felice Romani

Prima rappresentazione: 28 Novembre 1813, Teatro San Carlo di Napoli

Atto I

Come! sen riede…Sommi DeiMarisa Galvany (1970), Leyla Gencer (1977)

Cedi al destin MedeaAllen Cathcart & Marisa Galvany (1970), William Johns & Leyla Gencer(1977)

Dolce figliuol d’Urania…Scendi Imene…Vanne a terraMarisa Galvany, Allen Cathcart, Joan Patenaude, Robert White & Thomas Palmer (1970), Leyla Gencer, William Johns, Cecilia Fusco, Ginfranco Pastine & Gianfranco Casarini (1977)

Atto II

Dove mi guidi?…Ogni piacer è spento…Antica notteMarisa Galvany (1970), Leyla Gencer(1977)

Ma qual fioco rumor…Se il sangue, la vitaMarisa Galvany & Robert White (1970), Leyla Gencer & Gianfranco Pastine (1977)

Ismene, o cara Ismene…Miseri pargoletti…Era tua sposaMarisa Galvany (1970), Leyla Gencer (1977)

14 pensieri su “Mese di agosto XI – Opera tragica, terza puntata: Medea in Corinto

  1. Finalmente!!! Opera da me adorata!!! Tra parentesi non sapevo che anche la Galvany l'avesse fatta!!! Un capolavoro davvero… Ma per interpretarla bisogna davvero trovare tenori stratosferici… Ma Merritt non si è mai avvicinato? Mah!… Un sogno rimane un'esecuzione con Bumbry, Cuberli, Merritt, Blake, Morino (o Matteuzzi), Ramey… Che ne pensate??? :)

  2. Oddio la Galvany che orrore! non solo svacca terribilmente nel registro grave, molto sollecitato in queste arie, ma è l'unica cantante da me ascoltata che riesce ad essere, in prima ottava, tubata e terribilmente nasale al contempo : un vero record di mal canto. Taccio degli acuti!!!

  3. Caro Semolino, la Galvany non è affatto un orrore, anche se, un po' come la Scotto, era di quelle cantanti che amano prodursi in parti più grandi di loro e magari in conflitto costante e permanente con la loro natura vocale. I sovracuti sono delle "lecche" spaventose e danno l'idea di essere suoni enormi, ai quali non siamo, ahimè, più avvezzi da tempo. Se poi consideriamo che oggi i ruoli della Galvany li cantano le Theodossiou, le Jaho, le Marrocu e compagnia (mal) cantante… viva la Marisa!

  4. Alcuni acuti sono riusciti! per caso? ma molti sono vere grida, lecche certo ma il suono è grido e non nota di musica.
    e poi il registro grave dissestatissimo basta a squalificarla. Almeno per le mie esigenze personali, e per le mie orecchie che certi suoni non li sopportano. Se poi a voi piace…..godetevela!!!
    Il fatto poi che la si possa per certi versi paragonarla alla Scotto la dice lunga!

  5. il cast dei sogni è sempre stato uo dei giochi preferiti dai melomani
    sognare per medea lilli lehmann, rosa ponselle, giannina arangi lombardi, magari ebe stignani sino alla callas (ovvio) la sutherland post 1978, la horne piuttosto che la dupuy o la bumbry o la verrett mi sembra scontato.
    il problema è che dobbiamo anche pensare alle altre parti. L etenorili in primis e se i sogni di un secolo fa possono chiamarsi jadlowker, piuttosto che slezak poi l'attesa e le carenze sono durate sino ai blake e merritt.
    quindi l'anno per una ripresa di medea in corinto coi sacri crismi può essere il 1984 e penserei Bumbry/Dupuy per il title role, Merritt per Giasone e Blake per Egeo la solita Cuberli per Creusa (ma è lusso) e la bacchetta di Bonynge perchè Schippers era morto.

  6. Concordo con Donzelli:
    1984/1985
    Bumbry (o Dupuy, ma anche una giovane Millo poteva andare)
    Cuberli (o Rolandi o anche una Serra)
    Merritt (o Morino)
    Blake (o Matteuzzi)
    Bonynge

    Peccato!!! :(

    Cast impossibile (per ovvii motivi cronologici)
    Arangi Lombardi
    Jadlowker
    Merritt
    Sutherland
    Schippers

  7. Vorrei sapere perchè è stato usato l'aggettivo redivive riguardo la Signora Tamar. Non facciamo il solito errore di pensare che per fare carriera sia importante presenziare solo i teatri italiani…grave errore!
    E' stata straordinaria ed è una voce di una bellezza e musicalità , soprattutto oggi, davvero rara. Spezzo una lancia anche in favore di Vargas che ha cantato con buon stile una parte percui è difficile trovare interpreti specializzati.

  8. Beh, Vivitelli…non mi risulta che la Tamar sia contesa dai maggiori teatri mondiali. Non fare processi alle intenzioni, ma se permetti, non farci credere che eseguire un'opera semisconosciuta a Monaco di Baviera, sia chissà quale consacrazione internazionale: se ha cantato bene me ne compiaccio e mi auguro di sentirla presto. Quanto a Vargas non comprendo le tue osservazioni. Ho solo evidenziato come non riesca a trovare un repertorio di elezione, girovagando da Donizetti a Verdi (purtroppo) e Puccini e Mozart etc… Se ha ben cantato me ne compiaccio, mi auguro che il successo contribuisca a distoglierlo dall'intento di trasformarsi in tenore verdiano ingrossando voce e timbro e compromettendo un ottimo materiale e un'ottima tecnica (meglio evidenziati, però, in altro repertorio).

Lascia un commento