Julia Lezhneva: Rossini Arias. Recensione in sette punti

Punto primo: la cantante. Tre anni fa il Rossini Opera Festival apriva con un concerto di canto di Juan Diego Flórez, intitolato “Il presagio romantico” e dedicato a pagine tratte da La donna del lago e Guillaume Tell. Partner femminile della stella peruviana fu Julia Lezhneva, sconosciuta giovinetta balzata si può dire dal nulla a uno dei più prestigiosi (almeno sulla carta) palcoscenici internazionali, e anzi il massimo (sempre sulla carta) per quanto concerne il cigno di Pesaro. Le accoglienze furono piuttosto tiepide e tali da indurre alla direzione del Festival, da una parte, a reclutare la signorina per l’edizione di quell’anno dell’Accademia rossiniana diretta da Alberto Zedda (come se un corso di perfezionamento “ex post” potesse riscattare quella diciamo stentata serata inaugurale), dall’altro, ad astenersi dal riproporla nelle edizioni successive, come di consueto avviene per i “pulcini” del corso di perfezionamento. Nel frattempo però la Lezhneva era entrata nel giro, come usa dirsi, dedicandosi al repertorio barocco (sarà prossimamente Sesto in un Giulio Cesare diretto da Alan Curtis) e arrivando a collaborare con Marc Minkowski, che l’ha voluta quale paggio negli “Ugonotti” recentemente allestiti a Bruxelles e l’accompagna in questo suo primo recital discografico. Dedicato, manco a dirlo, a Rossini.

Punto secondo: il programma. Come si sa, al giorno d’oggi, il disco non ha ragione d’essere senza il divo e il divo non può esistere senza il disco. Forte di una frequentazione esclusivamente concertistica (ma aspetto di essere smentito dai biografi della signorina) dei rondò di Cenerentola, Elena d’Angus e Zelmira, Julia Lezhneva affronta un programma che unisce, appunto, “Nacqui all’affanno e al pianto”, “Tanti affetti”, la canzone del salice, la cavatina di Semiramide, la preghiera di Pamira e l’aria di Mathilde dal secondo atto del Guillaume Tell. Una scaletta all’insegna dell’eclettismo, che ai tempi di Rossini avrebbero affrontato, con le dovute cautele, una Cinti Damoreau e ancora di più un’Alboni, cantante cui la Lezhneva può in certo modo apparentarsi, o così almeno dovrebbero coerentemente sostenere coloro che l’hanno voluta e magari applaudita quale Urbano. In tempi a noi più vicini una Onégin o una Matzenauer, ovvero una Callas prima maniera, avrebbero senza fatica retto un programma che impone alla voce di passare dal registro di mezzosoprano a quello di soprano centrale, e soprattutto alla cantante di passare dal genere di mezzo carattere a quello tragico, senza perdere smalto, fluidità di vocalizzazione, credibilità e proprietà di accento e di fraseggio. Purtroppo l’ascolto del disco suggerisce ben altri modelli canori, e soprattutto ben diversi termini di comparazione vocale.

Punto terzo: la voce. La prima ottava suona larvale, al punto che i microfoni stentano a captarla, anche perché, nel tentativo di esibire una voce morbida e levigata, la Lezhneva non ricorre a un appoggio costante e sistematico, e quando tenta di coprire il suono (ad esempio nel recitativo di Pamira e nell’aria di Mathilde), riesce solo a produrre suoni tubati, che non hanno neppure la consistenza necessaria a farli definire gutturali. Solo dal do centrale in su la voce acquista un poco di volume, pur senza possedere particolare bellezza timbrica, mentre a partire dal mi/fa (note immediatamente successive al secondo passaggio di registro) compaiono suoni stridenti e asprigni, spia di un’organizzazione vocale, a essere buoni, da principiante. Sentire ad esempio la scala ascendente su “ogni mio duol sparì” nella cavatina di Semiramide o le scale cromatiche del rondò di Elena, eccellente realizzazione, applicata al registro sopranile, del famoso “scalino” vocale teorizzato (e giammai praticato) da Ebe Stignani. Tacciamo poi degli acuti (e parliamo dei la bemolle del Tell come dei si bemolle della Donna e dei si naturali della Cenerentola), ghermiti, quando non gridacchiati, con udibile sforzo. Una vocalità di soprano leggero, insomma, cui l’imperizia tecnica preclude il repertorio che le sarebbe proprio (Philine, Oscar del Ballo, o se proprio vogliamo rimanere a Rossini, le farse veneziane e Jemmy del Tell) a favore di ruoli di cabotaggio centrale, malgrado la cantante non possieda la pienezza timbrica e tanto meno l’accento, sontuoso ed aulico, richiesto da personaggi come questi, trattati dall’autore nel segno dell’astrazione pura.

Punto quarto: il virtuosismo. Di ortodossa matrice baroccara. Sentire le agilità ora accennate, ora sgallinacciate, specie quando cadano nella zona medio-grave della voce (quartine vocalizzate nella seconda parte del rondò di Elena), ora sgranate al rallentatore, con ulteriore impoverimento della linea musicale (preghiera di Pamira), i trilli meccanici e molli (inseriti spesso a sproposito, come nella canzone del salice, in ossequio al principio per cui le note tenute vanno “abbellite” indipendentemente dal carattere della melodia e dalla circostanza drammatica), i sospiri aggiunti e le note in chiusura di frase pigolate (rondò di Elena – “tanTA felicità”), nel discutibile tentativo di “colorare” le frasi alla maniera dei cosiddetti specialisti di musica antica. E tralasciamo le variazioni, scolastiche per numero, qualità e soprattutto esecuzione.

Punto quinto: l’interprete. Tutte le pagine del disco, che siano improntate a gioia o disperazione, vengono proposte con il medesimo accento querulo e piagnucolante, con le stesse inflessioni di infantile dolore, che non mancheranno di suscitare l’entusiasmo dei cultori di certi fenomeni discografici, persuasi che Rossini e l’opera in generale non siano che il pretesto per l’esibizione della presunta “personalità” dei divi, che si contrapporrebbe alla “mera esecuzione” offerta da quei cantanti che, non essendo divi, non possono e non debbono esprimere altro che mancanza di fantasia e originalità speculativa. Alla poetica degli accenti nascosti si sostituirebbe insomma quella degli accenti inudibili. Inudibili ovviamente per orecchie poco o nulla esercitate. Come le nostre, insomma.

Punto sesto: l’accompagnamento. Marc Minkowski, già specialista di musica barocca e ora più in generale faro della musica francese, rende un ben povero servizio a Rossini, raddoppiando in orchestra la mollezza, l’assenza di inflessioni, la secchezza di suono offerte dalla solista. Forse parte del “merito” spetta alla modestia delle forze coinvolte (Sinfonia Varsovia e Warsaw Chamber Opera Choir, a dir poco dilettantesco specie nella Donna del lago), ma la Sinfonia della Cenerentola, unica pagina puramente sinfonica del disco, suona piatta e meccanica, animata solo nei crescendo, che risultano tuttavia più caotici e rumorosi che travolgenti e brillanti.

Punto settimo: il fantasma. In questo disco, come in recenti cimenti teatrali, aleggia, o per meglio dire incombe, il fantasma di una cantante, mitica e poderosa in ogni senso, che periodicamente agenzie di canto, case discografiche, teatri e primedonne si piccano di richiamare in vita, in tutto o in parte. A questa cantante il Corriere dedicherà prossimamente una serie di riflessioni. Non già, come maligneranno alcuni, per manifesta incapacità di cogliere nell’ubertoso panorama odierno la presenza di numerose eredi potenziali (benedette o meno dal disco), ma per chiarire in primo luogo a noi stessi in che cosa consista la parabola storica e musicale di quell’incognita chiamata Isabella Colbran.

Gli ascolti

Rossini

La Cenerentola

Atto II

Della Fortuna instabile…Nacqui all’affanno e al piantoFrederica von Stade (1974)

La Donna del lago

Atto I

O mattutini albori Angeles Gulín (1974), Frederica von Stade (1981), Lucia Aliberti (1990), Julia Lezhneva (2008)

Atto II

Fra il padre e fra l’amanteFrederica von Stade (1981)

28 pensieri su “Julia Lezhneva: Rossini Arias. Recensione in sette punti

  1. Una sola domanda. Ma dove li vanno a pescare sti catorci?
    Perchè la cosa più virtuosistica di questo disco è il fatto che la voce di una ventunenne suona come quella di una cinquantenne, al netto delle deficienze tecniche da te giustamente evidenziate e che per qualcuno sono addirittura punti di forza della vocalità di codesto esemplare…

  2. Una sola domanda. Ma dove li vanno a pescare sti catorci?
    Perchè la cosa più virtuosistica di questo disco è il fatto che la voce di una ventunenne suona come quella di una cinquantenne, al netto delle deficienze tecniche da te giustamente evidenziate e che per qualcuno sono addirittura punti di forza della vocalità di codesto esemplare…

  3. A pensarlo bene, l'unico fantasma di cui sento la presenza nel canto della Lezhneva, notami finora soltanto da ascolti su Youtube, è la Bartoli.
    Comunque ciò vale soltanto per il canto fiorito.
    Quando invece s'accinge a cantare spianato ("Il sogno", quello dell'op. 38), oppure "La fanciulla di neve", la voce diviene subito un'altra – e la dizione tende a sparire.

  4. Concordo con Angelodifuoco, anche a me sembra di sentire una nuova Bartoli (ce n'era proprio bisogno), infatti dopo averla sentita mi è subito venuto in mente il bartoliano Turco in Italia. Certo comunque che il paragone con la grande Von Stade è davvero umiliante…i difetti segnalati da Tamburini sono facilmente percepibili, un registro grave molto debole che ella tenta inutilmente di ingrossare, risultando sgraziata e rendendo incomprensibile il testo. La ragazza ha molto, molto da studiare, poiché di questo passo la sua carriera terminerà presto, come ormai spesso capita agli acerbi cantanti che lo star system catapulta nel mondo incognito del canto professionale

    • Ma da quando la Bartoli sarebbe diventata un modello di agilità, freschezza e comunicativa?!
      Sia lei sia la Lezhneva sono solo misere vociuzze che possono esistere solo grazie ai dischi e ai microfoni… Vocine “false” che artisticamente valgono meno di zero.

        • Ma… Nicola… scherzi?

          Parliamo della Bartoli eh! Una che con Rossini, e con il belcanto, non ha niente a che vedere! Una vociuzza “finta” che non merita ulteriori commenti. Tra lei e la Lezhneva non vedo proprio nessuna differenza. Anzi sì, la Lezhneva è un po’ più composta, fa meno boccacce.

          • Ripeto, come ho detto altre volte, di non avere alcun diritto di giudicare i cantanti perché non sono in possesso di nessun titolo che mi autorizzi a farlo. Ho e avrò sempre tutta l’onestà e l’umiltà per farlo. Posso basarmi però, empiricamente, sulla mia esperienza (per quanto limitata) e sui miei gusti, e, qualora questi facciano difetto, faccio appello al giudizio di chi invece il diritto di giudicare lo ha (non ci siete solo voi). Quanto alla Bartoli, tra i suoi estimatori ci sono Philip Gosset, uno dei più autorevoli filologi musicali viventi, e Elvio Giudici, che proprio un incompetente in fatto d’opera non mi sembrerebbe… Ma ora mi verrete a dire che anche questi due sono o inadeguati, o prezzolati, o entrambe le cose, o che so io…

  5. @Nicola
    Elvio Giudici ha il “diritto di giudicare un cantante”, ed io no? Quali sarebbero i “titoli” che “autorizzano” costui ad esercitare il “diritto di critica”, e che invece a me, sicuramente non fornitone, impedirebbero di esercitare tale “diritto”? Spiegami.

    • Sarò sincero: ignoro quale sia il percorso professionale di Giudici, come ignoro quale sia il tuo, Mancini. Stando così le cose, e sapendo essere Giudici un autorevole critico, preferisco, almeno a naso, fidarmi di lui, piuttosto che di te. Magari anche tu sei un importante critico musicale o hai competenze in questo campo, e mi scuso con sincerità se ti ho offeso in qualche modo. Nel caso tu fossi solo un appassionato di altissimo livello, e non un critico di professione, però, bisogna fare attenzione: nel campo della musica, come anche in quello della letteratura e della filologia, che meglio conosco, è sempre pericoloso quando si inizia a pensare che semplici appassionati o cultori della materia siano allo stesso livello degli addetti ai lavori e dei professionisti, perché in questo modo si sminuisce la disciplina stessa oggetto di discussione. Con questo non voglio dire che esistano detentori della verità assoluta, ma credo che debbano esserci personaggi di estrema competenza in grado di indirizzare ed istruire gli altri in un determinato campo. Non solo perché “discorsive” o apparentemente “più accessibili” rispetto alla fisica nuclerare, al diritto o alle biotecnologie le discipline umanistiche sono un campo sul quale chiunque possa dire indiscriminatamente la sua: possono essere affrontate in maniera altrettanto scientifica.
      Ti prego di non voler leggere queste ultima frasi come qualcosa di offensivo o di polemico nei confronti tuoi o dei redattori del corriere della Grisi, si tratta solo di una mia riflessione e in quanto tale ha il peso -poco- che le spetta.

      • Io non sono un critico professionista, sono un hobbista. La mia competenza, buona o scarsa, lascio che si evinca da ciò che scrivo.

        Ti pregherei però di approfondire che cos’è che farebbe di Elvio Giudici un “critico autorevole” ed un “addetto ai lavori”. Grazie.

        • caro Nicola la libertà di dire quello che pensi nessun titolo te la può dare. casomai c’è gente che può cercare di togliertela, come puntualmente avviene ogni giorno e non solo nel mondo dell’opera. se c’è una cosa che abbiamo la presunzione di cercare di insegnare, è per l’appunto imparare ad ascoltare con le proprie orecchie in piena e onesta autonomia. è un esercizio di autocritica che fa bene a tutti, noi per primi. chissà se lo praticano anche certi critici titolati. da quel che spesso scrivono (e penso a quelli che discettano di cristalleria di Boemia per parlare di voci, che evocano piuttosto tuguri da rigattiere), proprio non si direbbe.
          ..

        • Come ho già detto, non conosco il cursus honorum di Giudici, non so quali siano i requisiti in suo possesso che lo autorizzano a fregiarsi del titolo di critico.
          Ritengo che sia autorevole e un addetto ai lavori per il semplice fatto (sono ingenuo?) che abbia scritto con cognizione di causa un volume così ponderoso sull’opera lirica e che giudicare l’opera lirica sia il suo mestiere, non il suo hobby. In altre parole, il fatto che consacri la maggior parte del suo tempo e delle sue energie intellettuali all’opera (alla quale io, per esempio, destino i ritagli di tempo e i residui di energie) mi induce a considerarlo uno del mestiere… Comunque non vorrei entrare in polemica…

          • Ti suggerirei allora di leggerlo, quel ponderoso volume, e di verificare la cognizione di causa con cui scrive, magari ascoltando i dischi che recensisce e comparando quello che leggi e quello che senti. Senza polemica, ci mancherebbe.

          • Devo confessare che col passare degli anni mi capita sempre più spesso di essere in disaccordo con le analisi contenute nel ponderoso volume, che già possiedo e consulto spesso. Immagino che Giudici sia umano come noi (come me?) e possa sbagliare e/o avere i suoi gusti personalissimi, ma in linea di massima il libro mi sembra animato da competenza e onestà intellettuale (escludendo alcuni cantanti che E.G. sembra criticare a prescindere, un po’ per partito preso…)

  6. Lasciamo stare Giudici e Gossett (personalità, peraltro, diversissime). Devo dire, però, che dal punto di vista del mero prodotto discografico (di quello si parla, non di teatro vero), la Bartoli del ’92 – l’epoca della sua Cenerentola DECCA – era cantante di ben altro livello rispetto a questa Lezhneva. Su questo concordo con Nicola. Più corretta, moderata e (importantissimo) piacevole da ascoltare. Certo poi è arrivato il suo “ba-rock” (non saprei come altro definire quella specie di crossover a cavallo tra DJ set e Opera Seria), con il conseguente corredo di smorfie, sospiri, lacrime e sussurri. Eccessi. Frutto di scelte ben precise: forse avrebbe fatto meglio a farne di diverse. Ma qui non c’entra nulla la Bartoli (neppure come repertorio): qui sento solo un disco immaturo di una voce immatura…

    • Ecco, si parla di prodotti discografici, NON di vero teatro, e neanche di “vere” voci.

      Sulla Bartoli poi io sono molto meno indulgente, anche su quella dei primi anni. Corretta, vocalmente, non lo è mai stata davvero. Moderata ancor meno: l’interprete è sempre stata vezzosa e petulante, sospirini e sussurri erano i suoi mezzi espressivi anche nella Cenerentola della decca. Piacevole poi, alle mie orecchie, non lo è stata mai: strilletti in alto, suoni gonfi e tubati in basso, coloratura meccanica, spoggiata e farfugliata, ed un gusto perennemente affettato. Io la trovo assolutamente insopportabile, sempre, e soprattutto in Rossini.

      Con la Lezhneva ha in comune il fatto di essere un sopranino leggero con la voce non educata ad un canto artistico, e pertanto impiegata in parti comode da mezzosoprano o da soprano centrale. Sono entrambe due vocine spettrali perché completamente prive di appoggio: la Bartoli in questo ha fatto scuola.
      La Bartoli dei primi anni aveva però una personalità ben maggiore della Lezhneva, questo sicuramente.

    • Sei riuscito esattamente a esprimere il mio pensiero. Grazie! Mi sembra molto bello -benché di qualche anno posteriore- pure il “Non più mesta” cantato dalla Bartoli nel 1997 al Met: il suo modo -mi riferisco anche all’espressione del volto- di pronunciare il penultimo “ah! Fu un gioco” è così sensibile ed intelligente da racchiudere quasi tutto il percorso umano di Cenerentola in una sola frase.

  7. se posso dire la mia e premettendo che questo non è un tread sulla bartoli, che potrebbe avere una data fissa e certa, celebrata da delio tessa.
    Ho ascoltato la bartoli all’inizio del lancio quando fu in scala un isolier di cui nessuno si accorse perchè non si sentiva ed il cui unico acuto al duetto con il conte fu uno strilletto tipo “mi hanno pizzicato il …”.
    sfarfalleggiava anche nei primi dischi quando era un nominale mezzosoprano. poi è diventata quello che i discografici si erano imposti farla diventare e qui cominciano i veri guai perchè chi non sa cantare trova molto comodo bartoleggiare impossibile imitare solide professioniste come la berganza o la horne (di cui come nel caso callas si imitano solo i vezzi, vedi blythe). Ecco perchè siamo molto critici e poco indulgenti nei confronti di prodotti come quest’ultimo che infiocchettato, impacchettato e già scontato viene proposto, rectius imposto.
    Ecco perchè siamo critici con quella critica che in un italiano degno di luciana peverelli avalla, benedice e santifica questi pacchi (in ogni senso del termine).
    Questa critica anzichè proporre criteri oggettivi (suono, qualità dell’emissione, conseguenze del canto professionale come agilità facili, legato estensione) propina e spaccia avvolta nella propria autorità chiacchiere da boudoir e da salotto delle pseudo contesse maffei.

  8. Caro Nicola, il “titolo” per giudicare dovrebbe essere una concezione del canto chiara e l’orecchio. Puoi prenderti tutte le laureee musicalogiche che vuoi, ma se non si sente e non si ha una cultura di canto fatta sui cantanti ed un po’ di storia del canto, non si avra’ mai titolo per parlare. Ci sono decine e decine di insegnanti di canto di conservatorio che spaccano le voci anzichè educarle, così come in nessun corso di laurea in musicologia viene insegnato alcunchè di canto.
    Come ho scritto nell’articolo di fondo, una volta era il teatro ad insegnare. Il pubblico cresceva lì, dal vivo.
    La Bartoli non pratica il canto sul fiato perchè non respira professionalmente, non appoggia, e canta in bocca, falsettando spiacevolmente. Il confronto sullo stesso brano con una voce modesta ma sapientemente condotta come la Berganza ti spiegherà la ragione.
    Quanto ai movimenti facciali della signora Bartoli, non c’entrano nulla con l’essere espressiva, ma con l’arrabattare in bocca la voce. Il cantante di scuola, come sottolineano i trattati di canto, tanto per citare un fonte scritta, è compostissimo nei movimenti facciali. Guarda una Horne, e confrontala con la spiritata Bartoli: ti pare che abbiano stessa tecnica?
    Lasciamo dunque i libroni pubblicitari al loro destino, a favore della consocenza dei grandi. Lì si perde tempo, ad ascoltare loro si impara…..

  9. Aggiungo anche un’altra cosa.
    L’orecchio è certamente una dote, come la voce. Ma è anche un organo che si educa. Ascoltare buon canto affina l’udito sempre di piu’, sempre di più….
    Per questo noi crediamo negli ascolti.
    Se si ascoltano solo cantanti che cantano male, non ci si accorge di nulla. Se si ascoltano solo grandi cantanti, ci si accorge di chi canta male….Il nostro discorso sui modelli è poi questo.
    Buoni modelli di canto e di ascolto daranno migliori cantanti e miglior pubblico.
    a presto

  10. Concordo pienamente con l’articolo e con tanti commenti.

    Dagli ascolti su YouTube la Lezhneva mi è sembrata una copia della Bartoli, sia nel repertorio sia nella “tecnica”, dove peraltro riscontro la più totale assenza di due punti base del canto – ben respirare e omogeneità dell’estensione – i quali vengono sempre più abbandonati per gettarsi subito in acuti e colorature estreme. Tutto questo è ovviamente aberrante perché si parte dalle cose più difficili che invece dovrebbero essere un punto (intermedio) di arrivo, mentre le cose basiche dovrebbero essere più che macinate una volta che si arriva a quelle più difficili. Ecco perché nella Lezhneva riscontro tanti vizi dei cantanti di musica “barocca” (tra poco si spingeranno perfino a Verdi) ossia avere come base della voce il niente! Se serve un solo altro esempio per vedere l’imperizia della Lezhneva, basta vedere come respira: che respira bene non è fermo e rigido, oltre che ovviamente non produce quella qualità di suono!

    Detto questo, caro Nicola, la Bartoli ha dimostrato di avere agli inizi di carriera una personalità e voce per i ruoli di mezzo carattere (non ho mai avuto il piacere di ascoltarla); voce che era modesta e piccolina, ma abbastanza in linea per personaggi come Cherubino. Il problema è nato poi, con i dischi (segnalo il disco su Vivaldi come inizio della rovina) che hanno rivelato la precaria impostazione e scoperta che oltre a non saper respirare – o magari se l’è dimenticato (http://www.youtube.com/watch?v=p4EVNbHX1lI) – la voce della Bartoli non nasce da una corretta emissione ma da una scorretta adduzione delle corde vocali che porta ad un suono sempre indietro ed ingolato: ecco perché non si sente oltre la quinta fila come chi ha avuto il piacere di ascoltarla ha detto. Personalmente ritengo la Bartoli non di certo una cantante da prendere ad esempio o da ricordare per la storia del canto, a fronte di una musicalità e ricerca musicale rispettabili tuttavia.

    • Tornando alla Lezhneva, aggiungo l’ultima cosa: una “cantante” che non ha la perizia tecnica di base e si inerpica in virtuosismi tecnici, come può poi affrontare questioni più profonde come lo stile di un brano che fanno del cantante un musicista? Misterii musicae!

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