Novità discografiche: dalla Russia con…Lucia (di Lammermoor)

Cui prodest? direbbero i latini. A chi giova? Questo è l’interrogativo che spontaneamente sorge dopo l’ascolto della nuova Lucia di Lammermoor prodotta dal Mariinsky di San Pietroburgo. Confesso che le prime perplessità si affacciarono qualche mese or sono, quando mi capitò di leggere l’annuncio dell’imminente uscita discografica: ancora una Lucia con la Dessay (quella di oggi peraltro) e diretta da un Gergiev che nulla avrebbe a che spartire col melodramma donizettiano? Alla prova dell’ascolto rimangono i dubbi (sull’utilità di un’operazione siffatta), si confermano alcune certezze (sulla compagnia di canto) e si rilevano talune sorprese (positive e negative). Un prodotto, insomma, che non fa mancare nulla agli inevitabili confronti/scontri tra appassionati! Da quando Gergiev ha preso le redini dell’ex Kirov e ha trasformato la sua orchestra in una compagine paragonabile alle migliori orchestre europee (unendo, oltra alla perfezione tecnica, una particolarissima idiomaticità tipicamente “russa” in termine di colore, senso della melodia e concretezza), si sono susseguite numerose incisioni (quasi tutte uscite per la casa discografica del glorioso teatro di San Pietroburgo), incentrate – ovviamente – sul repertorio più tradizionalmente russo, ma con interessanti eccezioni: da Čajkovskij a Rachmaninov, da Šostakovič a Stravinskij, sino al Wagner di un Parsifal straordinario (e diversissimo dal modus interpretativo europeo). Un repertorio, dunque, attestato tra tardo romanticismo e ‘900: il “massimo” per soddisfare le esigenze del direttore russo (che ha sempre affiancato al grande sinfonismo austro tedesco la tradizione musicale nazionale, sia vocale che strumentale). Un azzardo, dunque, questo Donizetti? Forse. La lettura di Gergiev prescinde totalmente dall’indagine sulla prassi esecutiva e sugli stilemi espressivi del melodramma italiano del primo ‘800: piuttosto coglie, nell’opera donizettiana, quel “presagio romantico” che suggerisce la fonte letteraria di Scott. La Lucia di Lammermoor di Valery Gergiev è un dramma cupo, gotico, fatto di atmosfere misteriose, brughiere piene di nebbia che si squarciano su cieli illuminati da una lugubre luna, rovine coperte da vegetazione selvaggia, fortissime passioni che travolgono uomini e donne. Il filologo storcerà il naso (e con una certa ragione), ma non potrà non rimanerne affascinato. Innanzitutto colpisce il ritmo, il passo incalzante imposto da Gergiev, che non lascia respiro, come in una ballata romantica: l’opera, infatti (completa in ogni sua parte e con tutti i da capo), dura poco più di due ore. Non c’è un momento di pausa o di autocompiacimento. Come in ogni sua interpretazione, il Maestro russo vuole essere il protagonista, anche con Donizetti. E per questo toglie all’orchestra il ruolo di mero accompagnamento, per dare assoluta centralità alle scelte strumentali, alle atmosfere e agli impasti timbrici. Mai l’introduzione ha goduto di corni così ricchi di malinconia, mai i timpani sono risultati così misteriosi nel suggerire la tinta oscura della vicenda (e non le consuete mazzate con cui, tradizionalmente, viene risolta l’orchestra donizettiana, come se fosse una banda squallida), mai i soli di oboe e clarinetto hanno dipinto un paesaggio sonoro così seducente, mai i due violoncelli del finale hanno tratteggiato una morte così commovente. E così pure i pizzicati morbidissimi, gli arpeggi in cui viene evitata ogni sbracatura e meccanicità, o i tanti preziosismi strumentali come l’utilizzo della glass-harmonica, l’assenza di clangore nei piatti (finalmente espressivi come strumenti musicali e non rumorosi come coperchi di pentole). In ciò è coadiuvato da un’orchestra dal suono lussuosissimo e corposo, vibrante e acceso e, soprattutto, precisissima: cosa – quest’ultima – più unica che rara nel desolante panorama delle compagini che solitamente affrontano tale repertorio. Il tutto, poi, è condotto con una mirabile varietà di fraseggio, un uso virtuosistico delle dinamiche, con seducenti rubati e intense volate liriche. Insomma, per Gergiev, Donizetti è musica degna delle medesime cure da riservare a Šostakovič o a Rimskij-Korsakov e non un maldestro riempitivo per accompagnare gli “sghiribizzi” di qualche primadonna. Fin qui tutto bene: è la grande sorpresa dell’incisione e – a conti fatti – l’unica cosa per cui varrebbe la pena conoscerla. Poi iniziano i problemi: alcuni imputabili alla bacchetta, altri – i più gravi – ai cantanti. Gergiev, infatti, forse per poca dimestichezza col genere o per un certo rifiuto di un approccio più attento alla prassi storica, indulge spesso in arbitrii che puzzano di vecchio. L’aggiunta di acuti al termine dei brani è emblematico: se pure consente al cantante di esibire i muscoli (ma mi chiedo che cosa aggiunga tale esibizione al carattere per nulla eroico di un’opera come Lucia di Lammermoor), comporta una certa spregiudicatezza nel tagliare le consuete ultime frasi cantate nelle code orchestrali, per consentire al cantante di prepararsi alla nota finale. Alla fine risulta fastidioso, inutile e per nulla piacevole da ascoltare (a prescindere dalla bellezza o meno della singola nota: in questo caso non è comunque un bel sentire). E’ lo stesso motivo per cui trovo deplorevole l’aggiunta del DO nella pira (spesso un SI o un SI bemolle), il MI bemolle di Violetta, l’osceno RE bemolle con cui taluni (Sutherland compresa, ahimé) chiudono il quartetto del III atto di Rigoletto, l’acuto della maledizione che il gobbo strilla ai quattro venti (come se gli avessero pestato un callo) o lo sgradevole MI bemolle tenuto in eterno che porta alla stretta della vendetta . Ma pur nella pacifica evitabilità di tali pratiche usate e abusate (ma soprattutto trapassate), esse rimangono peccati veniali rispetto alle difficoltà che  affliggono la compagnia di canto. Sarebbe stato ingenuo aspettarsi qualcosa di diverso dalla Miss Lucia di Natalie Dessay: ormai l’usura consiglierebbe di abbandonare il personaggio (a cui, ormai nulla ha più da aggiungere dopo la frequentazione in teatro e, seppur nella sciagurata scelta della versione francese, in sala d’incisione). I difetti sono i soliti riscontrati nelle sue ultime avventure belcantiste: difficoltà nel legato, affanno, impossibilità di reggere talune arcate melodiche, registro sovracuto faticoso, appoggio discutibile e agilità non sempre impeccabili o fluide.  Solo l’intelligenza dell’interprete – oltre alla conoscenza dei “trucchi del mestiere” – le consente di dare un minimo di credibilità al personaggio. In ciò è assecondata da un Gergiev quanto mai premuroso nello stendere un tappeto di velluto per aiutare gli affanni della sua protagonista. C’è da dire che – vuoi per una certa prudenza suggerita dalle condizioni non certo ottimali, vuoi per la personalità accentratrice del direttore – la Dessay rinuncia agli eccessi che hanno reso “famosa” la sua Lucia: non, purtroppo, all’urlo che precede la cabaletta nella scena della pazzia (tuttavia molto meno “belluino” del solito). Come da tradizione – e anche qui, forse, Gergiev poteva optare per scelte più moderne – viene eseguita la solita cadenza Melba/Marchesi, ma invece del flauto (coi suoi ghirigori liberty, inopportuni come il resto del pezzo) troviamo il suono lunare e straniante della glass-harmonica. A questa Lucia agée, si affianca l’Edgardo di Piotr Beczala, tenore sulla “cresta dell’onda” che sfoggia un timbro morbidissimo e caldo e che sarebbe un ottimo interprete – pur nell’ottica iper romantica imposta da Gergiev (lontanissima invero dall’archetipo del ruolo) – se solo si sforzasse di porgere la frase con un po’ più di eleganza e, soprattutto, sistemasse i problemi – notevolissimi – col passaggio di registro: ogni volta che la voce supera il SOL, infatti (ed Edgardo proprio in quella zona scomoda è costruito), tende a chiudersi dando l’idea di “strozzarsi”. L’ultima scena ne è uno sgradevolissimo esempio: l’atmosfera rarefatta e impalpabile creata da Gergiev viene del tutto compromessa da un canto brado e volgare, viziato – nell’acuto – da un evidente sforzo dovuto non a carenze vocali, ma a errata impostazione: tanto che la morte pare giungere per impiccagione. Peccato. Poco da dire sugli altri interpreti (per i quali sarebbe più corretto stendere pietosi veli): basso e baritono (Vladislav Sulimsky, Enrico e Ilya Bannick, Raimondo) forniscono un ottimo campionario di mal canto, unendo i vizi tipicamente slavi (suoni gutturali o stomacali) all’incapacità completa di rendere le agilità in modo almeno accettabile e agli acuti per cui il termine “avventuroso” (riferiti al modo di prenderli) è un generoso eufemismo. Arturo è, come quasi sempre, stonatissimo (Dmitry Voropaev) e appena passabili gli altri (Zhanna Dobromskaya e Sergei Skorokhodov). Ottimo il coro. A maggior merito del direttore, va ascritta la decisione di non affliggere l’orecchio dell’ascoltatore con inopportuni rumoracci naturalistici, quali tuoni e lampi, come pure Bonynge non ci risparmia: come se non bastasse la raffigurazione musicale che fa Donizetti della tempesta! Che dire? Una Lucia certamente inutile (seppure ottimamente suonata e diretta), inopportuna nel sancire il termine ultimo (forse?) della decadenza vocale di una grande cantante (che meglio avrebbe fatto ad archiviare il ruolo), anche sgradevole nel dare testimonianza sempiterna a “cose” che meglio sarebbe stato dimenticare o nascondere. Eppure – nonostante una lettura non certo rivoluzionaria – resta interessante per comprendere, insieme a Gergiev, come anche il melodramma del primo ‘800 italiano non sia quella terra di nessuno per ciò che riguarda il trattamento orchestrale, come il belcanto non possa reggersi unicamente sulle spalle (o sull’ugola) del divo di turno (come i vecchi concerti per primadonna e orchestra della Caballé nelle sue più avventurose scorribande donizettiane), come, a volte, una direzione possa marcare la differenza. Non certo una registrazione indispensabile (come tante altre di ieri e di oggi), ma a volte l’inutile può essere meglio del superfluo.

Per ascolto alcune variazioni sul tema:

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25 pensieri su “Novità discografiche: dalla Russia con…Lucia (di Lammermoor)

  1. Beczala è la vera delusione (gli altri non li considero neppure): emissione volgare e grande difficoltà nel passaggio, manca di eleganza e fraseggia in modo “verista”, acuti da strangolamento. Dalla Dessay di oggi non è che ci si potesse aspettare altro. Più che “parlata” direi affannata e vecchia. Non la peggiore della storia del disco però, giacché quel posto è saldamente tenuto dall’improponibile Caballé…

  2. Bellissima recensione, che mi ha fatto venir voglia di ascoltare questo nuovo disco – non fosse altro che per la direzione d’orchestra.
    Un particolare, tuttavia, mi ha un po’ turbato: potrebbe spiegare, per favore, perché la Lucia di Lammermoor non sarebbe un’opera romantica? Ho sempre creduto – e letto, e sentito dire – l’esatto contrario… ennesimo luogo comune ingiustamente diffuso nella cultura di massa o sua interpretazione personale, sig. Duprez?

  3. Ma dove avrei scritto che la Lucia di Lammermoor non è un’opera romantica? E’, anzi, ovviamente secondo il mio parere, il prototipo del melodramma romantico, ossia la risposta italiana (più “soft”) all’opera romantica europea (tedesca in particolare). Certo in essa convivono rispetto per convenzioni codificate e apertura a nuovi linguaggi (il romanticismo italiano è molto diverso e meno “rivoluzionario” in confronto al resto dell’Europa, per tante ragioni: sociali, economiche, religiose, culturali e politiche). Quel che volevo intendere (e che ora ho occasione di precisare) è che Gergiev coglie in Lucia di Lammermoor l’anticipazione del dramma romantico verdiano e tardo ottocentesco, fatto di esasperazione di affetti e sentimenti (anche in modo veemente e vibrante), un’emotività quasi pucciniana, non curandosi – di conseguenza – dell’indagine filologica sul suono orchestrale (nei rapporti archi fiati, ad esempio), della problematica del diapason, dell’inserimento di cadenze e variazioni, di stile (generalizzando). Gergiev rivive Lucia di Lammermoor dal suo punto di vista (da uomo del XX secolo con Čajkovskij nelle orecchie). Ed è un punto di vista interessante e, all’ascolto, estremamente coinvolgente (astraendosi dal generale malcanto). Ripeto: il filologo giustamente (dal suo punto di vista) storcerebbe il naso, ma non potrebbe non rimanerne affascinato.

    • Mi scuso, allora… ho male interpretato le seguenti frasi:
      1) piuttosto coglie, nell’opera donizettiana, quel “presagio romantico” che suggerisce la fonte letteraria di Scott.
      2) sfoggia un timbro morbidissimo e caldo e che sarebbe un ottimo interprete – pur nell’ottica iper romantica imposta da Gergiev (lontanissima invero dall’archetipo del ruolo) – se solo si sforzasse di porgere la frase con un po’ più di eleganza

  4. non sono d’accordo sull’idea mutiana di tagliare gli acuti. La “maledizione” di C.McNeil è una tale meravigliosa nota che sarebbe un peccato non sentirla. Così pure il do della pira è tradizione ed è bello ascoltarlo e fa successo. Ovviamente quando gli acuti sono fatti bene e non strilli. Perchè togliere il sovracuto a Violetta nel sempre libera? Poi certi acuti tradizionali si facevano con l’autore vivente e di conseguenza diventano leciti come se fossero in spartito. Oggi spesso è meglio evitarli visto il vezzo dei nostri cantanti in carriera di cantare di gola e non in maschera e sul fiato.
    E questo soprattutto nel mondo tenorile dove sembra scomparsa l’antica arte tramandata dai grandi tenori di buona parte del 900.
    In quanto alla Dessay di questo disco: io non l’h ascoltata in questa Lucia, ma da tempo anche lei ha perso quelle qualità che l’hanno fatta celebre. Se in queste opere “vocali” vengono a mancare “le voci”, a cosa serve che sotto ci sia una buona orchestra?

    • Bah…secondo me gli acuti non aggiungono nulla, preferisco altre finezze stilistiche che un’inutile sbragatura muscolare. Spesso, poi, sono brutti e messi in punti inopportuni. E poi un conto opere dove al cantante è lasciata una certa libertà, altra cosa titoli dove il cantante perde centralità. Se Verdi vuole un acuto solitamente lo scrive…inserirli a casaccio non ha senso. Poco m’importa di una presunta “tradizione” (che non ha alcun valore musicale, ma testimonia spesso solo il gusto di un’epoca…che può essere anche cattivo), poco importa, pure, che tali scempi venissero fatti vivente il compositore, che comunque mai si sognò di autorizzare, limitandosi a tollerarli poiché altro non poteva fare.
      Ma la questione è diversa: come si fa a pensare che sia “sbagliato” eseguire quel che ha scritto l’autore? Ci sono luoghi in cui al cantante è lecito aggiungere o variare ed altri in cui è inopportuno. E poi, comunque, le aggiunte dovrebbero essere almeno gradevoli: il MI bemolle di Traviata è brutto e non aggiunge nulla alla scena anche se cantato alla perfezione, l’acuto inserito alla fine del quartetto del Rigoletto è semplicemente osceno (una porcata resta tale anche se la canta la Sutherland), ma il peggio è il DO della Pira…oltretutto spesso è un SI o un SI bemolle…che senso ha cantare male (e tagliare) Ah si ben mio e quel che segue, per risparmiare la voce al fine di emettere un SI bemolle di petto??? Ed è drammatico che si giudichi un Trovatore da quella nota NON scritta…
      Sull’orchestra: l’opera è ANCHE musica, non una gara di acuti e di strilli…se l’orchestra è scadente lo è tutta l’esecuzione. Secondo me bisognerebbe abbandonare l’idea dell’opera come un circo.

      • Io credo che non sia obbligatorio tagliare questi famigerati acuti, se il resto della parte non ne risente. Intendo dire che si può concedere questo vezzo alle orecchie del pubblico e alla vanità (o è paura di essere fischiati?) dei cantanti, ma a patto che il resto non ne risenta (esattamente ciò che dice Duprez, col quale concordo). Ed è vero inoltre che spesso per eseguire questi strilletti vengono anche trasportate le tonalità, con tanti saluti alla coerenza tonale e algi schemi ed equilibri voluti dal compositore (la “pira” perde troppo in luminosità e marzialità trasportandola da do maggiore a si bemolle, come puntualmente nota Philipp Gossett)

        • Verissimo: il problema non è l’inserimento di acuti (che comunque andrebbe fatto con un certo senso musicale e stilistico), ma il fatto che per inserirli si modifica tutto il resto. Secondo me una singola nota (per quanto ben eseguita) non può “valere più” della coerenza musicale. A parte che io ammiro di più l’uso sapiente delle mezze voci e le sfumature (rispetto all’acuto fine a sé stesso), l’esempio della “pira” resta il più calzante. Facendo finta che il DO urlato possa starci (e non è vero, giacché fa a pugni col resto), mi chiedo che senso abbia risparmiare la voce nella splendida “Ah sì ben mio”, magari tagliando quel che segue, per sfogarsi nella (brutta) cabaletta, ovviamente monca di coda e “da capo”. Ancora peggio quando, ed accade spessissimo, si abbassa il tutto di un tono, con il conseguente appannamento (il do maggiore è più luminoso, non ci sono balle)…e con il pubblico BEOTA che va in delirio per un DO di petto che, in realtà, è un SI bemolle… Questa per me non è musica, ma circo o immondizia. E lo è anche se canta Corelli.

          Peggio ancora quando – per tradizione idiota – si manometto specifici effetti voluti e studiati dall’autore: si prenda nel Trovatore (opera scempiata dalla prassi esecutiva) la frase “sei tu dal ciel disceso o in ciel son io con te”, la cui riproposizione nel finale d’atto è affidata alla sola Leonora (con evidente effetto di squarcio lirico e “angelico”), ma che una tradizione imbecille ha assegnato anche a Manrico, con tanti saluti all’efficacia di un momento magico nell’opera verdiana, che così si tramuta in un’esibizione triviale (degna di Pacini o Mercadante)! Ma ancora, la chiusa del duetto Amelia/Riccardo nel Ballo, dove il DO acuto è affidato al solo soprano e non anche allo strillante tenore: Verdi ha scritto così perché voleva così…è un effetto studiato nel dettaglio.

          Tornando a Lucia, il problema non sono gli acuti inseriti (comunque in questo caso non sono neppure ben fatti), ma il fatto che per eseguirli i cantanti non cantano la coda dei brani e lanciano lo strillo sull’accordo finale…persino nella sfida che introduce la stretta dopo il celebre sestetto, Beczala, omette di cantare metà della sua frase per fare l’acuto. Secondo me è inaccettabile.

          • e poi sentire l’orchestra che ripete a vuoto gli accordi cadenzali, come fosse un disco inceppato, è orribile. All’epoca di Donizetti non si sarebbe mai fatto

          • Sì..davvero orribile. E dunque, vale la pena per una sola nota (pure bellissima) storpiare tutte le altre?

          • Duprez, sul Trovatore sbagli e te l’ ho già fatto notare una volta. La variante al finale del secondo atto, con la frase “Sei tu dal ciel disceso” eseguita anche dal tenore, non è un’ aggiunta apocrifa ma proviene dalla partitura della versione francese, eseguita nel 1855 e preparata personalmente dall’ autore che, oltre a questa modifica, aggiunse i ballabili e revisionò il finale.

          • Io parlo del Trovatore, non del Trouvère, dove le parole sono pure diverse (e sono giustificabili anche in bocca a Manrico: “D’espoir, d’amour, d’ivresse, cette heure enchanteresse transporte nos esprit”). Questa non è una variante , ma una versione differente per un’opera differente…l’inserimento nel Trovatore è, dunque, apocrifo, scorretto e, FRANCAMENTE, bruttissimo… Peraltro la tradizione di cantare all’unisono “sei tu dal ciel disceso”, non deriva certo dalla raffinata conoscenza della versione francese (figurati…), ma dall’egocentrismo tenorile che non voleva perdere occasione di mettersi in mostra.

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