Verdi Edission: Un Ballo in Maschera

La prima rappresentazione di Un Ballo in Maschera andò in scena a Roma al teatro Apollo il 17 febbraio del 1859. Fama e successo non risparmiarono al compositore ormai di fama mondiale come al librettista, debuttante, Antonio Somma, una gestazione travagliata della nuova opera. Problemi di censura, prima a Napoli poi anche a Roma, condizionarono pesantemente la redazione del libretto, che Verdi aveva scelto, non senza indecisioni tra altri diversi soggetti compreso  Re Lear, che più volte tentò il compositore. La moderna filologia musicale ha avuto modo di illustrare in dettaglio le vicissitudini che portarono alla stesura finale del Ballo muovendo dall’originario testo del grand-operà “Gustave III ou Le bal masqué”, che Scribe aveva approntato per Francois Auber. Opera di grandissimo successo in Francia, trattava la storia realmente accaduta dell’assassinio di Gustavo III re di Svezia, illuminato sovrano e mecenate, con una trama del tutto analoga a quella del Ballo, secondo uno schieramento vocale  tipico della prima fase del grand’operà : Gustavo, tenore (Nourrit ); Anckarstrom suo amico e poi assassino, basso ( Levasseur ); Amélie, moglie di Ankastroem, soprano (Falcon); Arverdson, la veggente ( Debadie Leroux); Oscar, soprano ( Dorus Gras ). La storia di un amore impossibile, dunque, entro uno scenario di verità storica e personaggi politici quali protagonisti.
Il soggetto sotto il profilo drammaturgico perfetto, adottato anche da Mercadante per il suo Reggente del 1843, che aveva attratto in precedenza anche l’interesse di Bellini, quindi di Gabussi, per la sua Clemenza di Valois del 1841, era evidentemente ancora valido per gli scopi drammaturgici di Verdi, che si era già cimentato con la formula del Gran-Operà.
Di nuovo Verdi cercava ispirazione in modelli letterari e musicali stranieri da sfruttare ai propri fini drammaturgici: l’obbiettivo era la realizzazione di un dramma ove l’azione scenica, recitativi e parti cantate, atmosfere completamente diverse si fondessero completamente in tutto unitario, sganciandosi dalla formula aria-cabaletta. Il suo pensare “in grande”, nella prima trattativa con il San Carlo di Napoli, si riscontra anche nel forte interesse per alcuni nomi di cantanti allora celeberrimi da Fraschini e Negrini quali tenori, alla Penco soprano, Coletti baritono  e sotto contratto con il teatro napoletano. La censura condizionò Verdi, ostacolando la rappresentazione dell’assassinio di un sovrano realmente esistito, tanto che il maestro dovette cambiare ambientazione storica e titolo. Del suo Gustavo III rimangono svariate annotazioni musicali iniziali, ben presto confluite sul rifacimento del soggetto “La vendetta in domino”, che avrebbe dovuto avere per protagonista il secentesco Duca di Pomerania, innamorato della moglie del migliore amico ed assassinato in un complotto. Soggetto anch’esso ricusato dalla censura napoletana a seguito di un attentato a Napoleone III, tanto che il teatro di Napoli propose un ulteriore cambio di sfondo storico, calando l’azione, sotto il titolo di  Adelia degli Adimari, nella Firenze medioevale.
Le controversie con Napoli finirono in tribunale ed in una ripresa del Boccanegra, mentre nuove trattative venivano intavolate da Verdi con Roma, sempre per dar vita all’originario progetto del Gustavo III. Trattative concluse con lo spostamento definitivo dell’ambientazione del dramma dalla Svezia alla Boston del XVIII secolo, protagonisti Riccardo, Conte di Warwick, l’amico Renato e sua moglie Amelia. Agli inizi del ’59 il libretto del Ballo secondo la revisione definitiva di Somma, accolta la censura, era pronto.
Queste vicende per noi oggi marginali sono rivelatrici dell’interesse di Verdi per il personaggio di Gustavo e l’ambientazione di corte: l’affresco storico gli era evidentemente necessario per conferire all’opera un preciso tratto monumentale ed aulico, così come la verità storica del protagonista coincideva con il modello positivo del sovrano illuminato, che antepone sul piano pubblico ai sentimenti personali le ragioni del buon governo e del ben disporre per i propri sudditi e, nel privato, onore e lealtà verso l’amico fidato all’amore della di lui moglie. I due personaggi maschili si trasformano nel corso dell’opera, l’amore di Riccardo per Amelia rompe il legame di amicizia e lealtà tra i due, inducendo Renato al delitto d’onore, mentre Amelia rimane in balìa degli eventi. Il fascino del soggetto, a mio avviso, risiede proprio nell’innesto di componenti pienamente romantiche, la rappresentazione delle passioni travolgenti, che agitano i protagonisti, su una formula da primo grand’operà, magari anche datata stando quanto Meyerbeer con Les Huguenots e Le Prophéte, ma con una struttura che se da un lato mantiene intenzionalmente suggestioni d’oltralpe dall’altro realizza modifiche profonde nella struttura delle arie e dei numeri chiusi, inseriti in modo del tutto nuovo nel tessuto generale dell’opera.
Questa volta il soggetto a cui Verdi resta fedele non è letterario in senso stretto, ma librettistico, dato che Scribe non è solo una fonte ispiratrice per Somma e per il Cammarano del Reggente. Vi è qualcosa di più di una serie di analogie o di situazioni topos da rielaborare, si direbbe piuttosto un carattere dei personaggi sul quale Verdi lavora per adeguarli ai propri obbiettivi musicali, continuando a prendere spunto da ciò che lo precede, guidando e stimolando l’inesperto Somma. Spia dell’ispirazione desunta dal Grand-operà francese, anche senza conoscere le vicende inerenti la gestazione del libretto, è il personaggio di Oscar, soprano nel Ballo come nel Gustave III e nel Reggente, stereotipo del paggio di corte, come l’Urbain di Les Huguenots, che ne costituisce la più compiuta raffigurazione. Nel Gustave III si era trattato di una parte sopranile,  pensata per madame Dorus Gras, la più grande chanteuse a roulades del suo tempo, non certo una comprimaria. Il personaggio verdiano di Oscar è tratteggiato in termini positivi, allegro e giovanissimo, niente affatto esornativo, come già nel Reggente di Mercadante. Canta due couplets, uno al primo atto ( “Volta è la terrea” ) ed uno al terzo, quest’ultimo, “Saper vorreste”, corrispondente al “Non vous ne le sarait pas” dell’opera di Auber. Partecipa anche ai concertati primo  (dove è l’unica voce sopranile) e finale, accompagna Riccardo da Ulrica cantando negli assiemi, agisce nella scena della congiura con un canto brillante nettamente in contrasto con il clima che circonda i cospiratori e configurando l’alter ego dell’altro soprano come accadeva nei concertati del grand-operà. Rappresenta, dunque, qualcosa di più del colore francese o della citazione, e canta ben più del celeberrimo Urbain e lo conferma la tradizione di affidare la parte a grandi prime donne come la Kurz o la  Hempel e non già a voci piccole, sottili, di soprano leggero dal timbro puntuto. Le difficoltà che l’opera incontrò subito, fin dalla prima ( ricordiamo l’insoddisfazione che Verdi manifestò per la parte femminile del cast ), nell’essere rappresentata, nonostante il grande successo di pubblico e di critica, furono dovute in gran parte all’onere che uno schieramento a cinque prime parti del Ballo comportava con due amorosi, che dovevano affrontare parti di non comune lunghezza e difficoltà. Non sarà un caso la tradizione del taglio dell’aria del terzo atto del tenore.

Riccardo è il protagonista positivo, elegante ed aristocratico, intelligente e scettico davanti all’irrazionale, generoso coi sudditi, sincero e leale con gli amici, innamorato, forse suo malgrado, della donna dell’amico. Il primo atto introduce una componente “simpatica” del personaggio, la gioia dell’innamoramento, la curiosità ed il divertimento per le vicende di Ulrica, la baldanza e l’ironia di fronte ai vaticini, i lati pubblici della sua personalità. Al secondo arriva il lato privato del conte, quello sentimentale del duetto, e del ripiegamento interiore,  nella grande scena del terzo atto, quando canta il futuro che lo attende, di solitudine e lontananza dall’amata, con una passione che è intensa ma composta al tempo stesso. Il destino è presagito con chiarezza dal protagonista, che vi si abbandona, perché inevitabile per l’uomo innamorato della donna dell’amico. Il canto è sempre quello di un nobile, il fraseggio, nonostante le critiche mosse a certe ingenuità del testo  predisposto da Somma, variegato e sfaccettato nell’alternarsi delle frasi, perciò Riccardo può considerarsi la perfetta incarnazione del tenorismo verdiano maturo.
Questa compiuta realizzazione ha una formulazione variegata, che alterna passi francesizzanti come il cantabile “ La rivedrò nell’estasi” oppure “Ogni cura si doni al diletto”  all’allegro con brio  “Dì tu se fedele il flutto m’aspetta”, in cui Riccardo si finge pescatore divertito e scettico davanti ad Ulrica, brano in cui Verdi porta il tenore a cantare il moto delle onde del mare con i salti dal labem3 coronato al do sotto il rigo. Ancora l’incredulo sorridere di “E’scherzo od è follia”, andante mosso quasi allegretto, da eseguire espressamente “con eleganza “, sono tutti momenti che introducono il lato pubblico e “simpatico” del personaggio. Quando il conte si tramuta in innamorato la sua vocalità cambia: non è più la leggerezza iniziale di “ La rivedrò nell’estasi”, ma lo slancio, l’impetuosa passione, screziata da una fermezza risoluta. Spariscono tutte le componenti “di colore”, l’aspetto cortigiano e giocoso del primo atto svaniscono di fronte alla comparsa dell’uomo innamorato e passionale. Il grande duetto d’amore con Amelia, l’aria del III atto e la scena della morte hanno il canto della verità degli affetti, della grande passione e dell’amicizia infranta di Riccardo. La difficoltà  della  parte consta nel canto “con espansione”, per citare una indicazione verdiana sul passaggio superiore, costantemente guidato da forcelle singole e doppie, che impongono al protagonista di sfumare, essere vario e nobile, mentre le salite all’acuto arrivano spesso con passaggi ampi su di un orchestrale intenso ( per tutte quella al la e quindi al si bem di “Quante volte dal cielo implorai la pietà che tu chiedi a me, ma per questo ho potuto un istante non viver di te ” ) ed impongono  al protagonista di coniugare squillo ed ampiezza.  Quanto alla grande scena che apre l’atto III, tagliata normalmente sino al dopoguerra, rimando a http://www.corgrisi.com/2009/10/mese-verdiano-vi-laccento-verdiano-parte-prima-ma-se-me-forza-perderti.  La scena si chiude con  la famosissima frase “Si rivederti Amelia”, tutta di slancio, che fa da passaggio diretto ( geniale colpo di teatro ) alla scena della festa, con la sua caricaturale  (e poi sinistra)  orchestrina di sfondo ed il gioco delle parti dei partecipanti mascherati  mentre Riccardo va incontro alla morte a viso aperto, nonostante l’esplicito avviso della disperata Amelia in domino. Al duettino con l’amata, che ha raggiunto per l’ultimo incontro, segue l’omicidio. Il finale dell’opera è grandioso, una sorta di beatificazione in agonia del protagonista, la cui voce esce solitaria dall’ensemble: l’andante “Ella è pura” è prescritto “dolcissimo…con espressione”, ricco di forcelle su una linea ampia e struggente, e l’”Addio per sempre” con cui Riccardo lascia per sempre i suoi sudditi- figli in pace. L’onore di Amelia è ristabilito, la lealtà verso l’amico mai infranta e la morte del protagonista ristabilisce ogni cosa, come sempre nell’opera romantica.

Il personaggio di Amelia non subisce una trasformazione molto diversa rispetto al Gustave III di Auber o al Reggente. Verdi la colora di tinte assai più forti, del tutto nuove, quelle della passione incontrollabile, che la conduce, disperata, all’antro di un’indovina reietta e prossima all’esilio per cercare un rimedio alchemico atto ad estinguere l’amore, che contrasta i voti coniugali e le compromette l’onore. Esce dai ranghi, avventurandosi in un luogo pericoloso come  il campo degli impiccati a cercare  l’erba dai magici poteri. Amelia non vuole cedere alla passione, non è ancora Anna Karenina, che crede di poter abbattere ogni convenzione sociale, ma è una donna che, pur ammettendo i propri sentimenti all’uomo che ama veramente  sa che deve rimanere fedele al marito perché è proprio questa volontà che l’Ottocento richiede alla nobildonna, che voglia essere  realmente tale. Il destino, componente immancabile delle opere di Verdi, trasforma Amelia in un personaggio trascinato da eventi più grandi di lei: il marito si rende conto dell’adulterio, la  vuole uccidere, ma prima la trasforma nello strumento della vendetta contro Riccardo. E’ lei a sorteggiare dall’urna dei cospiratori il nome del designato sicario del conte. La citazione è un must del teatro donizettiano, Maria di Rohan, con il suo triangolo amoroso-omicida.
La vocalità di Amelia è molto ardua la più difficile ed onerosa parte del repertorio femminile verdiano.
Su questa scrisse Tamburini una puntata a suo tempo (http://www.corgrisi.com/2009/10/mese-verdiano-xii-laccento-verdiano-parte-terza-ma-dallarido-stelo-divulsa). Non è un caso che le grandi Amelie si contino sulla punta di una mano nel novecento, dato che il soprano passa dal canto aereo di frasi come “Consentimi o signore virtude ch’io non ho..” alla grandissima concitazione della terribile aria del II atto. Nel Reggente la scena consisteva solo in alcune brevi frasi : Giunsi… qui tutto di spavento è pieno!…Tutto!… Financo il sordo mutar de’ passi miei! ~ L’orrendo è quello asil di morte!… ~ O ciel, tu guida il mio piè vacillante…, che anticipavano il duetto, a differenza del Gustave III, nell’atto III, per cui Auber aveva scritto una grande scena con “cabalettone” a vocalità orizzontale secondo le capacità di Marie-Cornelie Falcon. Verdi seguì la struttura drammaturgica di Auber e vi mise una grande e terribile introduzione d’atto, mentre Somma articolò il libretto in modo che l’intero stato d’animo della protagonista potesse dispiegarsi innanzi allo spettatore. Da un lato l’orchestrale robusto richiede una voce “importante”, manovrata dai gravi sotto il rigo sino all’acuto estremo ( il do scritto nella sezione conclusiva – la cadenza dal sibem a scendere.???.) con facilità, in grado di seguire, legando il suono, tutte le innumerevoli forcelle e segni di espressioni di cui Verdi, more solito costella il brano. Una voce da soprano drammatico, richiesta ancora con insistenza in passi molto difficili come il terzetto in chiusa d’atto “Odi tu come fremono cupi”, il presto del terzetto in chiusa d’atto, ove Amelia attacca con serie di biscrome e crome al re – fa sotto il rigo per arrivare alle frasi “..qui va, va t’invola” alle serie di la acuti da eseguire con forza, che esprimono l’agitazione di Amelia per l’arrivo dei nemici di Riccardo.
Canta il sospetto spaventoso durante la congiura: gli eventi precipitano al quartetto “Ah del Conte la morte si vuole” che ha un orchestrale denso, in particolare il successivo quintetto, dopo l’arrivo di Oscar,” Ed io medesima io misera”  che, a parte i trilli scritti, spinge nel grave il canto Amelia, che deve possedere un vero -quanto raro- registro basso per potersi stagliare sulle voci maschili di marito e congiurati, dato che la tessitura acuta spetta all’altro soprano, ovvero ad Oscar. Di nuovo alla scena della festa Amelia ritrova un cantare concitato, che esprime l’ansia per la tragedia che sta per accadere. L’incontro con Riccardo ,“T’amo si t’amo in lacrime” , contempla le frasi “ Cadavere doman sarai se tu rimani “ con i sibem marcati, che ancora, come al II atto, descrivono il terrore di Amelia per l’imminente omicidio, mentre la scrittura del concertato finale è, come di prammatica, con gli acuti tenuti sul coro.

Ulrica, l’indovina nera di cui Riccardo deve decidere il destino, è vera voce di contralto secondo una visione “realista” della voce di contralto, cui affidata la parte della donna satanica. La sola, di fatto, dell’intera produzione verdiana. Il suo canto è fosco davanti alla caldaia, anche spaventoso al suo apparire, ma di fatto onesta,  positiva ed amica. Ha certamente una dimensione vocale statuaria, degna del grand-operà, benchè priva della componente acrobatica, ancora presente in Azucena, anch’essa creatura satanica. In realtà più che di un personaggio, si tratta della personificazione ieratica del destino incombente. Verdi scrive un’introduzione musicale terribile alla sua scena, aperta da accordi di settima come nel Coriolano beethoveniano, ineluttabili e spaventosi, quindi una musica oscura, tremenda che precede ed accompagna il canto del contralto, che si dice anche posseduto anche dal demonio nella seconda parte. Serve per il ruolo una grande voce, di spessore e timbro proporzionati all’orchestrale verdiano.

Renato è anche lui, come Riccardo e Amelia, personaggio dalla vocalità pienamente verdiana. La sua personalità è meno sfaccetta, ad ogni situazione la sua reazione è univoca e poco contrastata. L’amico leale si trasforma nella guida e nell’arma vindice dei congiurati, allorchè scopre che la moglie è innamorata di Riccardo. Renato cambia del tutto carattere, offre il figlio in ostaggio ai congiurati a garanzia che compirà proprio lui la vendetta, e progetta l’omicidio dell’amico oltre che della moglie. Non c’è l’immediatezza del rozzo conte di Luna, ma un uomo profondamente ferito dal tradimento ed inesorabile nel compiere la propria vendetta.
La sua scena d’entrata “Alla vita che t’arride“ canta il monito dell’amico di sempre al conte affinchè si guardi dai nemici, nonostante l’amore e la considerazione dei sudditi. E’ un canto ampio, caratterizzato da numerose legature delle frasi, incentrato su alcuni passaggi particolari da eseguire accentati, scanditi con chiarezza  “Te perduto, te perduto a me la patria”. Tocca il fa acuto, ma la tessitura non è altissima, mentre è assai più impegnativa la seconda aria, l’andante sostenuto “Eri tu”, che sin dal recitativo spinge la voce del baritono al mi nat in “delle lacrime mie..”. Verdi prescrive espressamente che il canto sia dolce, ma la scrittura batte il passaggio superiore e finisce, quindi, per essere uno spartiacque severo tra i baritoni capaci e quelli mediocri. Passaggi come “ la delizia dell’anima mia”, oppure “..e compensi in tal guisa…” sono scritti in zona mi-fa,  “un amplesso che le …” attraversano la zona re nat- mi – re – do diesis – re ove la voce dei baritoni poco periti si sfuoca inesorabilmente, per non parlare del passaggio ”..sul mio seno brillava d’amor..” toccando il fa acuto. A proposito di questa aria Lauri Volpi esalta la prodezza vocale di Mattia Battistini ( si ascolti l’edizione del 1907 ) voce “..in cui il divino e l’umano si fondevano quand’egli sussurrava col più lieve ma percettibilissimo timbro “Oh dolcezze perdute o memorie….”, frase che oggi si falseggia o si grida”, esecuzione leggendaria, che si impone addirittura il bravissimo Galeffi ( sentire per credere !). Le difficoltà vocali di Renato non risiedono solo nelle arie ma anche in alcuni ensemble, come la chiusa del terzetto dell’atto secondo, con i mi nat ribattuti, che fanno “abbaiare” quasi tutti i baritoni, come pure alcuni passi della scena della congiura, “Dunque l’onta di tutti sol una” di tessitura acuta ( “vendetta….sul quel capo sarà”..arriva sino al fa acuto ).

Gli ascolti che seguono tentano, con fatica, di offrire alcune tra le migliori esecuzioni dei vari numeri dell’opera, contemplando anche le direzioni d’orchestra e non solo il canto. Diremo in breve che il dopoguerra è stato avaro di protagonisti maschili e femminili del Ballo in Maschera, fatto che dimostra l’estinzione progressiva, nella seconda metà del secolo, delle voci verdiane. Basterebbe rilevare l’onere professionale di una liricissima Maria Chiara sui ruoli drammatici a dimostrare il fenomeno per le voci di soprano.
Per Amelia preferenza indiscutibile per Anita Cerquetti nelle due arie, il soprano che più di tutte ha saputo coniugare una natura particolarmente privilegiata con musicalità e capacità espressive complete e perfettamente calzanti al personaggio. Le altre mostrano tutte, ora per capacità di fraseggio, ora per minor perfezione vocale, alcuni limiti, fatto che prova, dati i nomi grandissimi di queste Amelia, l’alta difficoltà della parte.
Non molto diversamente per i tenori, di cui già vi parlammo a suo tempo. Si può giocare al confronto tra le migliori prove di Tucker e quelle di Bergonzi ( il video di Tokyo è assolutamente sensazionale per intensità espressiva e varietà di fraseggio ) al fine di stabilire, se possibile, quanto si preferisca lo squillo all’accento lirico, chi dei due abbia maggior varietà: entrambi restano interpreti eccezionali e soli nel dopoguerra, dato che Luciano Pavarotti, non ha mai saputo offrire la stessa qualità di fraseggio pur cantando con una voce eccezionale.
Circa le Ulriche non servono molte parole per provare che Ebe Stignani, forte anche di una natura straordinaria, siede sola ed isolata sul ruolo per un lasso di tempo immenso, mentre i baritoni, pochissimi ed ormai estinti, si limitano alle voci di McNeil, Zanasi e Bruson, ma ben distanti dai fenomeni antichi come  Galeffi o De Luca o Battistini.
Quanto alle bacchette, il Ballo in Maschera ha attratto tutti i grandi dopo Toscanini. Dei vari Walter, Mitroupulos, Schippers, Gui etc.. vi sono qui solo alcuni assaggi, e variamente si distinguono nella costruzione di climi ed atmosfere ora cortigiane ( Toscanini ), ora di congiura ( Walter ) ora di passione..etc.
A voi proponiamo anche qualche estratto dei precedenti Gustave III di Auber e del Reggente di Mercandante per divertirvi a cogliere il procedere della storia dell’opera nello stesso soggetto.

Gli ascolti

Giuseppe Verdi: Un ballo in maschera

PreludioArturo Toscanini (1954)

Atto I

Posa in pace…La rivedrà nell’estasiLuciano Pavarotti – Claudio Abbado (1977)

Libero è il varco a voi…Alla vita che t’arrideRenato Bruson – Riccardo Muti (1972)

Bonus: Alla vita che t’arride Mario Zanasi – Oliviero de Fabritiis (1961)

Il primo giudice…Volta la terrea…Ogni cura si doni al dilettoJan Peerce, Robert Merrill, Virginia Haskins, Nicola Moscona, Norman Scott, John Carmen Rossi – Arturo Toscanini (1954)

Zitti! L’incanto non dessi turbare…Re dell’abissoKerstin Thorborg – Bruno Walter(1944)

Bonus: Re dell’abissoEbe Stignani – Emilio Tieri(1956)

Bonus: Re dell’abissoOralia Dominguez – Bruno Bartoletti (1965)

Bonus: Re dell’abissoIrina Makarova – Lyutaurus Balciunas (2003)

Che v’agita così?…Della città all’occaso- Ebe Stignani, Antonietta Stella, Ferruccio Tagliavini – Mario Rossi (1956)

Su profetessa…Dì tu se fedeleRichard Tucker – Dimitri Mitropoulos (1955)

Chi voi siate, l’audace parola…E’ scherzo od è folliaIrene Dalis, Luciano Pavarotti, Helen Donath, Richard Mundt, Philip Booth, Franco Bordoni – Charles Mackerras (1971)

Atto II

Ecco l’orrido campo…Ma dall’arido stelo divulsaAnita Cerquetti – Emilio Tieri(1957)

Bonus: Ecco l’orrido campo…Ma dall’arido stelo divulsaLeontyne Price – Thomas Schippers (1967)

Bonus: Ecco l’orrido campo…Ma dall’arido stelo divulsaIlva Ligabue – Nello Santi(1978)

Teco io sto! Richard Tucker & Martina Arroyo – James Levine (1970)

Ohimé, s’appressa alcun…Odi tu come fremono cupi…Vè, se di notteAntonietta Stella, Ferruccio Tagliavini, Giuseppe Taddei, Giovanni Amodeo, Franco Pugliese – Mario Rossi (1956)

Atto III

A tal colpa è nulla il pianto…Morrò ma prima in graziaEttore Bastianini, Anita Cerquetti – Emilio Tieri (1957)

Morrò ma prima in grazia – Anita Cerquetti (1957)05 UBM5

Alzati…Eri tuCornell MacNeil – Bruno Bartoletti(1965)

Bonus: Eri tu Mario Zanasi – Oliviero de Fabritiis (1961)

Siam soli…Qual dunque l’eletto…Ah! Di che fulgorLeonard Warren, Nicola Moscona, Norman Cordon, Zinka Milanov, Frances Greer – Bruno Walter (1944)

Forse la soglia attinse…Ma se m’è forza perdertiCarlo Bergonzi – Nello Santi(1962)

Bonus: Forse la soglia attinse…Ma se m’è forza perdertiMirto Picchi – Vittorio Gui (1949)

Bonus: Forse la soglia attinse…Ma se m’è forza perdertiRichard Tucker – Francesco Molinari-Pradelli (1966)

Bonus: Forse la soglia attinse…Ma se m’è forza perdertiBruno Prevedi – Thomas Schippers (1968)

Fervono amori e danze…Saper vorresteJoseph Metternich, Nicola Moscona, Norman Scott, Roberta Peters – Dimitri Mitropoulos (1955)

Ah! Perchè qui? Fuggite…Ella è pura Leontyne Price, Carlo Bergonzi, Robert Merrill, Roberta Peters – Francesco Molinari-Pradelli (1966)

 

F.E. Auber:  Gustave III ou Le Balle Masqué

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F.S. Mercadante: Il Reggente

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47 pensieri su “Verdi Edission: Un Ballo in Maschera

    • Non sono molto d’accordo (soprattutto per Bergonzi, che trovo troppo “pacioso”), anzi secondo me Riccardo è uno dei pochi ruoli in cui Pavarotti ha maggiormente curato fraseggio e carattere (giacché l’eccezionalità della voce è fuor di discussione). Riccardo non è un ruolo crepuscolare o malinconico, è un cialtrone di media nobiltà, leggero e vuoto, che ha una tresca con la moglie del suo miglior amico (e dipendente): Verdi l’ha tratteggiato alla perfezione…proprio per questo trovo improponibili la trasposizione in Svezia (come succede spesso di vedere), perché il Riccardo del Ballo non ha niente di regale o di illuminato. E’ un gaudente libertino che, alla fine, si redime (forse trascinato da eventi più grandi di lui). Ecco perché trovo la sfacciataggine di Tucker o di Pavarotti molto più azzeccati rispetto al “cesello padano” di un Bergonzi…

      • Sfacciataggine? Più ascolto Pavarotti più lo trovo solo sfacciatamente pressapochista, generico, musicalmente trasandato. Per me resta prevalentemente un prodotto da studio discografico…

        Riccardo è una delle cose migliori che Bergonzi abbia fatto… se non ci piace qui mi chiedo dove possa piacerci!

      • Se si pensa a Riccardo come un ricco signorotto di campagna nella bassa lombarda allora Bergonzi è perfetto…ma nel suo canto non trovo nulla di paragonabile al personaggio viziato e sfacciato dipinto da Verdi. Tra Tucker e Bergonzi non ci sono paragoni. Ma ai due prediligo lo splendore vocale di Pavarotti.

  1. dai Mancini lascia stare Pavarotti,la sua voce era semplicemente “monumentale”.
    Come tutti i cantanti aveva i suoi difetti,ma che era un prodotto da studio discografico quello no di certo,ricordiamoci sempre il suo primo periodo di carriera,il vero Pavarotti

    • Infatti: negli anni ha macinato spettacoli su spettacoli. Potrà piacere o meno il personaggio. Irritare certa “faciloneria” (soprattutto dopo che si è trasformato in un divo), ma se Pavarotti è un mero prodotto discografico la Callas cos’è? Un prodotto del gossip più squallido? Bisogna distinguere i meriti dai difetti… E i cantanti (anche quelli dell’anteguerra) di difetti e di manie ne hanno sempre avuti (in particolare tenori e soprani)

      • Beh, non esageriamo… Pavarotti aveva solo la voce… in studio d’incisione, solo con un buon direttore a fianco (con Bonyngte talvolta lo trovo osceno), riesce a fare cose apprezzabili, ma dal vivo lo trovo al di sotto della mediocrità… non so cosa farmene di una bella voce, non vado a concerto per sentire uno Stradivari, vado per sentire la musica, che Pavarotti sì e no sapeva leggere… e si sente…

        La Callas era musicista oltreché cantante intelligente, il paragone mi sembra del tutto fuori luogo…

        Ribadisco che considero Pavaorotti solo un prodotto di mamma Decca.

        • L’hai mai sentito dal vivo? E’ sotto la mediocrità la Fille, la Bohéme, l’Elisir, Tosca, Idomeneo etc…di cui restano testimonianze dal vivo? E i Puritani con Muti? O le Lucie, i Lombardi, Rigoletti e Traviate? Per non parlare di una straordinaria Manon di Massenet diretta da Maag… Insomma considerare Pavarotti un prodotto di mamma DECCA è uguale a considerare la Callas prodotto di papà EMI… Sul fatto di sapere sì e no leggere la musica…proprio da te che idolatri cantanti dell’anteguerra, non me lo sarei aspettato: non credo che gente come Caruso (anche lui prodotto di casa VICTOR?) avesse una formazione da conservatorio.

          Non capisco, comunque, la considerazione del disco come “sterco del demonio”…senza dischi non ci saremmo neanche noi…

          • Lungi da me l’essere un fan di Caruso – come della Callas peraltro – che del disco è stato il primo, vero grande promotore. E comunque c’era tutto un altro istinto d’interprete. Se non vi infastidisce la piattezza di Pavarotti non so che dire, io ultimamente lo ho molto ma molto ridimensionato. Nessuno nega la dote vocale, io nego il suo essere un cantante completo ed espressivo. E comunque i cantanti migliori non hanno avuto grandi carriere discografiche, si veda la Olivero o il misconosciuto Alain Vanzo o la Gencer o la Dupuy.

          • E comunque sì Caruso è stato anche un grande fenomeno commerciale, tutt’ora lo è. I cantanti dell’anteguerra non so se avessero formazione da conservatorio (sulla cui validità potrei nutrire qualche riserva), fatto sta che nell’Ottocento le grandi prime donne studiavano composizione, sapevano all’occasione sistemarsi una parte, erano musicisti prima che cantanti.

  2. Mi sa che qua le ssciocchezze le dicono entrabi. Pavarotti e’ la voce piu’ eccezionale mai udita live da me,ed il disco non rende minimamnete l’effetto stereofonico di queela voce dal vivo. Interprete generico che non puo’ nemmeno per scherzo essere paragonato alla varieta’ e puntualita’ di un bergonzi. Dissento in toto da duprez ssu questo. Riccardo puo’ essere quello di tucker come quello di bergonzi, egualmente validi.

    • E può essere anche quello di Pavarotti, da un certo punto di vista: anche perché l’eccellenza di un’interpretazione non risiede solamente nel rispetto puntiglioso delle “regole” (che da sole non bastano, altrimenti sarebbe il trionfo del manierismo accademico sulla vitalità musicale). Bergonzi canta splendidamente, ma del personaggio non coglie, secondo me, l’aspetto più esteriore. Però sono solo opinioni, credo libere e legittime, le mie come quelle di Mancini, anche se diverse: non mi sembra che siano sciocchezze…

    • Verdi è tante cose e non mi sembra che Pavarotti stoni, urli o canti spoggiato. Anche la Callas cantava con un fraseggio del tutto particolare e non era certamente “ottocentesca”, non mi sembra che questo vada ad inficiare le sue interpretazioni.

  3. Caruso è stato ben più che un fenomeno commerciale. Era anche uno splendido interprete, non a caso prediletto da Puccini, che gli insegnò personalmente la parte di Rodolfo e gli concesse addirittura di abbassare l´aria di mezzo tono.
    Su Pavarotti, ha ragione Giulia. Chi, come noi, ha ascoltato in teatro il vero Pavarotti, sa bene che non era nemmeno lontano parente di quello che faceva il buffone insieme alle pop stars.
    Come Nemorino, Rodolfo e Riccardo rimane, nei suoi anni migliori, degno di essere paragonato ai cantanti storici.

    • Ho detto ANCHE. E’ stato ANCHE un fenomeno commerciale, storicamente la sua importanza è dovuta ANCHE al fatto che fu il primo vero grande cantante a sfruttare appieno il mezzo discografico. Su Pavarotti continuo a pensare che se avesse avuto una voce qualsiasi, una voce grigia come Bergonzi, nessuno lo avrebbe minimamente considerato. Comunque sì Riccardo Rodolfo Nemorino sono tra i suoi ruoli meglio riusciti, ho riscoltato adesso l’aria dell’ultimo atto del Ballo e non è poi così male, invece mi piacciono poco gli ascolti di Pavarotti che avete messo qui nell’edission. Tra parentesi, Nemorino è forse la cosa che più mi piace di Bergonzi.

      • Ho ascoltato Pavarotti come Riccardo quattro volte dal vivo: a Venezia nel 1974, alla Scala nel 1978, a Vienna nel 1986 e a Bologna nel 1989.
        La più completa di queste quattro esecuzioni fu quella scaligera del 78 con Abbado.
        Avrei dovuto ascoltarlo già nel 72 all´Arena, ma il circolo che organizzava la trasferta scelse una recita con il secondo cast.
        Poco male, il tenore della seconda compagnia era Richard Tucker…

  4. Nonoscorderò mai quella serata. Dopo il quintetto del terzo atto si scatenò un fortissimo temporale. Come sempre, ci rifugiammo negli arcovoli aspettando le comunicazioni della direzione. Dopo una mezz’ ora venne diffuso questo annuncio: “Il tenore Richard Tucker prega il pubblico di pazientare e non andare via perchè vorrebbe portare a termine questa recita, che sarà l’ ultima della sua carriera in Italia”.
    Dopo un´ora e mezza lo spettacolo fu ripreso e terminò tra acclamazioni da delirio.
    Altri tempi, altri cantanti, ma soprattutto altri uomini!

  5. Caro Mancini, in nome della democrazia per cui chiaramente ci possono essere dei pareri opposti sempre legittimi se giustificati, certe tue considerazioni mi lasciano basito.
    Che Pavarotti dalla metà degli anni 80 si sia trasformato in un prodotto commerciale credo sia abbastanza noto e verificabile; però Pavarotti debutta nel 1961, quindi in quel ventennicinquennio precedente alla commercializzazione credo che di cose vocalmente e musicalmente pregevoli ne abbia fatto, sia per la sua voce, sia per la compagnia con cui cantava, sia per i direttori che aveva! Forse Pavarotti non fu sempre musicista, ma sicuramente è stato sempre cantante: e che cantante, caspita!
    http://www.youtube.com/watch?v=XfOp8RI7WEo&feature=autoplay&list=FLXBQl2tmBbPMBeFBWAFGf9w&lf=mh_lolz&playnext=1
    Considerare poi Pavarotti per i Pavarotti&Friends e i “Nessun Dorma” è come considerare la Ricciarelli per le apparizioni alle sagre paesane: cadute di stile ma a mio avviso non c’entrano niente con il/la cantante nel suo momento più splendente della carriera.
    Come tante e tante volte ho fatto, rinnovo l’invito di essere più analitico e meno sintetico, caro Mancini.

    • >”in nome della democrazia”
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      >”rinnovo l’invito di essere più analitico e meno sintetico, caro Mancini”
      Un disco è un prodotto commerciale, per definizione non significa che è Satana, significa che è fatto per vendere. Pavarotti è cantante che ha dato il meglio di sé sui dischi, nella comodità dello studio d’incisione, non a teatro, quindi lo reputo un cantante commerciale.

      Va bene come sillogismo o è troppo sintetico?

      Non ho mai messo in discussione la dote vocale del Pava, ne discuto però il dominio tecnico ed espressivo, che non era certo trascendentale, anche perché non c’era dietro una vera coscienza musicale.

      • “Pavarotti è cantante che ha dato il meglio di sé sui dischi, nella comodità dello studio d’incisione, non a teatro”.
        A questa frase do due risposte: una tecnica ed una accorata.
        (risposta tecnica) Pavarotti sostituì Di Stefano nella Boheme del 1963 al Covent Garden e di lì a poco la DECCA gli propose il contratto discografico. Ora, fino al Pavarotti&Friends Pavarotti ha saputo usare il disco in perfetta concomitanza con le recite in teatro per farsi la fama che ha avuto. Quindi (risposta accorata) la tua frase per me è una BAGGIANATA colossale ed ingenerosa. Non ho mai sentito Pavarotti dal vivo, ma so per certo che le tavole dei teatri le ha calcate eccome e credo che con questa frase, oltre ad offendere Pavarotti come cantante che purtroppo non c’è più, tu offenda tutte quelle persone che abbiano lavorato con lui e tutti gli spettatori che l’abbiano ascoltato, declassando le sue rappresentazioni a “pagliacciate”.
        Caro Mancini, devi stare attento coi giudizi, perché spesso ti capita di “uscire fuori” dando giudizi sintetici che dietro non hanno analisi profonde ma solo “di tutta un’erba un fascio”.
        Questa ovviamente la mia opinione!

        • Prima di rispondere in queste maniere dovresti almeno provare a capire ciò che scrivo, magari sforzandoti di leggere correttamente, sempre che tu ne sia capace.

          Non ho mai scritto che Pavarotti non cantava a teatro, ho scritto solo che il cantante era più a suo agio nello studio d’incisione, dove otteneva risultati migliori che dal vivo, dove invece io lo trovo, generalmente, un cantante qualunque con una gran voce di cui non sa bene cosa fare.

          • Fermo restando che anche nei dischi l’interprete spesso è inerte e musicalmente tutt’altro che impeccabile, salvo quando c’era una vera bacchetta a guidarlo.

  6. Ho notato che l’ascolto relativo all’aria del secondo atto di Amelia della Cerquetti, contiene invece il duetto “Teco io sto” credo con la Cerquetti stessa e Gianni Poggi.

    Considero il Ballo una delle più belle opere di Verdi: mi complimento per l’interessante analisi della Signora Grisi.

    Tra i Riccardo che preferisco annovero senza dubbio Carreras, grazie al timbro specialissimo e al fraseggio che rende tutta la passione del personaggio.

    Per quanto riguarda Amelia, mi piace ricordare, oltre alla Price, la prestazione della Gencer di Bologna nel 1961 (con unica pecca la risoluzione all’acuto del finale dell’aria del secondo atto, musicalmente davvero brutta).

  7. Complimenti alla sig.ra Grisi per l’edission ancora una volta cesellata alla perfezione. Negli ascolti però non si poteva aggiungere un Di Stefano? Per me non ve n’è un altro più passionale e innamorato. Sono d’accordo con Lei: Riccardo potrebbe benissimo essere sia un Pavarotti che un Bergonzi che un Tucker. Non mi piace molto però Picchi… Lo trovo freddo, soprattutto nell’ultima frase della romanza del III atto. La quale credo si debba cantare con ben più anima.

  8. Caro FilippoII, Picchi lo abbiamo messo apposta per fare ascoltare un cantante di serie B e, soprattutto, la direzione di Vittorio Gui. E la differenza si sente rispetto agli altri.
    Su Tucker è evidente che non concordo…il Ballo di DiStefano no, dai…urla troppo, anche di questi tempi…..hahahha
    a presto

    • Beh, forse ha ragione. L’edizione in studio del ’57 è moooolto spalancata, lo stesso Celletti disse di aver capito il sesso degli angeli da nella frase del riconoscimento di Amelia al ballo. Per me Di Stefano è migliore nell’ edizione dal vivo alla Scala. Quella del ’56, se non sbaglio, con la Stella.

  9. carissimo filippo II, che porti il nick name del meglio costruito personaggio d’opera ciao!
    a quanto detto dalla grisi c’è una piccola postilla ossia che gli ascolti che proponiamo hanno sempre come presupposto un’esecuzione tecnicamente se non perfetta quanto di qualità. sinceramente sempre e comunque, al di là del fascino timbrico (di brevissima durata) queste qualità mancano a di stefano. e’ una scelta, diciamo che ammette poche deroghe salvo che non servano per esemplificare difetti ed imposture, come abbiamo fatto recentemente con l’ascolto parallelo berganza – bartoli nella Juditha triumphas
    ciao domenico

    • Senza riferirmi ad un ruolo in particolare, io considero il primissimo – e solo il primissimo – Di Stefano un cantante di rara qualità, certamente superiore, tanto per fare un esempio, al qui proposto Pavarotti.

  10. In risposta a Donzelli: Di Stefano aveva moltissimi difetti: tecnica pressoché inesistente, vizio del fumo, scelta sbagliata di ruoli. In compenso però, una dizione impressionante, una voce baciata dal caldo sole della sua Sicilia. Ormai l’avete capito: è il mio tenore preferito!
    Come dimenticare l’ “Ingemisco” storico con Toscanini! (anche se per il tempo preferisco di gran lunga quello con De Sabata…)
    In risposta a Mancini: e proprio lo stesso Pavarotti disse che Di Stefano era il suo modello! Così come Domingo.

    • Io parlavo del primissimo Di Stefano, e su quel Di Stefano c’è poco da dire, è un cantante fenomenale, esemplare anche tecnicamente (la dizione è tecnica).

      Certo a quei livelli è durato pochissimo, fintantoché la natura – generosa – è riuscita a sopperire alla mancanza di studio ed allo stile di vita poco prudente.

  11. Ha ragione, ma la dizione, come mi pare avesse detto Celletti ne “Voce di tenore”, gli proveniva dalla nascita siciliana. Del resto anche Mario, il compagno della Divina Grisi, si diceva avesse una dizione perfetta e anche lui era meridionale.
    Il Di Stefano dei primi anni è uno dei pochi tenori che piacciono a Celletti e il critico scrisse che chiunque, come Carreras, abbia cercato di imitarlo, più che altro di imitò il periodo del declino.
    Il Di Stefano che mi piace di più è ovviamente il primo, quello del famoso “Faust” al Met, quello della “Favorita” con la Simionato. Poi dalla metà degli anni ’50 – e forse anche prima – la voce si ingrossò, quei dolci sfumati divennero falsettoni, etc. L’anima, però, non viene mai meno.

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