Le cronache di Manuel García. Trevor Pinnock a Milano – 22.11.2011

Viaggio assolutamente straordinario quello proposto e offerto al pubblico milanese dal clavicembalista Trevor Pinnock. Straordinario non solo per l’altissima qualità artistica e la solida esperienza di cui ha dato prova il musicista inglese, ma anche per eterogeneità e vastità storico – geografica dei diversi pezzi prescelti per l’occasione.
La prima parte della breve serata, seguendo una coerente sequenza cronologica, era dedicata al Rinascimento europeo: protagonisti sono dunque stati Cabezon, Tallis, Bull, Byrd e Frescobaldi, testimoni pregiati del Rinascimento musicale europeo e figure di spicco insuperabili nella riscoperta, o meglio, nella rivalutazione della musica strumentale, fino a quel momento dimenticata dal quasi totale predominio della musica vocale imperniata sul modello del canto gregoriano. Modello troppo invadente da non poter essere imitato: dunque, tratti peculiari della tradizione compositiva precedente passano senza soluzione di continuità alla musica strumentale che su questi tratti fonda la sua struttura: polifonia e cromatismo.
E proprio questi aspetti Pinnock, importante pioniere anche nella esecuzione di musica cinquecentesca, è riuscito a sottolinearli, quasi a scomporli con nitidezza cristallina, sillabando i complessi ingranaggi, smontando la struttura compositiva di ogni singolo pezzo rendendola chiara ed evidente in ogni sua minima battuta. Accanto allo strumentista vi era però pure l’interprete capace tanto di grande raffinatezza e leggerezza (“O Ye Tender Babes”, di Tallis) con una moderata e cauta intimità e lirismo, quanto di momenti concreti, energici, mai rumorosi o pesanti (“The King’s Hunt”, di Bull). Il tutto con un suono sempre pulito, senza sbavature, senza cedere mai nella noia o nell’eccessivo fragore.
Col primo Seicento di Frescobaldi, in cui già si sentono i primi echi della poetica barocca, Pinnock approda a Bach, Handel, Soler e Domenico Scarlatti, i “big” della musica per tastiera del XVIII secolo, davanti ai quali Pinnock cambia totalmente registro mantenendo inalterate le qualità prima messe in luce.
In Bach, con la Suite Francese n 5, è riuscito ha dare più spazio ad una lettura più cantabile e lirica, lontana e profondamente diversa dal asettico meccanismo contrappuntistico di Cabezon o Frescobaldi, pur mantenendo la solida e sempre chiara struttura polifonica bachiana (emblematica in questo senso la Sarabanda).
Con Handel (Suite in re minore) si passa ad uno stile più internazionale, frutto di una originalissima commistione tra stile francese, tedesco e italiano, di cui Pinnock ha accentuato del primo i ritmi di danza (allemande e gigue) con saggia energia, del secondo i geometrici fugati e dell’ultimo l’agile morbidezza della melodia.
Per concludere la serata, Domenico Scarlatti. I suoi spartiti richiedono una tecnica ferrea e solida per poter eseguire le diverse agilità, la dura ginnastica a cui viene sottoposta la corda e il continuo andirivieni sulla tastiera col divieto di uscire dalla rigida logica settecentesca che domina tutte queste composizioni che Pinnock ha affrontato con notevole dimestichezza mettendone in rilevo melodia brillante e vivace.

La grande arte del clavicembalista inglese potrebbe risultare ancora più evidente considerando l’architettura del suo strumento: le corde vengono pizzicate da plettri che nel moto di ritorno impediscono la vibrazione della corda; e non sono quindi colpite da martelletti di feltro come nel pianoforte dove determinante è invece la loro vibrazione. Questa differenza costitutiva ha delle notevoli conseguenze non solo sul timbro, la cui diversità è evidente a qualsiasi ascoltatore, ma soprattutto sul volume che nel clavicembalo è sempre costante poiché non permette l’esecuzione del piano e del forte.
Questo può provocare spessissimo una notevole piattezza e inespressività nella esecuzione dello spartito. Pinnock, con questo concerto, ha dimostrato ben altro riuscendo a esprimere, a dire qualcosa, a palesare la sua lettura personale con grande intensità e colore offrendo una serata di rara qualità artistica, tristemente inficiata dalla discutibile scelta della Chiesa di San Simpliciano, eccessivamente grande e dispersiva per uno strumento così ricco e delicato.

Manuel García

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