Verdi Edission – Nabucco

L’avventurosa genesi di Nabucco, fa ormai parte di quella leggenda verdiana che ha fatto più presa nel grande pubblico, ma che resta a mezza via tra biografia e romanzo. La storia di un Verdi abbattuto dai casi della vita (il fiasco di Un Giorno di Regno, le porte del Conservatorio di Milano sbattute in faccia, i gravi lutti familiari) e la sua decisione quasi romantica di abbandonare per sempre la musica, l’incontro fortuito con l’amico/impresario Merelli che gli ficca in tasca il libretto di Nabucco, il compositore che rincasa e sbatte sul tavolo il manoscritto, la casuale apertura dello stesso sui versi del “Va pensiero” e l’ispirazione immediata che essi suscitano, tanto da costringerlo ad aprire subito il pianoforte rimasto in silenzio per troppo tempo, è racconto tanto suggestiva quanto improbabile: smentito dai fatti documentati e dalla stessa logica. E’ poco credibile, infatti, che Verdi pensasse di sopravvivere con i soli introiti delle prime due opere in una città come Milano. E pure che si lasciasse impressionare da un fiasco – limitato ad una sola piazza, peraltro – quale pietra tombale sulla sua carriera di compositore (all’epoca l’alternanza di successo e insuccesso era parte dei rischi del mestiere)! Ma, come riporta il Budden, sono gli stessi fatti a smentire la pretesa rinuncia alla musica: già alla fine del 1840, pochi mesi dopo la caduta di Un Giorno di Regno (a dimostrazione di come quel fiasco non fosse considerato altro che normale e spiacevole incidente di percorso), Verdi aggiustava alcuni brani di Oberto, in vista di una sua ripresa alla Scala; nel gennaio del 1841, ossia un paio di mesi prima del fantomatico incontro col Merelli, si stava occupando delle prove di un nuovo allestimento della sua opera in quel di Genova. Altro che “pianoforte rimasto silenzioso”! In realtà Verdi, in età matura, volle ricostruire a tavolino la sua biografia, con buona dose di indulgenza, fantasia e immodestia: gli piacque, in particolare, circondare l’inizio della sua carriera, di sfumature leggendarie, quasi “eroiche”, raccontandosi come “uomo del popolo” che, a dispetto del mondo accademico, dei critici e pure del destino “cinico e baro”, riuscì ad emergere senza dover rendere grazie a nessuno. Ecco perché nel 1879 racconterà a Giulio Ricordi la storia del Merelli, del manoscritto di Solera e dei versi che gli avrebbero cambiato la vita. Ma aldilà delle ricostruzioni postume e delle versioni più o meno rivedute e corrette della vicenda, davvero con il Nabucco inizia la carriera operistica di Verdi: una delle più straordinarie dell’800 musicale europeo. La sera del 9 marzo 1842, il pubblico della Scala di Milano, assiste ad un’opera “diversa” dal solito melodramma artigianale di stampo rossiniano/donizettiano. E non per la mancanza di difetti, ingenuità e certa rozzezza (bisognerà aspettare almeno altri 20 anni prima che Verdi raffini la propria scrittura), ma per un linguaggio nuovo e un trattamento personalissimo delle convenzioni imperanti. Per la prima volta si profila, infatti, quel senso dell’urgenza teatrale, quella concinnitas verdiana che trova sponda ideale nella spigliatezza (a volte sbrigativa) del libretto di Solera. L’intreccio, tratto da un improbabile dramma francese del 1836 (molto conosciuto in Italia e già fonte di un balletto di Antonio Cortesi rappresentato alla Scala nell’autunno del 1838), racconta la storia d’amore tra Fenena, figlia del sovrano babilonese Nabucodonosor, imprigionata dagli Ebrei e segretamente convertita alla loro religione, con Ismaele, nipote del re di Gerusalemme. A complicare la vicenda ci pensano l’invasione babilonese, l’intransigenza del Gran Pontefice Zaccaria (capopopolo ebraico mezzo fanatico e mezzo profeta) e Abigaille, figlia adottiva di Nabucodonosor (in realtà donna di umili origini) a sua volta innamorata dell’insipido Ismaele ed esclusa, a sua insaputa, dalla successione al trono. La vicenda precipita quando, a invasione compiuta, il sovrano babilonese – in pieno delirio d’onnipotenza – si proclama egli stesso Dio, con immenso sdegno sia dei sacerdoti di Baal (che appoggiano la figlia Abigaille), sia del clero ebraico, sia di Geova in persona, che lo rende demente con un fulmine che squarcia il cielo e lo colpisce in testa: fatto fuori il re, Abigaille ha gioco facile a scalzare l’inetta sorellastra e a impossessarsi del potere (con conseguente condanna a morte di Fenena, strage di Ebrei e restaurazione del culto di Baal). Ma le cose finiscono male: Nabucodonosor riacquista il senno, si converte e libera tutti, mentre Abigaille, avvelenatasi per esigenze operistiche, fa pubblica ammenda e muore, lasciando che Ismaele e Fenena vivano “felici e contenti”. Pur con tutte le inevitabili ingenuità (ma l’orginale è pure peggio: basti dire che Fenena, ad un certo punto muore e viene “resuscitata” da un miracolo) e l’onnipresenza del fantasma del Mosé rossiniano, il testo di Solera ribalta i rapporti tipici del melodramma di ambientazione storica: la Storia diventa protagonista, lasciando i rapporti personali nello sfondo. Protagonista di Nabucco, infatti, è la sofferenza del popolo ebraico, prigioniero ed esule, oppresso dalla potenza straniera e mortificato nelle sue tradizioni e costumi. Tutto gira intorno a questo tema: la lotta per il potere, l’arroganza dell’uomo che vuole farsi Dio, l’amore irrisolto tra Fenena e Ismaele (i due personaggi più scialbi ed evanescenti dell’intero catalogo verdiano), la passione predatoria di Abigaille, il pentimento e la profezia di un futuro radioso. Tutto questo non trova corrispondenti nelle opere precedenti: almeno guardando al melodramma italiano. Questa singolarità si traduce in un linguaggio espressivo diverso, in un nuovo senso delle dimensioni e dei rapporti in cui le esigenze del dramma prevalgono sulle bellurie vocali e il rispetto delle formule. E lo si percepisce fin dall’inizio: l’opera si apre con una Ouverture di scarsa ispirazione (niente più di un centone di temi dell’opera, riarrangiati in modo bandistico e rozzo), composta all’ultimo momento su consiglio del cognato, ma che già provvede ad un clima di trascinante urgenza drammatica (il tema del “maledetto” che incalza l’ascoltatore, alternato alle volate – un po’ ingenue – del tema del “Va pensiero”). L’orchestrazione, anche se ricca di incongruenze e soluzioni semplicistiche, non concede momenti morti e rivela, se non una tecnica particolarmente raffinata, un’ispirazione nuova e straordinariamente fertile (spazzando d’un colpo tutto il garbo e le buone maniere della scrittura di Donizetti e Bellini). C’è da dire che, a volte, questa carica viene un tantino enfatizzata da direttori che scambiano la bacchetta per la sciabola del Generale Cadorna, ma non si può negare l’efficacia “barricadera” di molti episodi (si era in pieno risorgimento, con i primi moti d’indipendenza e le prime teorizzazioni compiute di un patria comune italiana). Il grande protagonista dell’opera, però, in conseguenza della centralità del tema dell’oppressione del popolo, resta il coro: motore della vicenda e fulcro attorno a cui si svolgono i numeri musicali. Già il brano che accompagna l’alzata del sipario “Gli arredi festivi”, si differenzia nettamente dagli episodi corali contenuti nell’ortografia delle Introduzioni tipiche del melodramma. Qui gli Ebrei – uomini, donne, vecchi, sacerdoti, soldati – sono racchiusi nel Tempio in attesa del precipitare degli eventi: non più un episodio ornamentale che fa da contrappunto a cavatine e strette, ma un episodio complesso e lungo che non si limita a ripetere frasi cadenzali, ma attraverso combinazioni timbriche e variazioni melodiche ha una vera natura espressiva. Il secondo episodio corale che caratterizza l’opera è, ovviamente, quello che apre la scena quarta della Parte III (l’opera, infatti, non è divisa in atti, ma in quadri ciascuno con un titolo che ne esemplifica atmosfera e contenuto: la terza, appunto, è “La Profezia”). Rossini lo definirà “una grande aria cantata da soprani, contralti, tenori e bassi” (in realtà la definizione rossiniana, apparentemente felicissima, rivela la condizione di “sopravvissuto” del suo autore: questi, infatti, incapace di cogliere i nuovi linguaggi e raccolto in una più o meno splendida cattività parigina, non poteva che concepire il nuovo con strumenti vecchi, e dunque quel coro – così diverso dalle buone regole dell’ortodossia musicale – non poteva che essere ricondotto e normalizzato in una categoria più conosciuta e accettata, l’aria). Il “Va pensiero” diventerà, forse suo malgrado, simbolo buono da sfruttare in ogni occasione (a cominciare dalla retorica risorgimentale) e sarà il prototipo dei grandi cori verdiani (e quando il Maestro morì, nel 1901, i milanesi accorsi in massa, dopo aver accompagnato in silenzio il feretro per le vie della città, lo accolsero al Cimitero Monumentale, intonando proprio  il coro del Nabucco). Di costruzione semplice (persino grossolana), con un accompagnamento fluttuante, unisce l’elegia belliniana ad un sentimento universale di tristezza (“di tutto un popolo, non di un eroe o di una eroina” scrive il Budden). Ad un livello inferiore – sia nella struttura musicale che nelle dinamiche drammatiche – stanno i sentimenti degli individui (quasi sempre, però, rapportati alla cornice generale) e con essi i singoli personaggi con le loro caratteristiche vocali (per i quali molto ci sarebbe da dire e da smitizzare). La tinta cupa e opprimente della vicenda è data, innanzitutto, dal predominio delle voci gravi (che nell’estetica melodrammatica rappresentano figure autoritarie: sovrani, sommi sacerdoti, padri): Nabucco e Zaccaria (rispettivamente baritono e basso) occupano la maggior parte degli spazi musicali. Sicuramente un gran peso, nelle scelte verdiane, l’ha avuto l’aver a disposizione Giorgio Ronconi e Prosper Dérivis, tuttavia non andrebbe enfatizzata quella che – a fronte di inevitabili modelli – appare una scelta obbligata. Interessanti, tuttavia, le modalità espressive che, nei brani solistici affidati al protagonista (in particolare il delirio alla fine della Parte II “Chi mi toglie il regio scettro?”) privilegiano il recitativo e l’arioso. Zaccaria, invece, si esprime con gli stessi toni profetici del Mosé rossiniano (anche se in versione assai più ruspante): dalla preghiera della Parte II (con uno dei più riusciti cantabili verdiani “Tu sul labbro dei veggenti”), alla profezia che chiude la Parte III, senza dimenticare la cavatina della Parte I e, soprattutto, la sua cabaletta “Come notte a sol fulgente” (già esempio compiuto della tipica formulazione cabalettistica del compositore). Più sbiaditi i personaggi di Fenena e Ismaele, quasi marginali, estranei al dramma (come fossero un pegno pagato mal volentieri alle convenzioni che ancora pretendevano l’irrinunciabile intreccio amoroso): il tenore non ha brani solistici e, dopo uno scialbo terzettino con le due dame, sparisce a riempire gli insiemi o interviene nei soli recitativi; il mezzosoprano gode di un piccolo spazio nella Parte IV (dopo un’orribile marcetta degna degli anni alla banda di Busseto) con una breve e innocua preghiera. Nell’aprile dello stesso anno, alla Fenice di Venezia, il brano venne sostituito da altro più corposo e lungo (sugli stessi versi), composto per soddisfare i capricci della Sig.ra Almerinda Granchi (come sempre in questi casi, Verdi – uomo pratico – acconsente pur controvoglia: tanto da accompagnare il pezzo inviato all’impresario, con l’autorizzazione ad abbassarlo o ad alzarlo a piacimento della Signora e alla richiesta di tempi spediti, in modo da sopperire all’inutilità drammaturgica, con una maggior spigliatezza e, conseguentemente, la minor perdita di tempo possibile). Da ultimo il personaggio di Abigaille: oggetto delle più disparate elucubrazioni in merito alla vocalità dei primi interpreti verdiani e dell’accento “autentico”, in realtà fu scritto senza il riferimento di nessun interprete. La Strepponi, infatti, fu scelta occasionale. Inutile quindi esercitarsi sulle categorie vocali confrontando il ruolo con altri scritti appositamente per la futura Sig.ra Verdi. Abigaille corrisponde solo a ciò che l’autore aveva “nella zucca”. Più della scena che apre la Parte II (la prima di una serie di topoi verdiani: dissidio tra amarezza e vendetta, potere e amore, pietà e risolutezza), vale la pena soffermarsi sulla scena della morte: una delle vette musicali e drammatiche della partitura (inspiegabile come nell’800 venisse sovente tagliata: becera tradizione sopravvissuta anche nel nostro secolo, a testimonianza di come insensibilità e ignoranza non passino mai di moda), dove al recitativo e al cantabile di Abigaille morente si alterna una curiosa orchestrazione basata su corno inglese, arpa, violoncello e contrabbasso (molto ricercata rispetto alla tinta generale), che passa dalla tonalità minore alla soluzione maggiore corrispondente alla “morte in stato di grazia” (come giustamente osserva il Budden). La redenzione finale non solo di Nabucco, ma anche della “spietata” Abigaille – illuminata dalla provvidenza divina – è essenziale per comprendere Verdi e quello che diverrà il tratto più “manzoniano” del suo linguaggio drammatico e musicale. L’opera conobbe un immediato successo e, pur tra tutti gli squilibri riscontrabili, le debolezze, le grossolanità, rappresenta qualcosa di completamente nuovo nel coevo panorama musicale italiano (e finanche europeo). Da allora Nabucco sarà una presenza fissa in tutti i teatri del mondo, mantenendo intatto e attuale il suo messaggio e la sua forza. Come nelle storiche recite del 1949 a Napoli, quando, dopo il “Va pensiero”, l’entusiasmo liberatorio della gente appena uscita dalle immani sofferenze del conflitto mondiale (insieme alle rivendicazioni degli irredentisti), sembrò quasi voler certificare che la guerra era davvero finita e si poteva ricominciare, lentamente, a vivere.

 

SinfoniaThomas Schippers (1960), Vittorio Gui (1961)

Parte I – Gerusalemme

Gli arredi festiviGli arredi festivi – Gui(1961)

Sperate, o figli…D’Egitto là sui lidi…Come notte a sol fuggenteD’Egitto là sui lidi – Siepi(1960), Bonaldo Giaiotti (1972), Samuel Ramey (1995)

Fenena, o mia diletta Gino Sinimberghi, Amalia Pini & Maria Callas (1949), Giampaolo Corradi, Giovanna Fioroni & Anita Cerquetti (1960)

Lo vedeste? FulminandoCoro del Teatro Massimo di Palermo, dir. Vittorio Gui (1961)

Viva Nabucco…Tremin gl’insani…Mio furor non più costrettoCaterina Mancini, Antonio Cassinelli, Mario Binci, Gabriella Gatti, Paolo Silveri (1951), Ghena Dimitrova, Bonaldo Giaiotti, Gaetano Scano, Ida Bormida, Renato Bruson (1979)

Parte II – L’empio

Ben io t’invenni…Anch’io dischiuso un giorno…Salgo già del trono auratoMaria Callas (1949), Anita Cerquetti (1960), Ghena Dimitrova (1979)

Vieni, o Levita…Tu sul labbro de’ veggentiAntonio Cassinelli (1951), Samuel Ramey (1995)

Che si vuol? chi mai ci chiamaCoro del Teatro Massimo di Palermo, Mirto Picchi (1961)

Deh! Fratelli, perdonate…S’appressan gl’istanti
Paolo Silveri, Caterina Mancini, Antonio Cassinelli, Mario Binci, Gabriella Gatti, Albino Gaggi, Licinio Francardi, Beatrice Preziosa (1951), Cornell MacNeil, Leonie Rysanek, Cesare Siepi, Eugenio Fernandi, Rosalind Elias, Bonaldo Giaiotti, Paul Franke, Carlotta Ordassy (1960), Mario Zanasi, Elena Souliotis, Carlo Cava, Angelo Mori, Franca Mattiucci, Giovanni Amodeo, Fernando Jacopucci, Carla Vigili (1970)

S’oda or me…Chi mi toglie il regio scettro? Cornell MacNeil (1960), Mario Zanasi (1970), Renato Bruson (1979)

Parte III – La profezia

E’ l’AssiriaCoro del Teatro Massimo di Palermo, dir. Vittorio Gui (1961)

Eccelsa donna…Donna, chi sei?Gino Bechi & Maria Callas (1949), Anita Cerquetti & Dino Dondi (1960), Ghena Dimitrova & Renato Bruson (1986)

Va’ pensiero sull’ali dorate Coro del Teatro San Carlo di Napoli, dir. Vittorio Gui (1949), Coro del Teatro Massimo di Palermo, dir. Vittorio Gui (1961)

Oh, chi piange?…Del futuro nel buio discernoCesare Siepi (1960), Giorgio Tozzi (1961), Samuel Ramey (1995)

Parte IV – L’idolo infranto

Son pur queste mie membra!…Dio di Giuda…O prodi mieiCornell MacNeil (1960), Mario Zanasi (1970), Giuseppe Taddei (1973)

Va’, la palma del martirio…Oh, dischiuso è il firmamento…Su me, morente, esanimeAntonio Cassinelli, Mario Binci, Gabriella Gatti, Paolo Silveri, Caterina Mancini (1951), Anita Cerquetti (1960)

22 pensieri su “Verdi Edission – Nabucco

  1. scusa duprez ma la “frecciata” a rossini ed ai rossininani mi sembra discutibile proprio per penna tua assoluto estimatore di guglielmo tell opera dove le masse corali hanno ruolo di assoluto protagonista. e non è la prima volta e non è in francia la prima volta che ciò accade……..lo dici anche tu che zaccaria è un mosè “ruspante” io direi un mezzadro della nostra bassa e abigaille muore come tancredi e forse come elfrida di paisiello se non mi sbaglio….. insomma diamo a rossini quel che è di rossini e ai rossiniani le loro piccole soddisfazioni

    • Attendevo rimostranze :) Nessuna frecciata, pur nell’ironia che non sarebbe spiaciuta a Rossini stesso: è il diretto interessato a porsi come “sopravvissuto” di un altro mondo. Per tante ragioni non apprezzò mai i nuovi linguaggi, così diversi dal bello ideale e formale del suo modo di comporre (basta pensare al rifiuto per le note “de poitrine”, la nostalgia dei castrati, la diffidenza verso Bellini etc…). E mai si sforzò di capirli: lo si nota nelle richieste al giovane Verdi di inserimenti nelle sue opere di scene alternative ingombranti e inutili al solo fine di soddisfare i cantanti. Tornando al coro: non parlo del suo sfruttamento musicale o della sua presenza, ma della funzione che riveste e delle modalità espressive. Nel Moise, nel Siege, persino nel Tell, gli ampi squarci corali sono brani tutto sommato ornamentali, ininfluenti dal punto di vista drammatico: sono semplici elementi decorativi di contorno, non rappresentano nulla, si limitano ad una funzione descrittiva. Con Nabucco il coro diviene personaggio ed esprime autonomo linguaggio. Il “Va pensiero” sarà pure più grossolano dei cori del Tell, ma è infinitamente più espressivo. E ti parlo da estremo ammiratore del Tell.
      Poi ci sono modelli che persistono (quello del Mosé è scontato, ma non va enfatizzato), ma la morte di Abigaille con quell’insolita orchestrazione, lo sfogo nel cantabile, e l’andamento così atipico, c’entra veramente poco o nulla con il mondo rossiniano.

  2. Nabucco fu la prima opera che vidi a teatro con un bellissimo (e ancora in forma) Nucci una decina di anni fa. Ci sono particolarmente affezionato e mi ha fatto piacere leggere questo bell’intervento.
    Aspettando nel frattempo gli ascolti, propongo le due preghiere revisionate di Fenena, una scritta per la Zecchini http://www.youtube.com/watch?v=AjvkZV6L-y4 ed una appunto per la Granchi http://www.youtube.com/watch?v=KFZUSEQzbJs .
    Speriamo prima o poi di risentirle cantate! :)

    • Intendo che mentre nella formulazione originale – molto semplice e delicata – è perfettamente inserita nell’economia drammatica del luogo e del personaggio, la sua versione “ingrassata”, inutilmente colorata e brillante (con immancabili ghirigori primadonneschi), stona non poco con il resto della scena. Oltretutto, essendo Fenena personaggio decisamente marginale (e assai scialbo), l’ingombro di una vera aria comporta un immotivato ampliamento della sua rilevanza…facendo “perdere tempo” (non tanto in minuti, quanto in concentrazione) alla concinnitas verdiana: è un momento di stallo che inchioda il finale, ecco perché Verdi se ne disinteressò autorizzando a fare quel che si voleva purché lo si facesse in fretta.

  3. caro duprez
    sulla natura ornamentale dei cori dei melodrammi rossiniani dissento. senza tediare chi ha voglia di leggere, te per primo, osservo che omessi tutti i cori previsti nei titoli da te citati li ridurremmo, come durata a farse o poco più e come ampiezza e portata drammatica a storielle borghesi .
    ma vi è anche un criterio qualitativo e te lo espongo per sommi capi
    a) contraddice la tua tesi il progressivo diverso uso del coro dai primi lavori seri (Tancredi ed Aureliano) ai primi ed agli ultimi napoletani
    b) è un progressivo ampliarsi arriva ad affidare al coro interi aspetti drammatici e poetici dell’opera
    c) tralasciando il mosè (che è un oratorio cui appicciacata una storia d’amore) in semiramide l’aspetto esoterico e magico che qualifica il titolo è affidato ai cori come nel tell l’ardore patriottico e di fatto il finale secondo è affidato alle masse corali.
    se poi, questo è solo esornativo è indiscutibile che possediamo un concetto qualitativamente e quantitativamente dell’esornativo molto molto diverso.
    ciao dd

  4. Non ci intendiamo sui presupposti, caro Domenico, io non parlo di mero aspetto quantitativo (la presenza del coro nei numeri musicali), né di qualità di scrittura (anche se – per Rossini – tale aspetto specifico, andrebbe limitato al periodo francese), ma di valenza espressiva e autonomia di linguaggio. Ora, tu mi citi una serie di lavori diversi, dove la presenza del coro muta (è indubbio) senza però mai mutare valenza espressiva. Nel Nabucco o nei Lombardi, il coro (magari trattato con rozzezza di scrittura) assume il ruolo di “personaggio”, è inserito nella vicenda ed esprime un punto di vista autonomo rispecchiato dalla musica (che tende a trasfigurarne il sentire). Lo stesso non si può dire dei coretti di Tancredi o Aureliano in Palmira o quasi tutte le opere italiane di Rossini (poco più di frasi cadenzali ripetute su di una medesima melodia: uguale a prescindere dal “significato” delle parole espresse) che fanno da mera introduzione a cavatine (secondo schemi abusati), sostengono i pertichini delle cabalette e rimpolpano i finali d’atto. Nessuna scena viene costruita sul canto del coro (neppure nel Tell: basti pensare dove sono inseriti…in corrispondenza dei ballabili, e nei finali). E pure nelle grandi scene di giuramento, preghiere e consacrazione, il coro svolge la semplice funzione di “controcanto” ai solisti. Voglio ribadire, però – evidentemente non sono stato chiaro – che non parlo di presenza quantitativa del coro, né di opere corali (Nabucco, oggettivamente non è opera corale o oratorio mascherato da opera): parlo di valore espressivo, che è cosa ben diversa. Ritenere che il trattamento verdiano del coro sia un ribaltamento dell’uso dello stesso fatto da Rossini, Bellini e Donizetti, non significa sminuire nessuno né attribuire demeriti o meriti.
    Capisco, però, che un “rossiniano” non voglia sentire meno che elogi sperticati al buon Gioachino. 😉

  5. non voglio affatto sentire elogi sperticati e non conto le battute del coro ti faccio osservare che nell’opera di rossini si passa dai cori di introduzione al singolo episodio a cori protagonisti di una scena perchè nel finale primo di semiramide, nel finale secondo di tell nella scena cd del tempio nel delirio di assur la massa corale è anch’esso persona tragica! non puoi dire con onestà che ci sia in scena qualcuno con la seconda donna o il secondo uomo che da la battuta.
    e se la tua opinione è quella che il coro per essere protagonista debba essere solo in scena perdona prima di verdi abbiamo il poveo vilipeso gaetanin di bolena, stuarda
    ciao

  6. Ma cambia la valenza espressiva Domenico! Sono ripetizioni di frasi cadenzali e, talvolta, senza variazioni melodiche! Nel Tell abbiamo cori ornamentali (all’inizio dell’opera e negli episodi dei ballabili), una scena di giuramento (dove il coro fa da controcanto ai solisti), e un’invocazione, oltre ai riempitivi dei finali d’atto. Sono splendidi? Certo. Ma non mi puoi dire oggettivamente che il “Va pensiero” non sia espressivamente tutt’altra cosa.

  7. Se mi concedi un paragone letterario caro a entrambi (Manzoni), direi che il coro verdiano ha la medesima valenza di quelli del Carmagnola o dell’Adelchi: è l’azione. In Rossini, invece, accompagna l’azione.

  8. Per quel che conta il mio parere ,concordo con Duprez,ed alle sue argomentate conclusioni penso si giunga anche soltanto con l’ascolto della registrazione della recita del Nabucco alla scala nel-se non sbaglio-1966, sotto la direzione di Gavazzeni, ma ,sopratutto grazie a Benaglio che rende protagonista doppiamente il coro.

  9. Ascolti puntuali, e inevitabili vorrei dire giacché per il ruolo di Abigaille le uniche interpreti proponibili, negli ultimi sessant’anni, son queste. Una cosa non ha mai capito: perchè la Cerquetti, voce imponente e interprete compassata ma efficace, non ha mai imparato a eseguire i trilli (e non ha mai sistemati gli estremi acuti…)

  10. in un’intervista anita cerquetti raccontava (e la circostanza mi è stata confermata da un amico dipoco più giovane della signora) che agli esordi cantava l’aria di violetta con il mi bem. io credo che ci fosse qualche difetto di impostazione ma che la cantante si compiacesse della voce assolutamente eccezionale per qualità in zona centrale e che per conseguenza gli acuti ne risentissero. un aaida di napoli 1953 o 54 infatti conferma il mio dubbio perchè il do dei cieli azzurri è una nota facile ed emessa senza le fissità che, poi, contraddistinsero la cerquetti. non dimentichiamo il super lavoro cui venne sottoposta per un lustro.

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