La Verdi Barocca: 300 anni di Rinaldo (1711-2011)

Londra, Queen’s Theatre di Haymarket, 24 febbraio 1711: con la prima rappresentazione di Rinaldo, ha inizio la fase più matura di una delle carriere più straordinarie della civiltà musicale europea. In quasi 50 anni di naturalizzazione britannica, infatti, Handel compose i suoi più grandi capolavori, prima in ambito operistico (rivoluzionando la musica anglosassone), poi – abbandonato il teatro – in ambito oratoriale. Oggi, 300 anni dopo, l’Orchestra Verdi – nella sua sezione barocca – omaggia l’importante ricorrenza, offrendo del Rinaldo una pregevolissima esecuzione in forma concertante. L’Auditorium di Milano – che già svolge un ruolo fondamentale nella vita musicale della città, essendo l’unico luogo dove poter ascoltare un’importante stagione sinfonica (degna di questo nome e non un pout-pourri di intermezzi da opera, ouverture, cori o brani del più scontato repertorio) eseguita da un’orchestra eccellente – ha da tempo ampliato la propria offerta con una sezione dedicata alla musica barocca: la Verdi Barocca, diretta con cura, competenza e amore dal bravo Ruben Jais, è una compagine di 25 solisti, che affronta su strumenti originali un repertorio che spazia da Monteverdi a Scarlatti, da Bach a Handel, da Pergolesi a Vivaldi, passando per i grandi compositori francesi, sino a Mozart e Haydn. L’ascolto rivela grande passione ed estrema coesione: la simbiosi col direttore è evidente segno di costruzione del suono (e di identità) attraverso studio comune, prove e impegno. Qualità che si percepiscono molto bene in questo Rinaldo. Opera ricchissima di preziosismi strumentali, di travolgente invenzione melodica e di estremo rigore tecnico, è un banco di prova importante per chi esegue musica barocca: l’opera handeliana, infatti, non è un semplice contenitore per i “ghirigori” di divi e divine con accompagnamento strumentale, ma vero teatro in musica fatto di arditissime sperimentazioni in cui la fusione tra canto e orchestra è non solo perseguito, ma pienamente realizzato (restando a Rinaldo, basti pensare ai sontuosi obbligati di violino, violoncello o fagotto che si intrecciano al canto nei brani solistici, oppure i tanti episodi di pittura musicale: la rappresentazione di battaglie o di incantamenti, la raffigurazione di giardini deliziosi o di placidi mari). Non a caso gli unici due compositori che Beethoven ammirava come modelli assoluti erano Cherubini e Handel (definito semplicemente “il più grande di tutti”). La Verdi Barocca, e il Maestro Jais, evidenziano pienamente la bellezza della partitura, in una ricchezza di espressione, di fraseggio, di sfumature che davvero ha pochi eguali nell’ambito di orchestre specialistiche e non. La morbidezza di certi accompagnamenti, uniti alla travolgente vitalità dei momenti più drammatici, la ricerca di un suono nervoso, ma sempre “bello”, i tempi sostenuti, ma mai affrettati, il gusto per la sfumatura e la malinconia nei passi più lirici (come la splendida sarabanda di Almirena), l’estrema varietà di accenti ed il procedere serrato senza soluzioni di continuità tra recitativo e aria tripartita, l’estremo gusto nelle variazioni e un basso continuo vitale e presente (tiorba, cembalo – che esegue uno splendido obbligato – e contrabbasso), mostrano e dimostrano come il rispetto di filologia e prassi esecutiva non comporti suoni sgradevoli, stonature e monotonia. Anche la particolare sonorità degli strumenti antichi è stata interpretata dalla Verdi Barocca come una risorsa e non un limite: il suono caldo delle corde di budello, la maggiore morbidezza dei legni, il minor riverbero dei timpani e una certa asprezza negli ottoni, sono stati sfruttati in chiave espressiva (e valorizzati dall’ottima acustica della sala). Questo Rinaldo, dunque, andrebbe ascoltato da tutti quelli che del barocco hanno l’idea burocratica e grigia di un Curtis (ad esempio) o di certi specialisti di lungo corso, così come da tutti coloro che ritengono Handel “noioso” (non un momento di stanchezza nelle 3 ore e mezza di durata dello spettacolo!). Se eccellente è stata la lettura orchestrale, pienamente soddisfacente l’esecuzione vocale (almeno presa nel suo complesso). Il cast originale della prima versione (quella del 1711 su cui si basa l’esecuzione recensita, data nella sua quasi integralità, salvo il taglio dell’intera scena delle sirene) presentava tre castrati nei ruoli di Rinaldo (il “Nicolini”), Eustazio e il Mago, un basso in quello di Argante, un contralto donna in quello di Goffredo e due soprani nei ruoli di Almirena e Armida oltre a un tenore per l’Araldo (qui cantato dall’interprete del Mago) – la versione del 1731, invece, oltre ad eliminare in toto il personaggio di Eustazio e a sostituire diverse arie, presenta un tenore nella parte di Goffredo, un contralto per Argante e Armida e un basso per il Mago, oltre a un ulteriore basso per l’Araldo. A parte il basso, dunque, è evidente una prevalenza di voci acute: proprio per questo Jais scegli di impiegare tre controtenori nei ruoli originariamente scritti per castrato, in modo da sottolineare la differente identità musicale dei vari personaggi (che, se ricondotti alle sole voci femminili – soprattutto in sede concertante, senza l’aiuto di scene e costumi – avrebbe potuto generare confusioni e monotonia). Premetto di non apprezzare particolarmente la corda controtenorile, tuttavia, aldilà di considerazioni generali circa la correttezza o meno dell’impiego di tali voci nel sostituire gli evirati cantori, anche in quest’ambito si può ben distinguere “il grano dal loglio”. Innanzitutto si evidenzia, nelle scelte della Verdi, una inusitata attenzione alla pronuncia, alla musicalità e all’intonazione: a parte il Mago di Jacopo Facchini, che mostrava qualche asprezza e difficoltà d’emissione, ho apprezzato l’Eustazio di Filippo Mineccia, dal canto sicuro e ben proiettato, saldo nelle agilità (anche di forza) e senza alcuna incertezza nell’intonazione (oltre ad una pronuncia ottima e ad un conseguentemente ottimo fraseggio); qualche riserva sul Rinaldo di David Hansen, un po’ forzato negli acuti anche se la coluratura spettacolare delle arie di furia (“Venti, turbini prestate” e “Or la tromba in suon festante”) è resa in modo ineccepibile (migliori di tanti mezzosoprani donna), peccato per l’atteggiamento un po’ “isterico” e poco eroica. Quel che colpisce favorevolmente è l’assenza di suonacci aperti e di stridori, e la cura estrema nella resa del testo, dimostrazione – anche in questo caso – di come il malcanto non sia una peculiarità esecutiva, ma un vizio dei singoli interpreti (un controtenenore può cantare bene o male, esattamente come un soprano). Molto buono l’Argante di Christian Senn: voce sontuosa e sicura, dal bel centro caldo, padroneggia la difficile aria d’ingresso (preceduta da una delle più straordinarie introduzioni del teatro handeliano) senza sfociare in suoni sguaiati o bassi sgangherati. Altrettanto buona l’Armida di Lenneke Ruiten, a cui si può imputare, forse, una certa leggerezza in una parte che richiederebbe maggiore autorità: tuttavia le agilità sono sicure e il canto è ben legato e molto espressivo (esemplari le scene degli incantamenti o in quella, meravigliosa, dove la maga si innamora di Rinaldo). Qualche problema in più, soprattutto negli estremi acuti, segna la prova di Deborah York nel ruolo di Almirena, ma  i difetti sono compensati da un buon fraseggio e da un’emissione morbida, soprattutto nei brani più elegiaci (come la sarabanda “Lascia ch’io pianga”, molto toccante e retta su bei tempi dilatati). Peccato per la pronuncia non proprio immacolata. Pregevole il Goffredo di Marina De Liso, che riesce ad evitare suoni gutturali e sgradevoli, padroneggiando abbastanza la coloratura e ben evidenziando la fierezza del personaggio. Ovviamente tutto non è impeccabile, ma – dal momento che l’opera è qualcosa di più d’una semplice somma di brani o di esibizioni individuali – la resa complessiva è decisamente buona: gran merito va tributato al “lavoro di squadra”, alla percepibile empatia tra direttore, orchestra e solisti, al “sentire comune” frutto di un lavoro condiviso. Una serata estremamente piacevole che ha meritato i lunghi applausi che hanno accompagnato il termine del concerto (il ritmo particolare della lettura orchestrale, volta ad eliminare ogni frammentazione tra aria e recitativo, rendeva impossibile l’applauso al termine dei singoli brani: con gran giovamento alla concentrazione e all’attenzione del pubblico) e che conferma l’eccellenza dell’Auditorium e delle sue orchestre, nell’offrire una programmazione varia e di grandissima qualità (suddivisa nelle sue diverse stagioni: 12 appuntamenti con la Verdi Barocca; 39 concerti sinfonici, ciascuno replicato 3 volte; oltre alla stagione cameristica e ai concerti della domenica mattina, dedicati agli autori dimenticati). Il confronto con altre istituzioni cittadine è semplicemente impietoso. Davvero a Milano, il posto peggiore dove ascoltare musica è proprio il Teatro alla Scala.

8 pensieri su “La Verdi Barocca: 300 anni di Rinaldo (1711-2011)

  1. Non posso commentare perché non conosco tanto bene il Rinaldo, né ho assistito al concerto in questione; mi hai però fatto venir voglia di approfondire! Ne approfitto anche per porti una domanda non molto profonda: cos’hanno di diverso le agilità di forza dalle agilità “normali”? Cosa si intende esattamente con l’espressione, appunto, “di forza”? Grazie e un caro saluto, Nicola

          • Si tratta di agilità emesse “con forza”, di solito nelle arie di furore: sono più sgranate e acrobatiche,

          • “Agilità di forza” per me è un po’ una brutta parola… nel canto non bisognerebbe mai sentire niente di forzato o di spinto…

            Si intende comunque l’agilità eseguita a piena voce, ben sgranata, martellata, accentata, con slancio e mordente.

          • La “forza” ci sta eccome nella musica (è pure un segno espressivo)…è lo “sforzo” che è sgradevole! 😀

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