Turandot, anzi, “Turandèt” a Bologna

La stagione operistica del teatro felsineo si è aperta nel segno dell’estremo titolo pucciniano. Apertura travagliata, sotto numerosi punti di vista.

In sede di presentazione del cartellone lirico 2012 era stata annunciata una coproduzione con il Teatr Wielki Opera Narodowa di Varsavia, protagonista Elena Pankratova. A qualche settimana dalla première veniva annunciato che la regia sarebbe stata quella di Roberto de Simone, proveniente dal Teatro Petruzzelli di Bari. Immutata la direzione d’orchestra, affidata a Fabio Mastrangelo, Consulente Musicale della Fondazione Petruzzelli. Con tutta evidenza, la presenza della bacchetta motivava la scelta dell’allestimento, e viceversa. E davvero si farebbe fatica a trovare una più perfetta corrispondenza fra quanto visto e udito, ossia fra l’allestimento plumbeo, lambiccato e didascalico (zeffirelliano in senso deteriore) e la direzione musicale, improntata a sonorità costantemente fragorose e prive di magniloquenza, con frequenti décalage fra buca, palco e retropalco (gli interventi faticosissimi del coro in quinta, segnatamente nel quadro di apertura all’ingresso delle voci infantili), una concertazione lutulenta e greve tanto nell’evocazione dell’Oriente favoloso e barbarico quanto nella descrizione delle differenti e opposte passioni di Calaf e Liù. Punto “sublime” di questa lettura il terzetto delle maschere in apertura del secondo atto, in cui Puccini rifà con eleganza sorniona il verso all’operetta: tempi letargici, ottoni spernacchianti, solisti che vanno fuori tempo al minimo stentando, nessuna brillantezza nel tempo d’attacco, nella descrizione dei pretendenti e nella chiusa della scena, morbidezza e sensualità del tutto assenti nella cantilena centrale, persino due o tre incomprensibili tagli che, del resto, abbreviano di poco la sofferenza di esecutori e pubblico.

Protagonista, in luogo della preventivata Pankratova (celermente relegata in secondo cast), Tamara Mancini, al secolo Tamara Wapinsky, soprano statunitense di vasto repertorio (quasi tutto “in preparazione” o affrontato nel ruolo di cover) e oscura carriera, trascorsa, per quel poco che è possibile apprendere dal web, nei teatri della provincia nordamericana, esordiente in Europa e nella parte della Principessa di gelo. Un’autentica sfida, insomma, che sulla carta faceva pensare a un’emula della Ponselle o della Callas.

Come recentemente dimostrato, con le parole e soprattutto con i fatti, anche dal Tempio ambrosiano, la regia è sacra, e siccome l’allestimento di de Simone prevedeva, filologicamente (!), il taglio del finale di Alfano (e di qualunque altro), chiudendosi con la morte di Liù, anche l’esecuzione bolognese si è attenuta al diktat registico, scontando alla signora Mancini una buona metà della parte.

Ciò non è stato sufficiente a evitare un monologo e una scena degli enigmi, che sarebbe eufemistico definire da principiante. La voce, modesta per cavata, più adatta a una Butterfly, tanto per restare in ambito orientale, risulta ovattata nei gravi e nel registro medio, ove accusa anche non sporadici problemi d’intonazione, mentre dai primi acuti si susseguono strilli e altri suoni inconsulti. Improprio parlare di dinamica e fraseggio: o grida o non si sente. E spesso non si sente comunque, perché con una simile assenza di tecnica vocale è impossibile, pur strillando, oltrepassare la poderosa orchestra pucciniana.

Analoghi problemi presenta Yonghoon Lee quale Calaf. La voce, di lirico puro alle prese con una parte che richiederebbe almeno un lirico spinto, è sistematicamente in gola, risultando poco consistente all’ottava bassa, ove spesso sconfina nel parlato, meno evanescente al centro, ma solo a prezzo di mezzucci e trucchi di bassa lega (i suoni sulla zona del passaggio emessi sulla “e”, qualunque sia il testo da pronunciare – e forse non per caso l’opera viene proposta senza gli ormai tradizionali sovratitoli!), in acuto sistematicamente “indietro” e di conseguenza povera di squillo, ma anche di colori e incapace di legare i suoni in tutta la gamma. Viene da pensare che in una delle maggiori agenzie del mondo dell’opera, dalla quale provengono i due suddetti, non vi sia nessuno in grado di distinguere il canto amatoriale da quello professionistico.

Accanto a siffatti colleghi è ovvio e scontato che ottenga un piccolo trionfo Karah Son, che come Liù affronta se non altro un ruolo alla portata della propria natura vocale. Purtroppo il timbro agro, da soubrette, la vocina traballante perché in difetto di appoggio, la respirazione tutt’altro che sicura, che induce a spezzare le lunghe frasi dei cantabili, privano il personaggio del peso tragico che gli competerebbe, specialmente nella scena della morte.

In assenza di una protagonista adeguata o anche solo minimamente accettabile, di un tenore dignitoso, di una bacchetta all’altezza della situazione, che senso ha proporre questo titolo, per giunta incompleto e tagliuzzato? È la domanda che giriamo alla sovrintendenza bolognese. Certi, visti i “forni” riscontrati in occasione della recita domenicale, di non essere i soli a porla.

Puccini – Turandot

Atto III

Del primo pianto – Lotte Lehmann (1927)

15 pensieri su “Turandot, anzi, “Turandèt” a Bologna

  1. La regia è sacra Tonio, e basta che ci sia qualcuno che canti. Aggiornati!

    Scherzi a parte, tutto ciò che scrivi coincide perfettamente con le impressioni di noi che abbiamo seguito la diretta della prima e discusso in chat.
    Poi dicono che della tramissione radio non ci si deve fidare…
    Il fantastico curriculum della Mancini Wapinsky mostra quale hit una Donna Anna cantata a Omaha. Forse nel locale saloon?

    • Vogliamo parlare del tenore Yonghoon Lee definito in radio “Raggio di sole”, “tenore all’antica”, “tenore inedito, perchè canta come i tenori di una volta”, “Una grandiosa scoperta”…

      Lo so sembrano le deliranti e spassosissime presentazioni dei falsi trailer dei film di Maccio Capatonda! 😀

      Marianne

  2. Vabbè Marianne, sulle cinciallegre che commentano le dirette RAI bisognerebbe aprire un capitolo a parte.
    Io personalmente auspico un ritorno agli anni Settanta, quando prima di una diretta sentivi solo un annunciatore che leggeva la locandina della serata.

  3. A parte le considerazioni sul livello musicale (pessimo) di questa Turandot (rectius Turandét), noto che – da qualche anno – è invalsa l’abitudine di troncare l’opera alla morte di Liù: trovo la cosa inaccettabile! L’opera è stata completata e gode di un paio di finali Alfano, oltre a qualche goffo tentativo di finale alternativo (quello di Berio mi è sempre parso un inutile sfoggio di erudizione musicale che, se pure utilizza più musica di Puccini rispetto ad Alfano, interviene troppo nella drammaturgia del finale: oltre a calcare la mano con riferimenti e citazioni a Mahler, Debussy e Schoenberg…). Pare che anche De Simone abbia composto un suo finale…e mi vien da dire una cattiveria: forse, dal momento che non ha potuto far eseguire il suo, ha imposto di non farne eseguire nessun altro… Evidentemente le bizze non sono esclusivo appannaggio dei presunti divi!

    • Ci sono diversi sprovveduti nei forum sulla rete che, pur ammirando (!) la vocalità di questo tenore, non possono fare a meno di rilevare le evidenti storpiature nella emissione delle vocali: secondo queste anime belle, tali problemi potrebbero essere risolti semplicemente attraverso un corso di italiano. Poveri stolti.

      In verità il problema non sta nella cattiva conoscenza della lingua italiana e della sua pronuncia, ma ovviamente sta in una organizzazione vocale tremenda, ed in una tecnica di passaggio del tutto anti vocale. La voce chiaramente è tutta appoggiata in gola, con un centro spinto, largo e gonfio che rende impossibile il passaggio omogeneo al registro acuto. Quindi, per passare il tenore deve stringere la gola e schiacciare il suono in una vocale vicina alla é, così la voce non sfoga ma rimane fatalmente ingabbiata tra naso e gola. Ed ecco quindi che si realizza la contraddizione di un tenore che al centro sembra la caricatura di Franco Corelli, mentre in acuto ricorda i vagiti di un Juan Diego Florez. Faccio senza dire che in teatro questa voce gonfia ed artefatta si sente un pochino al centro per poi essere letteralmente sommersa dietro all’orchestra ogniqualvolta debba emettere un acuto. E’ un eloquente ed esemplare spaccato dei diffusi cattivi costumi canori dei nostri giorni. E non si tratta di mancanza di professionalità o di studio (gli orientali sono persone studiose e meticolose), ma di deleteria scuola: quella dei nostri conservatori, delle nostre accademie, e di tutto quel fitto sottobosco di maestri ciarlatani macellatori di voci, nelle cui mani finiscono tragicamente tanti giovani studenti, venuti in Italia per apprendere i segreti del belcanto…

  4. Riceviamo e pubblichiamo quanto segue dall’ufficio stampa dell’agenzia della signora Pankratova:

    “Il soprano Elena Pankratova è stata chiamata dal teatro Comunale di Bologna all’ultimo secondo, tant’è che il contratto di Turandot di Bologna è stato inviato a metà dicembre, ed essendo già stato ingaggiato il primo cast, il soprano è stata direttamente ingaggiata per il secondo cast”.

    Resta da chiarire per quale motivo il Teatro abbia comunicato in fase di presentazione della stagione, e stampato sul programma preliminare (di cui ho conservato copia) il nome della Pankratova, prima di avere provveduto all’ingaggio della stessa.

Lascia un commento