Dietrich Fischer-Dieskau (1925-2012). Le opinioni del Corriere della Grisi

La scomparsa di Fischer-Dieskau non può giungere prematura ed inattesa per l’età del defunto, nato nel 1925 ed in carriera dal 1947 al 1978 come cantante d’opera e sino al 1993 come concertista. Vicenda analoga a quella di Elisabeth Schwarzkopf Legge, sua sodale di carriera da multinazionale del disco e teatri annessi.E’ una di quelle perdite che le multinazionali del disco celebreranno con edizioni, riedizioni , memoriale e tutto un già più volte visto repertorio, che consentirà loro di utilizzare  quanto già pubblicato inserendovi preziosi inediti, che in previsione di memorial ed consimilia erano stati prodotti,  conservati e preservati.

L’estate passata con riferimento al defunto, esternata la mia opinione sulla di lui arte e le cospicue perplessità sulla stessa, un suo diciamo estimatore disse che Fischer-Dieskau andava preso per un attore che cantava. Risposta fulminea della figlia del mio interlocutore: “E allora perché non ha fatto l’attore?”. Potrei condividere la freddura. Si può poi attenuarla discutendo se fosse un tenore o meno, che, non risolto il problema degli acuti si fosse dato a cantare da baritono ( e aggiungo io pure da basso baritono) e che se avesse risolto quei problemi avrebbe potuto avere anche splendore vocale oltre a quello di attore e fine dicitore.Opinione che, per quanto autorevole,  non condivido affatto: Fischer-Dieskau, che ha inciso di tutto nel repertorio tedesco da Mozart a Strauss, che ha messo rilevante piede in quello italiano, appena sfiorato quello francese era un cantante limitato vocalmente, affettato come interprete per logica conseguenza dei congiunti limiti vocali e tecnici. E quando non era affettato come interprete era pure pacchiano non sapendo manovrare il fraseggio “ore rotundo” che del baritono da opera italiana ( quand’anche canti in lingua tedesca come Schwarz o Schlusnus e magari Domgraf-Fassbaender nel repertorio brillante) è il tratto saliente. Che vesta i panni di Rigoletto, Scarpia o Falstaff. La foia di dire gli faceva toccare effetti estranei al dire all’italiana soprattutto alle prese con i personaggi come Falstaff, Jago ed il barone Scarpia, che vanno prima detti e poi cantanti  (anche se Verdi disse di Maurel “pensi di meno e canti di più”). La sottigliezza di fraseggio era amministrata con suoni  falsettanti e chiocci, gli scatti di furore con suoni scomposti e mal fermi. E che la dizione fosse chiara è innegabile, ma affettato l’accento con il dubbio di una limitata padronanza della lingua italiana. Sulla tedesca circolava l’ironica battuta: “Fischer-Dieskau ha evidenziato la radice sanscrita della parola”.

Ciò non di meno fu un mito. Una presupposta alternativa alla scuola del muggito del peggio post Titta Ruffo. Guai a dirne male pena flagellazione , pubbico ludibrio, taccia di grossolanità , che si mutava in pena capitale se la censura si fosse apposta all’esecuzione di lieder, Winterreise in primis. Eppure persino alcuni suoi colleghi sulle incisioni da parte di Fischer-Dieskau del ciclo schubertiano facevano battute, come accadde a Christa Ludwig (cantante che sapeva che il Lied è una canzone e non la ragion pura pratica di Kant) in un’intervista, resa ad una testata specialistica negli anni 80, quando le chiesero se mai avrebbe inciso il ciclo schubertiano.

La cronaca dell’opera è fatta di questo. La storia di valutazioni e ripensamenti.

Requiescant in pace donec veniat optata dies.

Domenico Donzelli

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Scompare oggi Dietrich Fischer-Dieskau: scompare una voce che per quasi mezzo secolo ha fatto parte – a ben diritto – della storia dell’opera. Cantante che ha fatto della parola il centro della sua interpretazione musicale, ha affrontato un repertorio vastissimo (forse troppo), spaziando dal barocco alla musica novecentesca, con una serietà e una professionalità ammirevoli (quale che sia il giudizio sul singolo risultato). Perfezionista e dotato di non comuni capacità d’analisi ha meglio interpretato ruoli incentrati sulla musicalità del testo (e le sue potenzialità), piuttosto che quelli più legato al libero spandersi della melodia: scelta forse obbligata da una refrattarietà allo sfogo lirico, a limiti naturali e alla estraneità con la lingua. Più che riportare le discutibili incursioni nell’opera verdiana (terreno minato e risolto, quasi sempre, con un’alternarsi di manierismi sofisticati e abbandoni al facile effettismo – testimonianza di una generale incomprensione di tale repertorio, anche se talune soluzioni restano molto interessanti, come nel Rigoletto) preferisco l’interprete schubertiano, il suo Wagner severo, il Mozart tedesco (se pure un po’ troppo irrigidito), Bach, il Palestrina di Pfitzner, Cardillac di Hindemith e il Doktor Faustus di Busoni. Infine mi piace ricordare quel Ballo in Maschera (anzi Ein Maskenball) del 13 febbraio 1951 che segnò il ritorno (breve, giacché la morte sopraggiunse di lì a pochi mesi) di Fritz Busch su un podio tedesco: il Renato di Fischer-Dieskau non appare ancora minato dal manierismo e dall’affettazione dei suoi successivi Jago, Rodrigo o Macbeth, ma realizza una perfetta sintesi tra canto e parola. Parola che grazie all’uso della lingua madre (certo è cantato in tedesco) risulta ricca di sfumature e significati…e questo fa riflettere sull’ideologico rifiuto, di certuni, per le traduzioni (col risultato di rinunciare ad ottime interpretazioni per mero puntiglio).

Gilbert Louis-Duprez

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54 pensieri su “Dietrich Fischer-Dieskau (1925-2012). Le opinioni del Corriere della Grisi

  1. io l’ho sentito in un concerto scaligero dove eseguì la wintereise. fa il paio con un concerto della signora legge. per fortuna sapevo e conoscevo molto bene cantanti tedeschi come la rethberg !

  2. Stavolta sto dalla parte di Duprez. Fischer Dieskau poteva essere criticato nel repertorio italiano, ma certe cose come il suo Wozzeck, il suo Wotan del Rheingold con Karajan, l’ Amfortas dello strepitoso Parsifal di Solti e i suoi dischi di Schubert e Wolf incisi con Sviatoslav Richter appartengono di diritto alla storia dell’ interpretazione e bastano a garantire il livello dell’ artista.

  3. Di Fischer-Dieskau vorrei ricordare – oltre a quanto già scritto nel mio pezzo – i tanti elogi che lo stesso Celletti volle esprimere nei suoi confronti: dal Don Giovanni “elegante e insinuante nel canto a fior di labbra” al Rodrigo “soave, ricco di colore, appassionato ed elegante insieme, abile rifinitore” che “apre ben altri orizzonti” nel Don Carlo; dal Falstaff con “tale musicalità e tali colori dall’essere ugualmente un vocalista d’eccezione” al Rigoletto in cui “padroneggia a meraviglia il suono, i fiati, le legature, i portamenti”; dal Wolfram “magnifico” al Kurwenald “ardente, giovanile, poetico”.

    Parole che pesano, dunque e che fanno riflettere (certo Celletti non può essere accusato di ossequio ai diktat delle case discografiche), e che rilevano – accanto ai difetti che il critico non nasconde – una statura di interprete che non può essere liquidata come “abbaglio collettivo” o imposizione di abile marketing. Del resto – come ho letto in questi giorni burrascosi – “nessuno è perfetto” e “i cantanti sono esseri umani”, con pregi e difetti, aggiungo.

    Quanto all’occasione per le multinazionali di uscire con cofanetti celebrativi et similia, non credo si possa imputare al povero Fischer-Dieskau, anche perché è capitata la stessa cosa a Celibidache (anche lui non può essere accusato di connivenza con le majors) alla Sutherland, alla Sills e – pur essendo ancora viva e vegeta – alla Horne..

  4. I difetti di Fischer Dieskau erano una voce decisamente non bella, talora sgradevolmente artefatta, con contrasti di colore poco armoniosi, ed un modo di porgere la parola cantata che ho sempre trovato troppo sofisticato, per niente spontaneo e naturale, perlomeno così mi pare quando canta in italiano.

    Con ciò, nel panorama di baritoni del Dopoguerra è tra i pochi cui si possa riconoscere il merito di aver utilizzato la voce come mezzo e non come fine. E tra i tanti truci vociferatori esibizionisti, ed un dicitore intellettuale anche se manierato, preferisco il secondo: peraltro, con voce simile non avrebbe potuto fare diversamente. Certo, i miei veri riferimenti quanto ad arte del dire cantando, rimangono i Battistini ed i De Luca.

  5. Ho avuto il privilegio e la fortuna di ascoltarlo dal vivo: nei Maestri cantori come Hans Sachs, nel ciclo Winterreise, in un concerto con musiche di Schnittke e quartetto d’archi, in un altro concerto con musiche di Zemlinsky, la voce in teatro era tutt’altro che chiara, una classica voce da bass-bariton manovrata con sapienza e intelligenza tecnica sopraffine. Suoni attaccati SEMPRE dall’alto e mai da sotto, canto SUL FIATO sempre (dal pianisimo più impalpabile al fortissimo più perentorio), LEGATO PERFETTO, intonazione mostruosa, dinamica ugualmente eccezionale. In teatro, DAL VIVO; la voce andava da tutte le parti, risultando persino potente (tra le accuse, quella di essere un tenore mancato e di scarso volume). Seguendo con lo spartito alla mano non v’era una sola semicroma che non avesse esattamente il suo valore, accenti perfetti. Come attore era magnifico, ogni gesto aveva un senso, il finale dei Maestri cantori fu qualcosa di indimenticabile. Durante il ciclo schubertiano con cui più si identificò riusciva a creare in sala un’atmosfera che ho vissuto solo con altri due artisti: Karajan e Benedetti Michelangeli, con una incredibile coerenza e continuità che legava un lied all’altro, come un unico grande canto. Il fatto che sia stato ascoltato pochissimo in Italia, diciamo pure quasi per nulla, ha consentito a molti di scrivere fiumi di cazzate. Andava ascoltato e vissuto dal vivo, persino i dischi non gli rendevano del tutto giustizia. Le sue masterclasses sono un compendio di saggezza, il trionfo della consapevolezza…dove nulla è lasciato al caso.

    • Enrico, l’ho sentito parecchie volte, dal vivo come in disco. Elegante lo era di certo. Era il suo pregio maggiore. Per il resto anch’io come Donzelli ritengo che il cantante da me ascoltato sia decisamente diverso da quello da te descritto: diverso in quanto a voce, tecnica, accento ed anche fascino scenico. Sono d’accordo anche con Mancini : meglio lui che alcuni celeberrimi urlatori, ovvio. Aggiungerei a quanto detto da Mancini che poco spontaneo e naturale lo era pure quando cantava in francese ed in tedesco. Se poi Celletti ha detto questo, Blyth ha detto quello e Segalini ha detto quell’altro, pur tenendo presente l’autorevolezza delle fonti a me poco importa. Ognuno di noi ascolta con una propria sensibilita’. Per me Fischer-Dieskau rimane la De los Angeles dei baritoni, che, credimi non e’ un offesa, tutt’altro. Ma l’eleganza non e’ tutto. Rimane di lui, secondo me, uno dei migliori Pizarro della storia DEL DISCO, pur con voce non adatta al ruolo, e continuo a rimanere affascinato dal suo dolente Amfortas, e non e’ poco. Non conosco invece le sue Masterclass. Riposi in pace.

  6. Sarà forse che in Italia se ne è detto male perchè ci ha cantato poco, ma il Paese al mondo dove ho ne ho più sentito parlar con sufficienza e disincanto è la Germania… diciamo la verità, a molti DFD non piace (neanche a me)!

    • Però, Ninci, ci sono due opinioni contrapposte: entrambe legittime ed entrambe filtrate a seconda dei propri gusti musicali. Non concordo neppure con una frase di quanto scrive Domenico su DFD, ma non vedo quale scandalo possa esserci nell’esprimere un’opinione (se pure sgradita).

  7. Fischer-Diskau sicuramente uno dei quattro o cinque grandissimi del secolo; cantanti dico, vocalisti e di conseguenza interpreti. Per favore ricordare Battistini, De Luca o altri nomi che si sente fare fa semplicemente rabbrividire…………

  8. Non c’è nessuno scandalo. Io semplicemente una cosa del genere l’ho sentita dire solo nelle ultime settimane, in un crescendo che è cominciato quando, con mio grandissimo stupore, ho appreso che il canto di Fischer-Dieskau non è un canto professionale.
    Marco Ninci

    • Non voglio fare l’avvocato difensore di Domenico (non ne ha certo bisogno), però nessuno ha scritto che quello di DFD non sia canto professionale. Semplicemente Donzelli ha espresso una sua valutazione sul cantante, sottolineando ciò che – secondo la sua sensibilità musicale (che è personale, la sua, la mia e la tua) – ritiene punti discutibili dell’interprete. Critica legittima (che personalmente non condivido, ma ciò non ha rilievo alcuno): ed è bello – perché stimolante – affiancare due giudizi anche contrapposti…ed è pure inconsueto in un mondo (questo) che, soprattutto in certi luoghi della carta stampata o del web vive di assolutismi e “linee di condotta” e l’opinione contraria o viene censurata o, se tollerata, diviene lo spunto per “lezioni non richieste” o sgradevoli “prese in giro” (a tal proposito ho appena letto un’intervista su di una nota – in Italia – rivista del settore a Nucci, trattato in modo ingiusto, nelle domande, nei commenti e nella presentazione). Questa doppia lettura di DFD dimostra, ancora, come nonostante certa leggenda nera, qui da noi si possa discutere di tutto e tutti (vedi anche la questione Sutherland), laddove in altri lidi si può scherzare coi fanti, ma si devono lasciare stare i santi…

  9. se oggi avessimo un Dieskau oggi potremmo essere contenti.

    Musicalissimo, intonatissimo, canto in maschera e sul fiato come i grandi hanno insegnato, con qualche pecca nel repertorio verdiano,ma comunque resta una pietra miliare del canto lirico del 900.

  10. caro ninci sono certo che se il defunto anzichè stuccarci con le sue liderade avesse cantato tosti , rotoli, denza non avresti speso un solo istante del tuo cattedratico stupore ! per la cronaca liderade è un portiano neologismo

      • Mi pare che nel ritenere Tosti migliore di Schubert, non si parli di chi lo canta o suona, ma si fa un giudizio di valore sul musicista. Ho letto tante chiacchiere sul presunto rispetto dovuto, ad esempio, alla Sutherland, dove tu stessa hai trovato “sconveniente” una qualsiasi critica. Ecco mi sembra che Schubert meriti almeno il medesimo rispetto. Tosti può essere cantato anche da Gesù Cristo in persona, ma resta musicalmente – e con licenza parlando – “merda”!

        • Sinceramente non capisco perchè perchè da un lato per rafforzare la propria opinione critica su Fischer-Dieskau si debba tirare in ballo addirittura Schubert e sostenere che Tosti sia “ben altra cosa” rispetto a lui (giudizio ben difficile da condividere, chi ha sentito “Die schöne Müllerin” o “Die Winterreise” non credo possa ritenerla musica inferiore a quella di Tosti, onestamente), dall’altro si dica che Tosti – buon musicista e autore a mio avviso di una musica sicuramente di ottima fattura (caro Duprez “Ideale”, “La Serenata” o “L’ultima canzone” non sono “merda”), ma sicuramente non paragonabile a quella di Schubert – sarebbe, musicalmente parlando “merda” (permettetemi, ma in Italia, nello stesso periodo, c’è di molto peggio, dal punto di vista musicale, specialmente nell’opera – con l’ovvia esclusione di Puccini). Trovo poi abbastanza stucchevole questa continua riproposizione dell’opposizione fra Lied tedesco e romanza da camera o da salotto italiana; per quanto non disdegni i vari Denza e compagnia, e anzi apprezzi molto Tosti, credo non si possa negare che il Lied presenti esempi musicalmente molto più elevati, non per una sua superiorità intrinseca come genere musicale, ma per la qualità dei musicisti che si sono dedicati alla composizione di Lieder – Mozart, Beethoven, Schubert, Brahms, Schumann, Mahler, Strauss ecc.
          Saluti

          • anch’ io ed in nome del rispetto della altrui opinione vado avanti sin che gli altri non la smettano di propagandare il lied come una forma d’arte superiore.

          • Rispondo collettivamente a Giulia, Domenico, Tamberlick e Almaviva. Bisognerebbe saper distinguere il proprio gusto spiccio da questioni musicali: non contesto certo il diritto a ritenere il lied una forma d’arte minore o di ritenere la canzone da salotto la quintessenza della meraviglia in musica, ma sostenere che Tosti, o Denza o chi volete voi, siano musicisti migliori di Schubert equivale a sostenere che Moccia o Dan Brown siano scrittori migliori di Manzoni o di Proust.

        • Duprez, per la prima e finora unica volta mi trovo in completo disaccordo con te.
          A mio avviso il Lied e la canzone da salotto a due mondi davvero poco comunicanti tra loro. Per quel che intendo io il primo tende a confrontarsi con testi e intenzioni più profonde, sposando – quanto meno in Schubert e Schumann – gli ideali romantici che si riverberano su un’architettura melodica meno squisita, forse, ma più sentita.
          La canzoni di Tosti, Donaudy etc. sono puro intrattenimento: cantano struggimenti amorosi e non hanno altro fine che la melodia che quegli struggimenti asseconda assolvendo, per intenderci, alla funzione che ha il cantante italiano nella trama del prim’atto del Rosenkavalier.
          Possono non piacere, senz’altro. Ma da qui etichettarle come, sempre con licenza scrivendo, “merda” mi sembra francamante eccessivo. Non cosidero tali, per esempio, un ciclo come le 4 canzoni di Amaranta, molto belle e nemmeno di così immediata esecuzione (prova ne sia che se ne esegue soltanto una).
          Insomma a cantarlo bene intendendolo per quello che è Tosti a me sembra splendido. E vorrei fare un’ultima considerazione di non poco conto. Forse per eseguire i Lieder occorre già saper cantare; su Tosti invece si impara e non è poco.
          Per questa ragione, per la diversità di fini e semplicemente di musica nel Lied era possibile quell’atenzione a tratti esasperata di Fischer-Dieskau per la parola; una scelta interpretativa la sua che, anche qui, può non piacere, ma fu ciò che lo fece entrare nel mito. Cercò di atrtibuire al Lied tedesco dei quarti di nobiltà che non si meritava? Può darsi, ma a mio senso in un certo qual modo vi riuscì.
          Per me è morto comuque un grande cantante, che avrei desiderato poter ascoltare dal vivo e che voglio ricordare con l’affetto di un appassionato. Un cantante nei confronti del quale forse si sono scambiati per errori tecnici i limiti naturali di una voce appartenente al novero di quelle connotate di un timbro senile, una voce che tendeva a stimbrare in acuto. Una voce abbastanza chiara, per quel che ne restituisce il disco, ma che non sono d’accordo a definire come quella di un tenore mancato. Dietrich Fischer-Dieskau stava benone nei panni del baritono anche se il suo Verdi mi sembra una riduzione per canto da camera. Che non è un giudizio critico né tantomeno un’offesa: è semplicemente diverso e personale. In Wagner lo sto riscoprendo: in questo momento sto ascoltando il suo Wotan nella grande pagine dell’addio e il suo canto è compunto e così poco incline all’atletismo vocale da restituire una raffinata interpretazione del dio nibelungico. Non ho trovato sul Tubo il suo Amfortas ma c’è il finale dei Meistersinger. Passo all’ascolto e alla prece per un altro grande che se ne va.

    • l’hanno fatto sentire anche alla radio giorni fa questo pezzo, ed avendola accesa che era già iniziato, sovrappensiero, mi chiedevo: Dio mio, ma chi è questo qua, che non riesce a girare il suono appena oltrepassa il registro? non lo passerebbero a un concorso serio!
      scusami, non voglio sembrare irriverente né verso un interprete che è scomparso né verso chi lo ascolta in buona fede ed ispirato, ma cosa ci trovi di splendido? è una bellissima voce vabbè, o meglio: una voce baritonale chiara gradevole e non caricata, naturale (ma non è una qualità strumentale!), è intonatissimo perché bravo musicista… ma il canto? l’arte del canto? qui è al 70 %, non lo senti?

      • Mah, Fabrizio…. Non so che dire… Non mi trovi d’accordo. Io sento suoni girati, ma lì gli veniva a mancare la voce che in acuto stimbrava, perdeva colore e consisteza. Più che altro la trovo un’esecuzione un filo difficoltosa: ma dieskau tutto poteva esser furoché un baritono verdiano. La sua voce non era della taglia giusta.

        • no, non è affatto una questione di mancare la voce. E’ un baritenore che non ha nessun problema di estensione, semplicemente ignora la tecnica del giro del suono (sempre ammesso che qui ci si intenda sul come si girano i suoni): “vinCE il raggio…. infonDE… amOre… mIo favor… tempEsta”, sono tutti affrontati senza tecnica, basta confrontarli anche solo con un Bastianini (che non era perfetto) …

  11. Mi piace riportare questo magnifico ricordo di Fischer-Dieskau da parte di Sylvain Fort: “Pour Madame Julia Varady.
    1945. Sur les ruines de l’Europe détruite une nouvelle fois par la rage nationaliste, une silhouette se lève. C’est un frêle jeune homme de dix-neuf ans, un Allemand de Berlin, fait prisonnier par les Américains et retenu dans un camp en Italie. Il a été enrôlé deux ans avant dans la Wehrmacht, à peine son bac obtenu. Pour les prisonniers et les réfugiés, il chante Le Voyage d’Hiver de Schubert, et Bach, Schütz. Libéré en 1947, il reprend ses études de chant à Berlin. En décembre 1947, la radio américaine fait entendre la voix juvénile et sombre du baryton : Le Voyage d’Hiver, encore. Nul ne connaît alors ce fils d’un proviseur de lycée mort avant-guerre. Le disque circule, rareté. Fischer-Dieskau enregistrera Le Voyage d’Hiver de nouveau en 1952 (avec Reutter) et en 1953 (avec sa chère Herta Klust). En 1948, l’intendant de l’Opéra, Hans Tietjen, le demande en Posa pour son Don Carlos, à la grande joie de Ferenc Fricsay. Et lorsqu’en 1949, il se produit avec Herta Klust dans La Belle Meunière de Schubert au Titania-Palast, la salle est comble : deux mille personnes pour écouter ce chanteur de vingt-quatre ans. Ce n’est pas une sensation cela, c’est une révélation.

    2012. Fischer-Dieskau est mort. Les hommages affluent. Les mêmes mots reviennent pour définir le baryton : tradition, curiosité, universalité, exemplarité. Fait singulier, il n’est pas un témoin qui ne rappelle sa première audition de Fischer-Dieskau. Tout commence toujours par un choc, par la fulgurance d’une rencontre. Brigitte Fassbaender rappelle son émotion lorsqu’elle découvrit Le Voyage d’Hiver avec Klust, matrice de sa vénération. Christa Ludwig, elle, rappelait Le Voyage d’Hiver de 1947. Elle était en troupe à Francfort alors. Cette voix lui avait fait espérer que la culture allemande pourrait vivre encore. Pour d’autres, ce furent telle Belle Meunière, tel cycle de Schumann ou de Brahms. Pour nous, ce fut Le Chant du Cygne de 1951-57 avec Gerald Moore. Là encore, révélations.

    1947-2012. Dietrich Fischer-Dieskau aura été pour nombre de mélomanes mieux qu’un chanteur : un guide. Il le disait lui-même : « j’aurai été plus professeur qu’élève ». Son ascendant ne fut pas de ceux qui glacent et dissuadent. Mais de ceux qui font voir une lumière plus pure, plus juste, et qui entraînent. Plus de soixante ans passés à écouter, découvrir, approfondir, puis à nous apprendre à écouter, à nous offrir dans un état de constant aboutissement la musique la plus ardue ou la plus secrète. Qu’on mesure bien cela : car c’est un vrai miracle.

    A la nouvelle de la mort de Fischer-Dieskau, en guise d’in memoriam personnel, nous nous sommes simplement passé un disque, pris au hasard. Ce fut le Liederkreis op.39 de Schumann, enregistré en 1954 avec Gerald Moore. Tout alors s’efface. La mythologie culturelle construite autour du chanteur, ce que nous savons de son rayonnement, l’affection, l’attachement, la dévotion disparaissent. La mort même s’absente. Fischer-Dieskau chante. Il a à peine trente ans. Et comme si jamais nous ne l’avions entendu, nous voici en arrêt. Nous croyons presque retrouver la racine de l’engouement de 1947 : avant même l’intelligence de l’interprète sidère la beauté du timbre. La plastique vocale, la moirure tantôt soyeuse tantôt métallique, la capacité de nuances apparemment infinie, et donc tout ce que cela nous apporte de présence, de chaleur, d’irrésistible communication devenant communion, voilà qui nous saisit trop profondément pour que les critiques de cette vocalité nous convainquent. Hüsch, Domgraf-Fassbaender, Schlusnus, Metternich, Janssen furent d’immenses barytons. Fischer-Dieskau parut, et du haut de ses vingt-deux ans sembla les supplanter. Fricsay disait : « je suis heureux d’avoir à Berlin un baryton italien ». Fut-ce cela ? Une lumière du Sud dans cette voix rigoureusement allemande ? Ou bien une éloquence neuve ? Un cantabile inédit ? En tout cas, Fischer-Dieskau n’a jamais fait l’économie de cette qualité matérielle de la voix. Il ne chercha pas à séduire par les seuls enjôlements du timbre, mais l’écoutant, on voulait l’écouter encore parce que sa voix plaisait, et était capable de splendeurs strictement sonores, des murmures les plus impalpables. Il y a un frisson Fischer-Dieskau. Qu’on écoute son premier Posa (en allemand), son Requiem Allemand avec Kempe, ou ses enregistrements de Verdi des années 70, et qu’on dise si le velours du timbre, son métal, la précision de l’intonation ne sont pas aussi grandes vertus que l’intelligence seule de l’interprète. Oui, on peut écouter Fischer-Dieskau pour comprendre et savoir. Mais nous l’écoutons très souvent pour le plaisir.

    L’intelligence. La culture. La science. La passion de transmettre. Fischer-Dieskau fut souvent enfermé dans cette autorité presque professorale, et l’on confondit la vérité physique, sensible, de son chant, avec l’érudition qui le guidait. Enregistrer quasi exhaustivement les lieder de Schubert, Schumann, Wolf, Brahms, Mahler, Beethoven, Schönberg, Strauss, Debussy, c’est être grand curieux. Faire savoir qu’on les enregistre quand on les sait par cœur, c’est être un phénomène. Publier des livres sur Schubert, Schumann, Wolf, Nietzsche, Wagner, sur l’histoire du chant, c’est être un cas unique parmi les chanteurs. Devenir l’interprète favori de Henze, Britten, Reimann, Stravinski, c’est être un chapitre d’histoire à soi seul. Collectionner par-dessus le marché les disques d’anciens chanteurs, les photos, les livres, les meubles, dessiner sa propre maison, diriger, peindre, exposer, enseigner, c’est être un monstre. Fischer-Dieskau fut ce monstre.

    De ce monstre, l’Europe avait besoin le jour même où il parut. Il fallait cet esprit universel, cette capacité illimitée d’apprendre, pour redonner à la musique européenne un peu de foi en elle-même. Un homme prêta sa voix à la renaissance d’un continent perdu. Il fallait sous les cendres d’Allemagne retrouver non seulement le goût, mais le sens de Bach et Schütz, de Beethoven et Schumann. A l’Autriche maudite, il fallait rendre Schubert et Wolf. Et même Mozart et Haydn. Une telle entreprise n’aurait pas souffert le dilettantisme. Fischer-Dieskau a relevé des décombres des pans entiers de la musique européenne méthodiquement, patiemment – héroïquement. Il a rendu à des pays liquidés le souvenir de ce qu’ils avaient oublié bien avant leur chute. Peut-être même cet oubli avait-il causé leur chute. Car combien de lieder de Schubert étaient inscrits aux programmes des récitals avant Fischer-Dieskau ? Quel sens pouvaient avoir ces programmes butinant çà et là pour plaire au public comparés aux blocs de marbre compacts, rebutants peut-être, mais tellement plus féconds, que Fischer-Dieskau offrirait à Berlin, Salzbourg, Vienne ?

    Cette œuvre immense fut achevée, non sans un doute constant sur la postérité de tout cela, sur le sens. Fischer-Dieskau est le point commun de tous ceux qui ont voulu contribuer à cette renaissance. Autour de lui se sont ordonnés les plus grands maîtres. Il n’a pas chanté avec Boehm, Karajan, Furtwängler, Bernstein, Fricsay, Barenboim, Sawallisch, Richter, Pollini, Brendel, Perahia, sans même mentionner ses collègues chanteurs : ce sont eux qui ont joué avec lui, pour lui. Tous l’ont dit, reconnu. Furtwängler, l’accompagnant dès 1950 dans les Quatre chants sérieux de Brahms pour un petit récital près de Salzbourg, prit immédiatement sous sa protection celui dont il avait compris le génie. Fischer-Dieskau avait besoin, professionnellement et musicalement, de cette protection. Elle lui fut accordée avec grâce, car Furtwängler avait besoin plus encore d’un témoin qui désensevelisse ce que les nazis avaient si efficacement démoli. Fischer-Dieskau se saisit de ce relais, et assuma sa mission avec une probité inouïe. Tous l’ont voulu à leurs côtés parce qu’à tous il offrait l’assurance de faire quelque chose qui dépassât les limites d’un théâtre, d’une production. Il y eut une grâce Fischer-Dieskau dont beaucoup convoitèrent une parcelle d’éclat.

    Fischer-Dieskau n’a eu que faire de plaire. Il a voulu approfondir. Il a cherché une vérité dans la beauté. Vieux principe platonicien, absolument assumé. Les élèves qu’il a formés ont en commun cette chose inaperçue : de leur art, ils n’ont pas une conception triviale. Eux aussi cherchent la vérité par l’art, et eux aussi veulent durer par cette vérité. Fischer-Dieskau leur a transmis cette énergie. Peut-être est-elle très germanique. Le fameux « sérieux » de Fischer-Dieskau (son côté « prussien ») tient à cette conviction que le plaisant, si bienvenu soit-il lorsqu’il est franc et bonhomme, peut n’être que le visage avenant de la camelote, qui elle nous tuera à coup sûr. De même l’exhaustivité voulue par Fischer-Dieskau n’était pas manie. Elle tient à son expérience personnelle : l’amnésie, l’oubli négligeant de ce que nous sommes ou d’où nous venons, fabrique les mensonges qui nous tuent. Rassembler la mémoire, la faire féconde et créatrice, c’est conjurer cet obscurantisme aujourd’hui non moins périlleux que ceux du passé. Intégrité, intégralité, c’est tout un. La démagogie est cette facilité qui nous ruine. Intellectualisme, préciosité, surarticulation : ces reproches tant entendus sont pulvérisés par la mort de Fischer-Dieskau. Il est mort ; une lumière neuve éclaire son legs. Et l’on comprend peut-être que sans cette recherche, cette manière parfois ostentatoire d’aller au fond, au bout, rien ne vaut ni dure. Ces centaines de disques qu’il a gravés, parce qu’ils ne cèdent pas au spontanéisme cher à notre temps, feront de l’usage au-delà de notre temps.

    Depuis vingt ans, il s’était tu ; sa présence tutélaire veillait. Génération après génération, il formait par le geste ou par le disque de nouveaux témoins. Il était debout au milieu d’un monde de nouveau lézardé par l’ignorance et l’impatience. Il le savait, s’en rendait compte. Il en était chagriné, et inquiet. Sa mort nous afflige parce que nous aimions ce titan modeste qui avait changé la face de notre vie ; et aussi parce qu’il était le garant de quelque chose de plus haut que nous, auquel nous n’atteindrons jamais, mais qu’il incarnait aux yeux du monde avec la pleine légitimité qu’il s’était construite. Sa présence protégeait ce à quoi nous tenons. Nul ne reprendra cette place. Essayons seulement de ne pas être trop indignes du temple que nous a bâti cet Orphée.

    Où se trouvait
    A peine une hutte pour accueillir ton chant,
    A peine un antre fait d’un désir obscur,
    Avec ce portail aux piliers vacillants,
    Tu as construit un temple au creux de leur oreille.
    (Rilke, Premier sonnet à Orphée)

    • Sinceramente non trovo il paragone poco imparziale. Che senso ha dire che Molinari era un baritono naturalmente versato a Verdi e all’opera italiana. Fischer Dieskau doveva fare i conti con una voce di tutt’altra caratura. Inferiore? Senz’altro. Ma continuo ad essere convinto che un cantanto lo si debba apprezzare al lordo delle tare della voce.
      Non so Domenico: non capisco perché si debba per forza respingere FD senza condizioni.
      Ribadendo che non era un baritono verdiano, qui non fa schifo: http://www.youtube.com/watch?v=aMdL1-ro4Cg
      Se poi vuoi dirmi che c’è di meglio, e vabbé, chi lo nega?

  12. Semplicemente perché è stato scritto in francese su Forum Opera e io non avevo tempo di tradurlo. Il francese poi mi pare una lingua a grandissima diffusione e non dovrebbe essere di ostacolo alla sua comprensione. Oltretutto la lingua è di grande bellezza ed espressività.
    Marco Ninci

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