I venerdì di G.B. Mancini: impariamo ad ascoltare. Settima puntata: Mattia Battistini nella romanza da camera italiana.

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Sì è parlato in questi giorni di Lieder e di romanze da salotto, di canto baritonale, all’italiana o meno, di “giro” della voce, passaggio, tecnica… La mia chiosa su tutti questi argomenti non poteva non contemplare l’ascolto di Mattia Battistini – senz’altro il baritono preferito dai veri appassionati del canto – in una romanza di Francesco Paoli Tosti. La difficoltà nell’eseguire questo genere di brani sta nel trovare la morbidezza, il legato, la cantabilità, i colori che esaltino l’intenso lirismo della melodia. Non mi stancherò mai di sottolineare la scolpitura della pronuncia, l’imposto vocale schietto e semplice, chiaro, senza quei camuffamenti di timbro cui ci ha assuefatti il canto baritonale degli ultimi sessant’anni, e che qualcuno oggi corre il rischio di scambiare per “impostazione lirica”, trattandosi invece solo di un rumore caricaturale, da alcuni intelligentemente definito “muggito”.   Di fatto oggi nessuno sarebbe in grado di eseguire un brano di tale modesta difficoltà con questa stessa verità di espressione, linearità del legato, facilità negli assottigliamenti dinamici. Naturalmente più d’uno storcerà il naso, in quanto le orecchie oggi non sono più abituate al vero canto, ubriacate come sono dalla rumorosa vociferazione del secondo Dopoguerra. A proposito del passaggio, del “giro” della voce, si faccia attenzione al cambiamento che avviene nell’emissione quando la voce supera il mib, per esempio sulla frase “Sì breve tacque l’ideal canzone”, dove è evidentissima la copertura del suono, l’oscuramento atto ad ingranare la corda del registro acuto. Si tratta per la verità di una leggera imperfezione, giacché questo passaggio così sottolineato inficia l’omogeneità ed imbruttisce la linea. Questo modo scolastico di eseguire il passaggio è comunque utile qui per evidenziare le dinamiche del meccanismo vocale. Peraltro, si dimentica facilmente tale imperfezione quando il cantante, proprio in virtù di questa mai trascurata attenzione alla manovra del passaggio, riesca ad esibire sull’acuto finale una tale sfacciata facilità nell’uso della messa di voce. Buon ascolto.

G.B. Mancini

37 pensieri su “I venerdì di G.B. Mancini: impariamo ad ascoltare. Settima puntata: Mattia Battistini nella romanza da camera italiana.

  1. Battistini è immenso, però come ho già detto non condivido il cellettiano irrevocabile giudizio. Muggissero pure quanto vogliate, ma pagherei per riavere Bastianini, Bechi, Protti, Sereni, Warren che non ho mai apprezzato al massimo, ma che voce… McNeill e pure Cappuccilli! 😀
    Per tacer dei baritoni di mezzo a Battistini e questi ultimi: Basiola, Inghilleri, Tagliabue, Tibbett….

    In ogni modo. L’ascolto che ci proponi oltre a valorizzare Tosti – ché io non mi stanco di dire che la cameristica da salotto viene a torto bistrattata – mostra un manuale di canto vivente. In Battistini c’è tutto: legato, fiato, posizione e altezza del suono, ultima la dizione che vien da sè se si canta bene, mezzi d’espressione, ampiezza lo spero e lo intuisco, non ultima una linea di canto a cui il buon Mattia da significato perché può farlo con la voce.
    Effettivamente sì, si sente una lievissima disomogeneità di registro su quella frase acuta per eccesso di copertura, però ci tengo a sottolineare che lì Battistini fa un suono piuttosto difficile: trattiene l’intesità del suono in un mf e su un tempo molto moderato, forse troppo (ritengo che la melodia si perda un pochettino). Altra cosa fa, per fare un confronto, Giraud nella medesima romanza, staccando un tempo più affrettato: http://www.youtube.com/watch?v=VUzT_Ll8tp8
    Qui il tenore mi sembra emetta quei sol in f, con più semplicità perché fatti sfogando la voce. Senti come sono nitidi: qui non ha bisogno di quel po’ di raccoglimento (e di sostegno) in più che serve a Battistini per ottenere l’effetto dinamico più smorzato. Il tutto però con un’agogica più povera (soprattutto nella parte più andante) e colori più stilizzati di quelli che Battistini si prende (però anche) il tempo di fare.
    Per me non si tratta dunque di una pur lieve imperfezione, ma di patente consapevolezza tecnica.

    • E’ una costante in Battistini, quella evidente sottolineatura del cambio di registro. Probabilmente non era pienamente padrone del fiato in quell’area della voce, infatti talora tende ad allargare troppo, a salire di petto, aperto, e pertanto per ovviare al problema e passare di registro deve ricorrere a questa emissione che tende improvvisamente alla U… scolasticamente non c’è niente da dire, per carità, ma è pur sempre un artificio poco bello da sentire, trattandosi di una manovra che un po’ compromette la naturalezza del canto. Insomma l’unione dei registri non era propriamente trascendentale. Il passaggio c’è e si sente molto.

      • Senti Mancini, hai postato un’esecuzione tecnicamente
        al limite della perfezione, tutto va di pari passo : emissione, dizione, colore, intenzioni, varieta’ d’accento, tensione emotiva, elevata competenza tecnica, passaggio quasi perfetto, aderenza al testo e non ultima scansione ritmica ammirevole . E sono qui’, quasi del tutto assenti, le fastidiose aperture di suono su alcune vocali che inficiano altre celebri incisioni….Non renderti e non renderci infelici cercandovi imperfezioni millesimali, goditelo e lasciacelo godere. Tanto, ufff!, quello che TU intendi per perfezione, NON ESISTE. Non volermene e rassegnati. Con affetto. (E’ tanto bello acoltare qlc eseguito in modo esemplare, perche’ farsi venir per forza il mal di testa?)

      • Ussignur, Giambattista, ma la perfetta omogeneità dei registri è una mezza chimera!
        Quel che importa è che non cambi troppo il colore, le risonanze son diverse. Il passaggio in Battistini, si sente perché si sente che i suoni son girati. E vivaddio ch’è così: è una cosa che oggi non si sente più! 😀
        Poi ripeto con la noia di un martello pneumatico: si ha sempre a che fare con una voce strumento imperfetto creato da Madre Natura e non dalla Steinway&Sons 😉

  2. E’ proprio vero, caro Mancini, che ormai il timbro di puro baritono è praticamente scomparso, confesso che io, pur adorando Battistini, non ero più abituato ne al timbro ne alla tecnica vocale e interpretativa. Mi colpisce, come hai scritto tu, il cantabile quasi sovrannaturale che egli pone in quest’aria, che acquista tutto un altro colore e poi devo lodare il perfetto legato, tecnica anch’essa ormai pressochè scomparsa (e se esistente, mascherata). Grazie di questo ascolto, che permette a tutti (abituati o meno) di conoscere o di ritrovare il vero suono del baritono. Alla prossima.

  3. vorrei però che fosse chiaro lo scopo del lavoro dell’illustre Mancini. Ìmpariamo ad ascoltare ha come dichiarato obbiettivo una sorta di educazione all’ascolto, intendendo per educazione lo sviluppo delle capacità uditive e critiche di chi legge, stimolando il dibattito. Che il cantante perfetto non esista siamo tutti d’accordo e consapevoli, esistono al piu alcune esecuzioni perfette da parte di alcuni. Mancini, tra di noi il più dotto in fatto di fonti come di aspetti pratici del canto, ha il compito di sottoporre casi, indicare aspetti positivi e limiti non con lo scopo di denigrare ma di ristimolare il dibattito sugli aspetti tecnici del canto, muovendo dalla constatazione che da più di vent’anni questa componente essenziale e costitutiva del canto lirico è del tutto trascurata e volutamente messa da parte dalla critica come dagli addetti ai lavori. Stando all’interesse suscitato sino ad oggi possiamo dire che la rubrica sta centrando il tema più cogente del presente. Ergo, rismarmiamo a Mancini le critiche sui suoi eccessi di pignoleria o altro, perchè si è semplicemnete preso un compito che per definizione lo obbliga a sottolineare anche aspetti che al lato dell’ascolto non inficiano la stima o la valutazione del cantante che prorpone.

    • Giulia, a scanso di fraintendimenti, vorrei dirti che io ho capito benissimo qual è lo scopo della rubrica e che non è punto quello di denigrare. Questo mi sembra chiaro.
      Però, permettimi di sottolineare una cosa che ritengo doverosa.
      Mancini svolge magnificamente il compito che si è preso, che come dici tu, si traduce pure nel vagliare veri e propri numi del canto indicandone pregi ma anche difetti.
      Questo non esclude però che si discuta di tecnica confrontando impressioni che magari non collimano. Ciò che è possibile, perché capire le voci non è robetta, ma un’abilità che si apprende – SE la si apprende – col tempo e faticosamente. E con decenni (non anni: decenni) di ascolti e di pratica. Ed è, credimi, nonostante qualcuno sia convinto del contrario, scienza poco cartesiana.
      Ora, quello che può cambiare tra il mio ascolto e quello di Mancini è il diverso apprezzamento di ciò che se per lui è una imperfezione, per me può essere un modo di risolvere un particolare passaggio.
      Dirselo significa intavolare una discussione.
      Non certo quasi lapidarlo ingiustamente come gli è successo per aver detto delle cose sacrosante intorno a quella particolare esecuzione della Sutherland e un paio d’altre intorno al suo canto in generale anche negli anni migliori (per un attimo è balenato pure un commento ricolmo di vili ingiurie, che avete opportunamnte moderato).

      Su queste cose spezzerò sempre una lancia in favore di Mancini.

  4. Un brano di scrittura semplice come questo sarebbe per la totalità dei baritoni attualmente in carriera ineseguibile nella tonalità proposta; almeno senza urlare. La scrittura è spesso tra le note di passaggio do-mib e solo un sistematico passaggio di registro garantisce di poter cantare a mezza voce con questa morbidezza e legato. L’ascolto proposto ci permette di sentire un timbro chiaro, pulito ma pienamente baritonale (basti ascoltare la sezione centrale alle parole “baciar potessi ancora”) forte di un emissione arrotondata (ma mai intubata) e un passaggio di registro sicuro e curato; ognuno di noi potrà fare come meglio crede il confronto con altre voci chiare, ma sbiancate e schiacciate e da un re bem in su inevitabilmente indietro. A buon ascoltator poche parole. 😉
    ps
    non so, ma a me che il passaggio si senta non da noia, in Galeffi si sente ancor di più e lo usa come un colore in più della sua tavolozza espressiva, non trovi Mancini?

  5. ho ascoltato attentamente,e mi chiedo se queste imperfezioni sul passaggio non è invece un pregio di questo cantante che riesce a risoverlo facilmente,comunque mi complimento con te Mancini,nell’acutezza delle tue osservazioni.

    • Sa dottore, ammesso e non concesso che questo cantante sia veramente Cotogni a 77 anni, quello che si sente è una voce anziana, calante, corta di fiato e ballante parecchio; tutte caratteristiche piuttosto cumuni e prevedibili a 77 anni ( e i 77 anni di allora mica di adesso), è interessante però sentire come, oltre agli evidenti problemi dell’età in quelle poche note centrali buone che rimangono, la voce sia fuori, né intubata né ingolata, chiara ma non sbiancata e per quanto il passaggio gli sia oramai ingestibile i suoni non sono aperti. Non so quanto si possa essere certi che questo cantante sia veramente Cotogni, ma se anche non lo fosse sarebbe comunque un registrazione indicativa di come si cantave prima che si cominciasse (lo vogliamo dire?) a muggire.

  6. Ringrazio Donna Giulia per l’osservazione che ha fatto in merito alla mia rubrica, e ribadisco anch’io che lo spirito di queste mie riflessioni non vuole essere quello di stroncare o incensare programmaticamente questo o quel cantante, antico o moderno che sia, ma solo evidenziare taluni aspetti anche strettamente tecnici dell’arte del canto, in maniera quanto più mi è possibile obiettiva. Ora, Battistini è uno dei miei cantanti preferiti, ne ho una grande stima sia per l’aspetto prettamente vocale, sia per l’aspetto musicale-espressivo. Pertanto è con la massima serenità che mi permetto anche di osservarne talune pecche. Si impara soprattutto osservando le imperfezioni, anche perché le sbavature di questi cantanti antichi hanno tutte una loro spiegazione, e sono quindi dettagli del massimo interesse, almeno per me.

    Enrico, l’uguaglianza dei registri una chimera? Diciamo così, i registri non sono uguali, ma il passaggio, se è risolto a regola d’arte non dovrebbe sentirsi, lo scalino dovrebbe annullarsi. Disporre di una gamma graduata e omogenea dalla prima all’ultima nota è da sempre il massimo obiettivo di chi voglia educare la propria voce al canto. Per me questa è l’unica vera pecca di Battistini, anche se è comunque istruttivo, perché si sentono bene i due meccanismi fonatori, e si avverte distintamente quel registro di “falsetto(ne)” su cui tanto si è speculato nell’ultimo mezzo secolo. Però se ascoltiamo un De Lucia o uno Schipa, avvertiamo che salendo la colonna del suono non subisce cambi di posizione. Insomma, non parlo mica di fantascienza…

    • Sì, adesso ho capito cosa intendi dire e sono ovviamente d’accordo. Però non credo che avesse poca padronanza di fiato sul passaggio. Cotogni non glielo avrebbe perdonato. Semplicemente a mio avviso preferiva cantare con centri chiarissimi al limite del suono aperto e quando saliva ricorreva a quella copertura che staccava i due registri per mantenere la posizione del suono alta e sui denti…Suppongo si trattasse di una scelta.
      De Lucia, sempre grandissimo (anche nell’Otello!), invece mi ha sempre dato l’impressione che cominciasse a passare i suoni già dal do soto il rigo.

        • A parte che in De Lucia la salita agli acuti è molto omogenea, non si avvertono particolari “passaggi” o cambiamenti di emissione… La voce sale e diventa sempre più intensa, rotonda, squillante, una colonna d’aria risonante come una tromba, almeno fino al la3.

        • Eh eh… No, no: intendo proprio dal do2! 😀
          Ma ovviamente sto parlando con linguagio figurato Giambattista: De Lucia mi sembra talmente fluido nel cambio di registro che quando vi si appresta, pare che la voce fosse già girata da un pezzo. Non so se mi spiego.
          L’immagine però non è peregrina: non so dove ne lessi o ne sentii, ma ricordo come Lauri Volpi dicesse che Cotogni facesse fare ai suoi allievi vocalizzi dall’alto in basso per insegnar loro che la posizione delle note gravi era la medesima di quella degli acuti “come se la voce fosse tutta passata fin dalla nota più bssa”. Serviva per imparare a tenere i registri grave e medio più leggeri. Battistini, Basiola e lo stesso Lauri Volpi docent.

          • Ah ok, giustissimo. Certamente funzione così, quando la voce è perfettamente posata sul fiato i registri è come se non ci fossero più, viene a formarsi una solo gamma omogenea, un unico registro. Per cui anche in basso si può sentire la leggerezza del falsetto, come se la voce già lì fosse girata, ed in alto la pienezza del petto. Sapevo anche io dei vocalizzi dall’alto vero il basso di Cotogni, effettivamente sono molto utili ad unire i registri.

  7. L’intento profondamente propositivo, giammai distruttivo, di questa rubrica è fuori discussione, nonostante l'”Affaire Sutherland”… Scherzo! (Faccina che sorride, che non so inserire!). E credo che proprio la propositività di una rubrica come questa concorra a differenziare in maniera netta il presente sito da tutti gli altri. A questo punto sarebbe davvero bello se fosse possibile postare in qualche prossima occasione l'”ascolto perfetto”, o almeno quello che Mancini ritiene possa essere il “suo ascolto perfetto”, in cui non sia rilevabile alcuna imperfezione o esitazione seppur minime. Per chi chi come me non ha le vostre competenze sarebbe davvero un omaggio graditissimo.

    • Finora ne ho già postati almeno due… La Dal Monte, anche se la stima per lei su questo sito non è condivisa, è una cantante che vocalmente fa sentire una perfezione di linea, legato, intonazione, articolazione, emissione tutta avanti. Oppure De Lucia, al di là degli arbitri musicali.

    • L’ascolto perfetto però è molto raro, perché anche se il cantante di base è perfettamente impostato, un errore vocale o musicale può sempre verificarsi. Poi dovrebbero riunirsi in un solo artista sia il vocalista sia il musicista, ed anche questa è una combinazione piuttosto rara. Comunque, basta ascoltare Schipa e quasi sempre c’è solo da imparare…

  8. Al di là della diversa interpretazione che del passo evidenziato da Mancini si può dare – eccesso di prudenza – comprensibile in una frase sillabata in zona, per un baritono, acuta? Esecuzione perfetta del passaggio di registro? – colpisce la naturalezza dell’emissione, la tecnica tanto rifinita da essere quasi impercettibile tanto lo “strumento” voce è sapientemente padroneggiato (non dimentichiamo che le incisioni dell’ottimo Battistini si collocano tutte oltre i suoi cinquant’anni, alcune anche verso i settanta e la voce suona sempre fresca e giovane), la capacità di creare un clima di rarefatta malinconia perfetto per il brano, la gestione eccellente e tanto educata da sembrare naturalissima della zona fra i do3 e il mi3 (le vocali di volta in volta sono aperte o raccolte solo in virtù della dizione, senza artificio), la prodezza finale. Insomma il magistero tecnico al servizio della fantasia interpretativa.
    E poi, mi associo a Tamberlik nella difesa della romanza da salotto. Non dimentichiamoci che Tosti raccolse gli elogi di Giuseppe Verdi, notoriamente poco generoso nel dipensare complimenti. Le melodie di Tosti sono quasi sempre felicissime per intensità e cantabilità (penso alle “Canzoni di Amaranta” ma anche a tante cose sparse); l’uso dell’armonia non è mai scontato: certo, è inserito nel gusto dell’epoca, ma non è pedissequa messa in pratica di regole accademiche: c’è, spessissimo, autentica ispirazione. L’unico punto debole di Tosti, a mio avviso, è la scrittura pianistica. Ma anche per questo c’è una spiegazione: Tosti era violinista, e molto ammirato dando fede alle testimonianze dei contemporanei; il pianoforte era per lui, come si suol dire, strumento complementare. E allora, tavolta, capita che un accompagnamento non sia proprio ispiratissimo (ma non capita forse anche in Schubert, compositore che io amo moltissimo? Ma non capita anche in Puccini? Quante volte il grande Puccini ricorre a un banale accompagnamento sincopato nelle sue opere?) Qualche anno fa Ben Heppner ha pubblicato un’antologia di melodie tostiane note e meno note, arrangiate per pianoforte e piccola orchestra: il risultato, se non fosse per l’enorme ingombro del cattivo canto di Heppner, rivela tutte le qualità della scrittura armonica e melodica di Tosti, grazie a un vestito più lussuoso.
    Credo che ci siano compositori che richiedono maggiori cure interpretative di altri perché il loro valore si mostri. Tosti è uno di questi; ma quando senti un’esecuzione come questa proposta da Mancini, o certe cose di Pinza, di De Luca, di De Lucia, di Gigli e di Kraus, ti rendi conto che chi definisce le romanze tostiane delle brutture non ha buone orecchie. E lo stesso dicasi per Denza, per Vittadini e per tanti altri compositori che sono spesso trattati da certa critica paludata con sufficienza e considerati mediocri sempre rispetto soprattutto ai compositori di Lieder tedeschi. Stesso discorso per i poeti: in fondo Schubert non ha messo in musica solo Rueckert, Goethe, Heine e così via; lo stesso Mueller della Schoene Muellerin e della Winterreise (a mio modesto avviso, grandissimi capolavori) era ben poca cosa come poeta e forse, se Schubert non lo avesse sentito affine e vicino per tematiche e non avesse deciso di vestirlo della sua splendida musica, oggi non ci ricordermmo di lui.
    Ultima notazione: la romanza da salotto italiana che, lo ripeto, vive di una sua dignità artistica che sarebbe tempo smettere di negare, è anche assai utile come esercizio e introduzione alla vocalità del melodramma italiano; come si può pensare di affrontare un cantabile donizettiano o verdiano con efficacia vocale e interpretativa se non si riesce a uscire vivi da una melodia di Tosti?

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