Il Pirata di Vincenzo Bellini – Opera Rara

Il Pirata è l’ultimo nato di casa Opera Rara: l’incisione, risalente alla primavere di due anni fa, prosegue, dopo l’interlocutoria Straniera, l’avventura dell’etichetta inglese nel catalogo belliniano. Purtroppo gli esiti sono alquanto modesti, tanto da domandarsi il senso di un’operazione siffatta. I dubbi non derivano da mero pregiudizio (ritengo che Opera Rara svolga una funzione di inestimabile valore nel tramandare repertori poco frequentati in edizioni criticamente attendibili e, al solito, dignitosamente eseguiti), né da atteggiamenti di venerazione verso un passato più o meno glorioso o, peggio, da vero e proprio culto della personalità per alcuni interpreti storici (non credo certo alla fesserie delle “sacre memorie” intangibili). Piuttosto, alla luce dell’ascolto, non trovo ragione di profondere tante energie in un prodotto del genere. Innanzitutto: perché Il Pirata? L’opera, fondamentale snodo del melodramma italiano a cavallo tra reiterazione di sorpassati modelli rossiniani e timidi tentativi “romantici”, pur non essendo “opera di repertorio” al pari di Norma o Sonnambula o Puritani (per stare al medesimo autore), neppure è opera “rara” e dimenticata: anzi, vanta una storia esecutiva (anche recente) di tutto rispetto e di indubbia fascinazione. Senza contare che la scena di Imogene è da tempo un must per grandi dive (la Callas, tra le altre, lo inseriva spesso e volentieri nei suoi concerti). Peraltro l’opera non presenta brani alternativi da esplorare o versioni inedite da approfondire: tanto che sono disponibili diverse edizioni integrali dell’opera. A poco vale l’inserimento della vera scena conclusiva (effettivamente rimasta inedita): la partitura, così come scritta da Bellini, infatti, presenta dopo la gran scena di Imogene (la grande aria “Col sorriso d’innocenza” e relativa cabaletta con cui si è sempre conclusa l’opera), una diversa “scena ultima” in cui Gualtiero, trascinato al patibolo, si getta in mare davanti agli occhi di Imogene – che sviene – tra l’orrore generale. Tre minuti scarsi di accordi cadenzali, clangore di piatti e grida di orrore del coro che difficilmente potrebbe definirsi “musica” e che Bellini – resosi conto della sua perfetta inutilità teatrale (e conscio che nessuna primadonna avrebbe accettato di vedersi attaccata questa “roba” alla propria gran scena) – si affrettò a cassare dopo la prima rappresentazione. Poca roba, dunque, per giustificare un interesse editoriale all’elegante cofanetto Opera Rara. Né, a soccorrerlo, provvede il livello dell’esecuzione: già, perché se dal punto di vista del titolo non si comprende la necessità di una nuova incisione, neppure dal punto di vista dell’interpretazione se ne afferrano le ragioni. Appare tutto chiaro sin dai primi sgraziati accordi della Sinfonia: se “il buon giorno si vede dal mattino”, quella che ci offre David Parry è davvero una pessima giornata! L’incedere è morchioso, pesante e volgare (il chiasso che producono piatti e ottoni è difficile da metabolizzare), i tempi sono impostati su di una estenuante lentezza (tanto da dover “spalmare” l’opera su tre cd), il suono orchestrale è troppo forte e sgraziato, e nessuno spazio è lasciato alla dimensione malinconica, indispensabile all’estetica belliniana (quanto diversa appare la direzione di Gavazzeni – non certo famoso per raffinatezza – o quella del compianto Viotti). Parry non è stato mai interprete particolarmente rifinito o fantasioso (e del resto non ci si aspetta da lui alcuna lettura rivelatrice), ma nelle incisioni di Rossini, Donizetti o Mercadante, se pure non apriva nuovi orizzonti, almeno non faceva danni, limitandosi a controllare con mestiere il suono orchestrale, nascosto in un anonimato che certamente non faceva onore alla professione svolta, ma neppure produceva disastri. Ultimamente qualcuno deve avergli fatto credere di essere un grande direttore, tanto da fargli reclamare uno spazio di visibilità eccessiva (rispetto ai mezzi) che tramuta la modesta professionalità di un tempo, nella parodia di un Toscanini in minore. Perfettamente in sintonia con il nuovo corso di Parry è il coro (il solitamente più corretto Geoffry Mitchell Choir) che – ignorando del tutto la pronuncia italiana e dando chiaramente contezza di non aver la più pallida idea di quel che sta cantando – pare conoscere due sole modalità espressive: il forte e il fortissimo. Tali premesse non possono che rendere la scena iniziale – con la tempesta che tanto ispirò il Verdi di Otello – una brutta serie di accordi e grida, inframezzati da ottoni fuori controllo che dell’ambientazione marina riportano alla mente solo le sirene (delle navi). Poche parole vanno spese per i cantanti. I comprimari, in perfetta tradizione Opera Rara, sembrano presi per sbaglio: pronuncia improbabile e ancor più improbabile tecnica di emissione compromettono inevitabilmente gli interventi di Itulbo, Goffredo e Adele che, proprio perché concentrati quasi esclusivamente nei passaggi di recitativo (senza brani solistici in cui “riscattarsi”), richiederebbero una attenzione particolare al fraseggio e all’articolazione della frase. In questo caso né Mark Le BrocqBrindley SherrattVictoria Simmonds paiono giustificare la presenza, nei credits del libretto d’accompagnamento (sempre elegante e ben fatto), della italian coach Maria Cleva. Improbabili anche i tre protagonisti. Il Pirata ha un personaggio centrale: Gualtiero. Ruolo scritto per Rubini all’apice della carriera e, come tutti i suoi ruoli, centrato sul registro medio alto, sul cosiddetto passaggio, e caratterizzato da lunghe frasi malinconiche ed andamento elegiaco (le caratteristiche del cantante per cui fu scritto), con passaggi di agilità molto scomodi e diverse incursioni nella “stratosfera” (persino un Mi nella stesura originale della Cavatina dell’atto I). José Bros fa quel che può, ossia poco e pare da subito in difficoltà nel gestire il registro acuto e sopracuto: certo le intenzioni vi sarebbero anche, ma l’impossibilità naturale di raggiungere con facilità i Do e i Re compromette l’intera interpretazione e i tentativi di sfumatura. Non si cerchi invano l’utilizzo del “falsettone” e ci si accontenti ora del falsetto più smaccato, ora dell’acuto sforzato. La Cavatina (tradizionalmente abbassata di un tono) e la Cabaletta (eseguita nella sua forma alternativa – non so se di mano belliniana o, più probabilmente, di un maldestro copista di Ricordi –  che semplifica le cadenze finali), appaiono difficoltose e poco sicure, decisamente meglio l’aria dell’atto II (che, invero, è più abbordabile). Inadeguato pure l’Ernesto di Ludovic Tézier: troppo grossolano e squilibrato oltre che carente nel registro acuto…senza contare i vistosi fuori tempo nei duetti e nei concertati (complice Parry) dove ciascuno pare canti con tempi differenti. Tuttavia la peggiore è l’Imogene di Carmen Giannattasio, la cui interpretretazione è compromessa da un peccato originale: la solita, abusata e sciagurata imitazione della Callas! Ora, premesso che la Giannattasio non è dotata di personalità debordante e che, dunque, tende ad ispirarsi a fonti differenti in base ai differenti ruoli (con risultati variabili), mai mi risulta fosse ricorsa alla tecnica dell’emissione ingolata (come se qualcosa ostruisse la libera uscita della voce) nel vano tentativo di riproporre certe sonorità callasiane (peraltro gestite in tutt’altro modo). Questa Imogene, in tal senso, è ancora più sfacciata di quella di Lucia Aliberti che, almeno – tolta la “patata in bocca” con cui si autocastrava – sfoggiava una musicalità nettamente superiore ed un controllo di fiato e linea vocale encomiabili al confronto. La Giannattasio, invece, non riesce a gestire i fiati (anche per colpa di tempi assurdamente lenti) e neppure mostra dimestichezza con le agilità (impastatissime nelle cabalette). Men che meno col registro acuto che conquista con grandi sofferenze. Non vale la pena, infine, soffermarsi su cadenze e variazioni e acuti interpolati: tutti immancabilmente fuori stile o inseriti nei punti sbagliati (Il Pirata è del ’27 e non del ’60). Null’altro da dire per un prodotto inutile nelle premesse e assai deludente nella realizzazione: sicuramente la peggiore incisione di Opera Rara.

Gli ascolti

Scena finale: “Oh! s’io potessi dissipar le nubi” – Maria Callas 

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69 pensieri su “Il Pirata di Vincenzo Bellini – Opera Rara

    • Ah, quindi bisogna essere del giro giusto anche per fare l’italian coach (ruolo che peraltro la signora mi sembra aver svolto egregiamente in altre incisioni opera rara, penso a Parisina)! Cmq dopo questa recensione la mia curiosità nei confronti del nuovo Pirata è sensibilmente diminuita…

      • Di solito sono assai più curate le incisioni Opera Rara, questa sembra raffazzonata: poca cura in tutto…anche il piccolo saggio nel libretto è incompleto e superficiale. Un’occasione persa.

        • si si, ma senza cantanti cosa vuoi mai curare????…..il Pirata Bros lo doveva incidere quando era in forma, e sarebbe stato cmq un tenorino ino ino…gli altri, lasciamo andare. Queste opere sono nate per dei mostri e destinate a rappresentazioni occasionali, anzi, eccezionali quando compare qualcuno eccezionale ….

          • Ero incuriosito dall’operazione “filologica” di recupero della totalità dell’opera, e speravo in una piacevole sorpresa! Anche secondo me la copertina è molto bella…

          • Stavolta non c’è proprio nessuna operazione filologica: si esegue la classica edizione Ricordi (con abbassamento di un tono della Cavatina di Gualtiero e cabaletta semplificata, senza i Re i Do e Si bemolli), si inserisce qualche brutto acuto totalmente fuori stile alla fine delle strette e si eseguono i da capo. Tutto qui: l’unica “novità” è la scena ultima…tre inutili minuti di accordi e grida d’orrore (non mi sentirei di chiamare “musica” quella roba lì) che Bellini stesso si affrettò a levare…

  1. Trovare un tenore tanto pirata vocalmente da poter cantare alla Rubini mi pare ora come ora impresa pressoché impossibile, soprattutto per l’ostinata e tutta italica paura per lo studio del falsetto (con tutte le sue varie e più o meno ortodosse tecniche); ma vedo che anche il Corriere dopo qualche anno che tento di proporre questo mio punto di vista, sta cedendo sul punto 😉 Insomma, un’aria come “Nel furor delle tempeste”, tutta giocata sui salti d’ottava (soprattutto quel punto meraviglioso: “nelle tenebre del cor”, La-Re-Re) impone necessariamente una tecnica diversa da quella sguaiata dei tenori acuti propostici pure di recente in televisione (tacere è bello). Quindi sono commenti che valgon poco, sappiamo che le cose stanno così, punto; Bellini, mio concittadino amatissimo, resta ineseguibile ora come ora. Non sono d’accordo sul fatto che il primo finale dell’opera sia poco interessante, anzi ironia massima, giusto una settimana fa ne parlavo con un amico e mi dicevo curioso di sapere perché non fosse stato mai eseguito di recente. La risposta purtroppo la date voi stessi: neanche Opera Rara riesce alla fine a staccarsi dalle edizioni Ricordi, che emergono con le loro più o meno strambe letture qua e là senza alcuno scrupolo. Io non sento dal vivo quest’opera da quasi dieci anni, in compenso ho visto tre volte il Barbiere di Rossini, che sto letteralmente cominciando a odiare.

      • Ebbene, si. Non voglio scandalizzarvi, ma dopo aver studiato la copiosa quanto incomprensibile mole di descrizioni più o meno dotte della voce di Rubini, e avendo ormai una certa conoscenza delle principali tecniche in uso dai falsettisti odierni (non parlo di qualità del mio modesto sapere, dico solo che ho parlato con molti maestri e sentito centinaia di voci), il mio avviso da tenore acuto e falsettista è che Rubini non fosse per nulla differente vocalmente parlando da un buon falsettista odierno. Sono superbamente stupito, caro Mancini, che lei non ricordi queste mie battute 😉 . È che leggo molto, ma intervengo di rado. Garcia padre ne El poeta calculista, da me spesso portato ad esempio, scrisse per sé un bel si sovracuto: non venitemi a raccontare che fosse un suono alla Lauri-Volpi (che tra parentesi è ritenuto da molti un utente del falsettone… Sentite cosa dice a Celletti contro questa tecnica)! Più si va indietro nel tempo, più aumenta l’evidenza che i falsetti rinforzati, i falsettoni, o come vogliamo chiamarli, fossero molto più usati di oggi, ma nessuno arriva alle estreme conseguenze, ossia a capire che ormai solo i falsettisti praticano per costrizione la mitica “fusione dei registri”, che non è il passaggio tardoromantico ma l’unione assai complicata dei suoni di petto con quelli di falsetto. Se arrivate finalmente ad ammettere questa evidenza improvvisamente Tosi, Mancini e pure Garcia diventano abbastanza chiari, perché tutti parlano chiaramente di due voci completamente staccate che vanno unite, non di acuti da trovare col passaggio (ed essendo tenore ho potuto verificare su di me questa che considero un’evidenza). “Credeasi misera” se non si fanno quei non-suoni alla Matteuzzi, che sono davvero fuori da ogni tradizione, non è cantabile da un tenore odierno, ma sappiamo per certo che oltre Rubini erano in tanti all’epoca a poterla cantare: ergo, sbagliamo tecnica. Del resto Rubini “suonava come un castrato”; ora, i falsettisti non suoneranno come castrati, no di certo, ma neanche Matteuzzi, o lo stesso Morino che pure azzardò certi usi, per me ancora impropri, del falsettone. Comunque, se mi è concesso strafare, da qualche anno sto lavorando per mio gusto personalissimo in vista di qualche tentativo restaurazionista, benché non ne sia all’altezza. Ma ho delle idee che voglio verificare su me stesso, prima di accettare il fatto che possano essere folli 😉 .

        • Sì sì mi ricordo che già avanzasti questa ipotesi. In tutta franchezza, per me sei completamente fuori strada. Sulla questione del falsetto o falsettone nei decenni passati si è fatta solo una gran confusione, Celletti e tutti gli altri critici di quel periodo che parlavano di tecnica vocale, per me non sono mai arrivati a comprendere fino in fondo questa questione, e anzi hanno contribuito più che altro a creare grossi equivoci.

          Quella del falsettino puro, non appoggiato, disunito dalla voce piena, è una pratica dilettantesca, anche il primo sprovveduto che passa per la strada sarebbe capace di cantare l’A te o cara o il Credeasi misera con un querulo falsettaccio. Troppo facile, oltreché brutto: è un canto che artisticamente non ha nessuna ragione di essere, e affermare che i tenori all’epoca facessero gli acuti in questo modo è una cosa che non sta né in cielo né in terra.

          Rubini come Nourrit faceva pensare ai castrati perché la sua era effettivamente una voce contraltile, da cui l’espressione tenore contraltino. E’ la classe vocale in cui avviene la congiuntura tra voci femminili e voci maschili. Cantava con la sua voce, piena ossia costituita di petto e falsetto-testa uniti mediante un uso sapiente del fiato, per cui i passaggi si appianano e la gamma è tutta omogenea senza scalini. La differenza rispetto allo stile di canto successivo è che a quel tempo non c’era ancora la consuetudine dell’oscuramento, per cui si saliva con un colore tendenzialmente bianco, con un minor peso e una posizione più alta della laringe. Il suono era più chiaro e sottile, molto penetrante, puro squillo argentino. Il registro acuto e sopracuto è inevitabilmente falsetto-testa, ma essendo saldato con il petto non è possibile riconoscerlo come tale: è tutta voce appoggiata. Non c’è una differenza di “tecnica”… la voce funziona in un modo solo e si può solo cantare bene o cantare male…. Il cambiamento è qualcosa che riguarda lo stile, e ha portato solo ad irrobustire lo spessore degli acuti, o più spesso a gridarli.

          • Non esiste, caro Mancini, il vostro “tenore contraltino”: lo dimostra il fatto che prima di David, Rubini e della generazione immediatamente successiva alla scomparsa dei castrati questa voce non esisteva, e lo conferma l’evidenza che non è esistita subito dopo, quando sono comparsi gli acuti “capponili”. Oberlin, Jose e tanti pretesi esempi furono solo tenori acuti che emettevano gli acuti estremi in falsetto, nulla più, né alcuno più crede alle storielle su Oberlin; Kowalsky in tempi più recenti sostenne del resto di essere un “contralto naturale” (!), salvo poi ammettere più francamente negli anni 2000 che i trattava di trovate commerciali concepite proprio per evitare i pregiudizi sul falsetto.
            Esiste una terribile quanto interessante lista di tenori letteralmente deceduti sul palcoscenico per aver tentato, con la vecchia tecnica, di fare acuti di petto; lo stesso Pacini nella sua autobiografia si accusa di una di queste morti (descrive pure il sangue che uscì dalla gola del tenore…), causata a suo dire da un acuto in partitura che “chiamava” quel nuovo tipo di suono. Zucker nei suoi articoli fa anche un interessantissimo elenco di tenori famosi ai primi dell’Ottocento per poter emettere singoli acuti di petto (tutti “sforzando”): si parla al più del Do sovracuto. Questa è storia, sono dati oggettivi.

            Quanto al falsetto, nessuno mai ha osato cantare con un “falsettino puro”! Forse nei cori di montagna, non so, non ne sono informato. Oggi di certo i falsettisti usiamo suoni ultrarinforzati, laringe bassa, sostegno diaframmatico… Non credo si possa cantare diversamente in falsetto, i suoni soprattutto acuti non escono proprio senza sostegno.

            Miguelfleta, che ringrazio per gli auguri, chiede che intenda per “falsettista”; mi basti dire che intendo, semplicemente, un’emissione “non tutta di petto”. Oggi non tutti i falsettisti cantano interamente di testa, come diciamo noi (e come non si dice più in Italia, dove la “testa” è lo strillo): la gran parte, al contrario, adopera in maniera più o meno rilevante la voce di petto per fare i suoni fin’anche al Fa centrale e oltre, cosa che io stesso posso fare e sovente faccio. Del resto pure Matteuzzi, chiamato da Vartolo a fare Ottone ne L’incoronazione, usò una tecnica identica, resa poco appetibile per via delle condizioni fisiche di quel grande cantante, e per il fatto ch’egli non ha mai seriamente studiato il falsetto. Analisi spettrografiche ed osservazioni materiali dimostrano come le attuali emissioni in falsetto siano del tutto sovrapponibili ai suoni dei contralti donna; il che non significa che suonino identici: cambia, ovviamente, il timbro, ed è per questo che ai grisini non piace 😉

            Concludo dicendo che se si vuole sentire qualcosa di serio sul tema dell’uso storico del falsetto si può ricorrere a youtube, dove recentemente sono comparsi numerosi video di cantori della Sistina, tra cui il bravissimo sopranista Alonzi, la cui tecnica è rimasta totalmente impermeabile agli sviluppi più o meno recenti del canto operistico (ma ci sono pure le registrazioni di Mancini, allievo di Moreschi, custodite alla discoteca di Stato, che suona come Alonzi).

  2. Intervenendo per la parte relativa al Garcia padre, ne “El poeta calculista” c’è la canzone “Yo que soy contrabandista” – di recente la prode Bartoli ci ha deliziato con la sua interpretazione, non sapendo in che altro repertorio buttarsi e quindi scroccare brani al padre quale novella Malibran – il cui finale prevede un mi4 (non so se conosci un’altra versione in cui c’è il si4, udatorbas) che è ovviamente di testa (parlando alla Garcia figlio). Peraltro, il Celletti riporta come il brano “Sì ritrovarla io giuro” dalla Cenerentola fosse in Mi e non in Do come riportato nella versione critica Ricordi. Con le salite al Mi, ricordando che il Garcia non era un contraltino, si deve per forza ammettere l’esistenza di tale registro di testa.
    Da canto mio, porto avanti una ricerca personale, assolutamente non convinto della tecnica odierna romantica di affrontare i ruoli sopradetti (a meno di voci veramente straordinarie – ossia da contraltino – come Lauri Volpi, Kraus, Gedda) e questa ricerca mi ha portato a pensare che vocalizzazioni come questa http://www.youtube.com/watch?v=vO0CDDT9zmw siano assolutamente da preferire. Vi linko duo modestissimi ed umilissimi esempi di scale a due ottave, la prima la1-la3 e la seconda mi2-mi4, in cui si sente il passaggio intorno al do4 (scusate lo scalino nella prima scala ma ci sto ancora lavorando) per poi salire di testa fino al mi4, che però non è – o dovrebbe essere – falsetto ma testa (due comportamenti laringei diversi). Il suono nella registrazione può apparire sfocato ma nella realtà è penetrante e “appuntito” http://www.youtube.com/watch?v=k-fSUdVQI5U.
    Vorrei inoltre ricordare che sempre il Garcia figlio definiva per il tenore come limiti della voce di petto la regione fino al mi3-fa#3 , come regione per il falsetto-testa dal mi3-fa#3 al do#4 e come regione per la voce di testa dal do#4 in su, con una interessantissima nota (evidentemente al passo coi tempi) della possibilità di mischiare il petto e falsetto-testa fino al do#4.

    • Il Si esiste in un punto stranissimo, mi riferisco allo pseudo-duetto tra il poeta e la moglie, segnatamente la battuta 87: http://www.harmonicorde.com/Poeta%20calculista%20PDF/Poeta%20calculista%20No%2011.pdf Nota che il duetto è giocato tra “bajo” e “tiple”, cioè tra petto tenorile, con tanto di la gravi, e falsetto. Qualcuno ha sostenuto che in realtà “tiple” andasse cantato all’ottava centrale, ma ciò non risulta né dalla scrittura (tutto in chiave di violino per entrambe le voci), né dal testo, che incede sulle stesse note per le due voci, che quindi palesemente, anche ai fini comici, andavano fatte ad ottave diverse; certo, è ammissibile una confutazione. Scrivendo dalla tablet non ho modo di ascoltare i tuoi esempi, ma prometto che rimedierò presto.

      • Guarda, mi sembra molto strano che il Garcia arrivasse addirittura ad un si4, a meno di falsetto intendo (non più testa, ma proprio falsetto) o chiaramente l’impedimento storico di non saperlo.
        Non conosco il manoscritto originale del “Poeta Calculista”, ma capita tante volte di leggere manoscritti ottocenteschi (le stampe seicentesche e i manoscritti settecenteschi hanno la buona maniera di usare ancora la chiave di tenore!) o anche copie rossiniane ottocentesche in cui la parte tenorile, annunciata in seconda pagina con i personaggi, viene scritta in chiave di violino pura: se dai uno sguardo su imslp, i manoscritti ordinati della Biblioteca Fondazione Rossini Pesaro hanno tutti questa particolarità per le parti di tenore.
        Purtroppo ci si muove in acque torbide 😉

        • @misterpapageno Personalmente non ho mai trovato prima del ‘900 chiavi di violino ottavizzate, è tutto in violino normale. Aggiungo che il repertorio di quel periodo comprende anche un Sol ed un La sovracuto, scritti segnatamente da Bellini. Senz’altro è un effetto comico, trovatemi un tenore capace di eseguirlo.

          • Quindi ciò avvalla la mia ipotesi che il Garcia non canta per niente il si4 XD ma un si3, anche se c’è da dire che pare che David arrivasse al si4!

  3. @udatorbas: Garcia mette il tenore contraltino come voce a sé, come del resto il soprano koloratur … Che sia forse una evoluzione nel tacito passaggio dalla fine del ‘700 agli inizi dell’800 ? I misteri della storia 😀 magari gli alti, i controtenori presenti nei cori, volevano ritagliarsi più spazio e diventarono tenori contraltini! Questa ultima frase è una provocazione e aberrazione storica, in quanto il Garcia stesso ammette che il contraltino ha il passaggio sul lab3, quindi è un po’ campata per aria!
    Nella “Storia del Belcanto” del Celletti viene peraltro riportato come Giovanni David andasse in falsetto o falsettone (parole del Celletti) dal la3, causando spesso insofferenza nel pubblico – questa cosa viene riportata correttamente anche su wikipedia.

      • Il fatto che Garcia lo metta a sé non significa molto: i cantanti all’epoca, lo dimostrano le partiture nonché le stesse descrizioni, tendevano ad avere voci particolarmente gravi, e non a caso il tenore rossiniano è oggi spesso e volentieri un tenore baritonale (Almaviva era un esempio di tenore amoroso scritto per Garcia padre, che scendeva più di me, è tutto dire!). Il problema è capire se queste categorie fossero o meno naturali. Io credo che in larghissima misura si tratti di finti problemi, cioè furono voci sintetizzate in un certo periodo per poi scomparire con la loro tecnica. Del resto oggi il basso buffo è un baritono tout court, il tenore eroico è un tenore drammatico, che poi di fatto è un tenore baritonale, etc., etc.. Sono categorie prive di valore pratico perché limitate nel tempo, nello spazio (solo Italia o solo Francia: è ovvio che ci sia un problema tecnico!) e negli esempi, perché si è creata una categoria per ogni voce, pretendendo di dare un’etichetta anche a voci oggettivamente sfuggenti da schemi generali (metti la Falcon…). Io ho il passaggio sul Sol#, ma non mi sono mai definito “contraltino”, benché la mia voce poco virile mi causi spiacevoli inconvenienti telefonici e mi abbia fatto guadagnare il Do grave solo dopo 4 anni di studio. Di petto la mia estensione è normalissima, arrivo al Do# sovracuto, ma detesto cantare così. Da qui, su consiglio di alcuni maestri, la decisione di darmi anche al falsetto 😉

        • C’è un assurdo logico in quello che scrivi: hai il passaggio sul sol# (di per sé già un’anomalia, ma oggi pare che ognuno debba avere la propria nota di passaggio personale…), e poi dici che arrivi di petto al do#: quindi che passaggio è che avresti sul sol# se poi sali ancora di petto???

          • Dai Mancini: intendeva dire che dal sol# fa il passaggio e poi rinforza di petto: sappiamo tutti benissimo che il do di petto non è di petto 😉
            E poi cmq, ognuno ha una sua area di passaggio, per i tenori tra il mi3 e fa#3, infatti il passaggio non è una nota, ma un’area di estensione!

  4. @udatorbas
    1) Tamagno, Lauri Volpi, Kraus, Blake, Merritt, Matteuzzi, Kunde, Florez, Brownlee, Albelo, Siragusa e via dicendo sono tutti contraltini. Il tenore classico (De Lucia, Caruso, Pertile, Gigli, Schipa ecc…) arriva a malapena al do4, perché non è in grado se non spoggiando e modificando repentinamente colore e posizione (con disgustoso effetto caricaturale) di attaccare il puro registro di testa che – come illustra Garçia – parte dal re4. I contraltini invece, dotati di corde vocali più sottili, sono in grado come le donne di appoggiare il registro di testa saldandolo alla voce piena, senza quindi scalini o discontinuità con il resto della voce, e possono salire anche alcuni toni più in alto del do (l’estensione è uguale a quella del contralto donna). Quindi il contraltino esiste eccome ed è una classe ben individuabile anche per le caratteristiche timbriche, e ti assicuro che oggi non è nemmeno così raro… Garçia lo considera giustamente come una classe a sé, con una propria precisa nota di passaggio. Il contraltino inoltre può emettere il famigerato do di petto (che è proprio di petto, non c’è bisogno di interpretare niente), ossia un osceno grido da cappone strozzato che si realizza semplicemente salendo con la voce spalancata di petto, senza effettuare sul fa# o dove preferisci il passaggio al registro acuto (storicamente detto di “falsetto”). Questa classe vocale non era utilizzata prima della generazione di cantanti a cui fai riferimento proprio perché prima si utilizzavano i castrati, poi una volta scomparsi i castrati, il loro posto fu preso dai mezzosoprani e dai contraltini.
    2) Chiunque sappia cantare emette gli acuti in FALSETTO (che prosegue poi, nelle donne, o negli uomini che riescano ad appoggiarla, nella testa), che è un registro rinforzabile ed uguagliabile perfettamente alla voce piena. Gli acuti di petto sono una porcheria antivocale, tutti fissi e stonati, fibrosi, buoni solo per rovinarsi la gola. Li fanno oggi quasi tutti i canzonettisti della musica leggera che non sanno cosa sia il giro della voce.

    3) Oberlin – che non mi dispiace affatto – cantava molto diversamente dai falsettisti di oggi. Come ben dici si trattava semplicemente di un tenore o probabilmente di un contraltino molto chiaro e leggero che riusciva salendo ad alleggerire e a reggere tessiture da contralto. Ma cantava con la sua voce naturale.

    4) I falsettisti che mi capita di ascoltare oggi, utilizzano tutti il registro di falsetto-testa staccato dal registro di petto, infatti il punto debole di queste organizzazioni vocali è sempre nella zona centro-grave dove dovrebbe subentrare il petto, registro che non possono utilizzare se non vogliono creare un grottesco effetto di doppia voce, simile allo jodel. La voce dell’uomo non è fatta per cantare in quel modo, non può dare il meglio di sé se viene così organizzata. So bene che l’uomo è in grado di imitare molto fedelmente il volume e la pienezza di una voce femminile (in acuto, con il registro di testa), ma si tratta comunque di un artificio che comporta grossi limiti e che impedisce un risultato artisticamente esemplare. Si tratta di una forzatura che comporta una timbrica sgradevole, inesistente varietà di colori e dinamica, pronuncia incomprensibile, intonazione difficile. Alcuni sono pure bravini, ma resta un artificio lontano dalla vera arte del canto. Ricordo il bando di Caccini nel primo Seicento: dalle voci finte non può nascere nobiltà di buon canto.

    • In primo luogo la prego, lasciamo perdere Caccini, Pietro della Valle, et similes, che fanno confronti disomogenei tra voci a noi completamente ignote (non abbiamo idea di come suonassero i falsetti spagnoli, né di come cantassero i primi castrati); in ogni caso il loro era un discorso tecnico-stilistico che voleva unicamente contrappore due periodi antitetici: il mondo vecchio dei falsetti con quello nuovo dei castrati. Oggi nessun falsettista stacca il petto dalla testa, non so lei a chi si riferisca. Cencic ha cantato e canta parti puramente contraltili con pesantissime discese al grave, Lazzara in Italia fa lo stesso, ed ha una voce di petto baritonale, come Galeano, di fatto un tenore acutissimo che canta molti ruoli per castrato, Lemos alterna parti contraltili a parti da tenore acuto, lo stesso Jaroussky non ha mai lasciato intravedere un minimo di stacco tra i registri. È chiaro però che se le sue conoscenze si limitano a vecchia e vecchissima scuola, Raunig, Manzotti, etc., parliamo di cose diverse.

      Ogni volta che si affronta il problema emerge questa assoluta invenzione della diversità del falsetto dalla testa, che risale all’ambiguità d’una nota a margine di Garcia. Io voglio prove fisiche effettive, siano osservazioni materiali o spettrografiche, non si può continuare nel ventunesimo secolo a perpetuare questi esoterismi, termini che significano qualcosa solo per chi li spende e comunque sganciati da ogni rilevabilità fisica. Non metto in dubbio che qualche maestro sia in grado di percepire la differenza tra questi pretesi registri, ma il fatto che questa catalogazione non funzioni nella gran parte dei casi dimostra che essa è derivata da complessioni tecniche, cioè sono “voci” innaturali che si creano o si crede siano create da un certo tipo di studio, che le farebbe “scoprire” (!). Che le cose stiano indubbiamente così è dimostrato dagli incomprensibili meccanismi con cui lei ha composto il suo elenco di possibili contraltini, mettendo assieme Merritt, noto tenore baritonale che emetteva dichiaratamente gli acuti in falsetto (non il Do, a suo dire, ma Corelli sosteneva l’esatto contrario e lo sbugiardò pubblicamente), Kunde, normalissimo tenore che faceva i sovracuti in falsetto, cosa fattibile a tutti ma chissà perché spacciata per sovrumana, Florez, che è un comune tenore leggero senza nessuna particolare capacità paranormale ed un’estensione cantabile del tutto normale, Tamagno, che non so da quale cappello sia uscito visto che non solo era nella norma tenorile, ma si definiva ed era definito tenore eroico, cioè baritonale, e fa gli acuti come li farebbe chiunque, e Lauri-Volpi, ch’è l’unico forse a potersi avvicinare alla descrizione di contraltino, categoria che lui si cucì addosso per vanteria. Insomma, il suo elenco da melomane non ha alcuna capacità definitoria della corda di tenore contraltino, e per di più lascia fuori cantanti come Gigli che competevano direttamente sullo stesso repertorio di Lauri-Volpi, esclusi, con De Lucia, solo perché usarono il falsetto! E poi oggi si sentono tanti tenori acutissimi che cantano parti da contralto senza avere un’estensione di petto così stratosferica: Rodrigo Del Pozo e Galeano non sono che esempi.

      A chiosa del fatto, e non me ne voglia a male, che i suoi siano pregiudizi, confermo quanto scritto prima: io ho il passaggio sul Sol#, e sono perfettamente in grado di “saldare” il registro di testa alla voce piena fino al Sol# sovracuto, cosa che diverte non poco la mia insegnante ed ha divertito in passato molti maestri, di cui qualcuno è arrivato pure a proporre la mitica classificazione come “contraltino”; solo che il contraltino non esiste, parola di contraltino 😉

      • Dalla descrizione che fai, udatorbas, pare tu sia un contraltino puro alla Lauri Volpi!
        Il discorso che fai sul fatto che non accetti il termine ci può anche stare (anche se personalmente lo trovo pretestuoso e inutilmente polemico) ma comunque: il Garcia è esistito; ha definito la classe vocale nel suo trattato nel 1840; e avendo una visione storica e cronologica (accettando che il 2012 sia seguente al 1840); sei un contraltino!
        A me piacerebbe molto sentire qualche tuo vocalizzo, almeno nelle due ottave fa2-fa4.

        • Mi dispiace d’aver dato l’impressione di voler essere polemico, forse è effetto della sterilità emotiva della scrittura, o della mia passionalità siciliana, della qual cosa in ogni caso mi scuso. Non sono però d’accordo nel leggere l’aggettivo pretestuoso. Su questo blog non si fa altro che sostenere la decadenza dell’arte canora, l’insipienza degli interpreti, l’ignoranza dei musicofili, e così via, ma d’altra parte si pretende di usare come metro di paragone suggestioni indefinibili come il “falsetto” che non è “testa” o sottigliezze simili passate per dogmi, di riesumare cantanti morti e sepolti su cui vengono costruiti teoremi più o meno traballanti, e soprattutto di fomentare ulteriormente le già babiloniche frammentazioni teoriche che poi, a conti fatti, sono la ragione della decadenza attuale. L’origine della nostra conversazione, che non mi pare sia mai degenerata in litigio, stava nel definire la vocalità rubiniana (questo, semmai, il “pretesto”, e non un cavillare): ora, se si persevera nel credere che si debba strillare sugli acuti, in cerca d’un non mai definito “tenore contraltino”, continuando a credere ciecamente a categorie che non stanno nel Garcia, ma sono rilette a posteriori dai moderni (il sopradescritto elenco fatto dal nostro interlocutore è davvero esemplare!), non avremo mai un nuovo Rubini! La fobia per il falsetto, il tenore “maschio” che deve arrivare almeno al Do “di petto” (il cavillo sta nello specificare che non sia di petto… È uno dei motivi abituali di litigio nei conservatorii, segno di scarsa attenzione per i dati scientifici), rendono impossibile l’esecuzione di queste parti rubiniane.

          Quanto al paragone con Lauri-Volpi, non ardisco minimamente a volermi paragonare a quel grande interprete 😉 Quel che faccio io lo può fare qualunque tenore abbia studiato in tal direzione, non sono dotato di nessuna strana complessione a livello delle corde vocali. Il fatto che non tutti lo facciano significa semplicemente che non a tutti piace farlo, perché ciascuno è figlio del suo tempo, e segue il gusto di quello in cui nasce.

          Se anche in questo commento sono sembrato polemico, nuovamente mi scuso con tutti i suoi lettori.

      • L’uomo per imitare la voce femminile ossia cantare da sopranista o contraltista deve ricorrere ad un artificio che consiste proprio nell’utilizzare il registro femminile di falsetto-testa puro, disunito dalla voce di petto. Parlo dei falsettisti artificiali, non dei rari casi di controtenori naturali, come Oberlin o come questo interessante Rodrigo del Pozo che non conoscevo prima d’oggi. Non è vero che Cencic e Jaroussky collegano il petto al falsetto, non è vero… tutt’al più ingolano il falsetto per creare un effetto simil-petto, ma l’emissione per evitare singhiozzi stile jodel è inevitabilmente tutta in falsetto-testa (soprattutto Jaroussky che in basso è inudibile, mentre l’altro in qualche modo emette al di sotto del do3 suoni di petto anche se molto ingolati).

        Falsetto e testa possono anche essere considerati sinonimi, basta mettersi d’accordo sui termini. Garçia – al cui schema io mi rifaccio – chiama il registro acuto con il nome di “falsetto-testa”, ed in tale registro individua appunto un primo tratto detto “falsetto” in cui la corda non è più convessa come nel petto ma è invece tesa e sottile, ed un secondo tratto oltre il re4 chiamato “testa”, che è la prosecuzione del falsetto, ed in cui la corda vibra solo nei lembi esterni. Questo registro è proprio delle voci femminili, per i bassi i baritoni e per molti tenori tale registro è infatti al di fuori della propria gamma naturale, e per queste voci è impossibile attaccare il registro di testa con voce piena, appoggiata e saldata al petto – ad eccezione del contraltino, che invece riesce a salire ai sopracuti senza spoggiare, in pieno registro di testa. Quello che fanno i falsettisti artificiali è ricorrere ad una emissione molto meno appoggiata, con cui riescono a sostenere il “falsetto-testa” – registro che non appartiene alla vocalità maschile piena – e ad imitare la voce femminile.

        Il tenore baritonale, quello sì che è una mera invenzione. Il baritenore va considerato come una mera astrazione… è un tipo di voce che non esiste. Esiste tutt’al più il tenore centrale alla Bergonzi, o il baritono acuto, ma il baritenore, voce fantasmagorica di baritono con acuti da castrato, NON ESISTE. O sei baritono o sei tenore. Non esiste nessun baritono capace di utilizzare i sopracuti nel canto, questa è una fantasia stravagante. Merritt era il classico contraltino (solo un contraltino può sfoggiare quei sopracuti a voce piena), con in più un centro molto corposo e versato in zona grave che gli permetteva di cantare le parti scritte per Nozzari (pure lui contraltino, anche se in declino vocale, da cui la centralità delle parti che Rossini scrisse per lui: parti centrali sì, ma non prive di vertiginose salite all’acuto, possibili solo per un contraltino). Allo stesso modo Kunde è contraltino come tutti gli altri cantanti che ho elencato, Tamagno compreso che di baritonale proprio non aveva un bel niente. Tenore eroico non significa tenore baritonale, tu ragioni con le categorie degli anni Cinquanta… E nei contraltini di paranormale non c’è proprio niente…
        Quanto alla morbida e poco squillante voce tenorile di Gigli, con quella argentina e acutissima di Lauri Volpi non c’entra proprio NIENTE.

        Dalla descrizione che fai della tua voce direi che senza dubbio sei un contraltino, e non credere di essere un caso raro… Al giorno d’oggi i teatri pullulano di queste voci. Sono voci molto estese sia in alto sia in basso e non necessariamente chiare di timbro, per cui a volte vengono classificati erroneamente come baritoni (guarda il caso di quel Bogdan Mihai per esempio, oppure Angelo Loforese, un altro contraltino, capace di emettere sopracuti ancora a novant’anni, e che iniziò la carriera come baritono!). E’ ormai raro invece trovare un vero baritono e ancora più raro è trovare un vero basso…

  5. Vi propongo un altro ascolto: Gedda nel “Credeasi misera” e sentite dal 4:35 prima il re sovracuto “di petto” e poi il fa sovracuto di testa e come poi passa agli acuti “di petto” … Bellissimo! Anche se come dice udatorbas, a me l’acuto in re non piace tantissio perché è di forza (ma non forzato!) rispetto alla delicatezza del fa di testa!

    • Che grande cantante! Grazie per avermi ricordato la sua interpretazione, davvero molto bella. Come notavi, gli acuti sono “di forza”, ma nella sua maestria riesce a non gridarli (il Re è un po’ al limite bisogna dire); però senti la U di “un solo istante” etc., com’è estrema, chiusissima? Garantisco che a quell’altezza la U con la risonanza di petto è gravosissima, inutilmente pesante. Tu stesso noti tra le righe che il Fa, magistrale nella sua bellezza, è moooolto più libero del Re: ecco l’uovo di colombo, vanno fatti tutti e due con la stessa voce. Ma anche qui, continuo a polemizzare 😉 , siccome abbiamo paura del falsetto, ci tiriamo l’acuto “di petto” al massimo, fin quasi alla sofferenza, pur di non cedervi! 😉

    • Bello ingolato Gedda! Comunque il primo acuto è un do#, la testa ci dice il Garçia parte dal re. E non è un do# di petto, è di “falsetto”, ma pieno e appoggiato. I registri non si mescolano: o è petto o è falsetto o è testa. Il fa invece è di testa -non di falsetto, il falsetto finisce sul do#. Il Garçia ha spiegato tutte queste cose in modo chiaro e completo e non c’è bisogno di interpretare niente.

      • Scusate per la notazione, non ho controllato!
        Beh sì Mancini, qui la voce di Gedda è un po’ stanca.
        Devo però contraddirre il fatto che i registri non si possano mescolare: il Garcia stesso, alla luce del suo aggiornamento in base alla contemporaneità, consigliava di mischiare tra il mi3 ed il do#4 il petto con il falsetto-testa :)
        Infatti per il passaggio mi3-fa#3 consigliava di eseguire in petto ed in falsetto-testa le note re3 – re#3 – mi3 – fa3 – fa#3, perché ovviamente le note più gravi e/o acute di ogni registro rientrano anche nella zone del registro precedente e seguente! L’utilizzo di un particolare registro in queste note di saldatura serve per dare un effetto, magari facendo risaltare più una componente rispetto all’altra!

        • A me risulta che Garçia si sia sempre astenuto dall’utilizzare il termine registro “misto”, e abbia invece sempre usato il termine “falsetto” o tutt’al più registro “medio”. Il fatto è che il falsetto ed il petto sono due registri che percorrono la stessa estensione, sovrapponendosi l’un l’altro: per cui ad esempio un sol3 può sia essere emesso aperto cioè di petto, sia essere “girato” in falsetto, a seconda della volontà del cantante. Con il termine “mescolare” si deve intendere proprio il fare esercizi in cui si passa ripetutamente prima dall’emissione di petto poi a quella di falsetto in modo da renderle identiche. Però se io emetto, che so, un la3, mica posso decidere di fare un cocktail dei due registri: la nota sarà o di petto o di falsetto, tertium non datur. E’ chiaro poi che le note di falsetto, quando opportunamente appoggiate e legate alle note più gravi, saranno pressoché identiche al petto (la voce deve essere uguale, i passaggi in chi canta perfettamente non dovrebbero sentirsi), e da qui nasce l’equivoco dell’acuto “di petto”. L’acuto di petto, se è davvero di petto, è un grido sguaiato, apertissimo, stirato, fibroso, forzato, che rovina la voce (vedi di Stefano). Ma quasi nessuno nell’opera emette gli acuti di petto. Si tratta sempre di un falsetto più o meno rinforzato, che quando è davvero pienamente appoggiato diventa indistinguibile dalla voce piena di petto.

          • Prima Parte – Capitolo V:
            “Il falsetto unito al registro di petto rappresenta per i tenori, più che per i baritoni, una risorsa felice e naturale. La musica composta oggi per i tenori, a causa del diapason assai elevato, non permette loro di passare al registro di falsetto. Ma l’impiego di questa risorsa dipende dalla capacità dell’organo di fondere i timbri dei due registri; altrimenti, per quanto il passaggio da un registro all’altro sia dissimulato, l’orecchio avverte la disparità dei suoni e la mancanza di omogeneità dell’effetto.”

          • Sì ma io nego che esista la possibilità di “mescolare” i registri… la corda o è spessa di petto, o è tesa di falsetto. Quel che si può ottenere è di passare dall’uno all’altro atteggiamento(petto-falsetto) in modo graduale, senza scalini bruschi. E questo ovviamente dipende da come sappiamo controllare il fiato.

          • Scusate se m’intrometto, ma dove si trova il trattato del Garçia? Grazie!

  6. Rispondo qui a udatorbas, per non creare post a cascata che non mi piacciono!
    Da quel che lessi di Rubini, saliva dal si3 di testa e/o falsettone (correggimi se sbaglio). Quindi, poiché il Garcia (che per me non è un dogma ma un punto di riferimento essenziale) fissa la differenza tra un tenore normale ed un contraltino nella sola possibilità da parte del contraltino di salire di petto fino al do4 (le estensioni degli altri registri sono identiche per tenore e contraltino), la discriminante tra un tenore normale ed un tenore contraltino (sempre il Garcia prevede per entrambi acuti fino al fa4 di testa) è semplicemnte il “diapason” leggermente più acuto nel contraltino, né più né meno! E’ una mera classificazione “scientifica” senza veli di sciamanismo o magia o mistici misteri 😉
    Non voglio peraltro demolire la tua autostima, ma non ti ho comparato come interprete a Lauri Volpi, ma solo come classe vocale: per me infatti non esistono classi vocali “eccezzionali” (aggettivo usato solo in campo commerciale per vendere più dischi o da chi di canto non ne capisce un H ) perché ognuno di noi ha la sua classe vocale dovuta a natura e studio!
    Io sopra ho postato due miei vocalizzi come punto di arrivo (momentaneo) delle mie idee e per poterli comparare; se poi, come ho detto, mi linki pubblicamente o privatamente dei tuoi vocalizzi in cui possa sentire le ottave do2-do4 “di petto” e dal fa2 al fa4 con i registri che preferisci, mi fai un favore nel senso che ho la possibilità di sentire, apprendere e comparare la vocalità del contraltino. Se poi a te non interessa, pazienza! Come si dice in sardo “i santi da pregare stanno in chiesa” 😉

    • Per quel che concerne Rubini ho letto descrizioni discordanti riguardo l’esatta dislocazione dei registri. Di certo c’è che aumentò l’estensione di petto per adeguarsi alla moda (da cui tra l’altro la sua fama assai duratura), passando (che io sappia) dal Sol come nota di passaggio al Sib; non giurerei comunque sui miei dati. Permettimi nuovamente di dissentire sull’aggettivo “scientifico” attribuito a queste classificazioni: tanto poco sono scientifiche che tu medesimo mi dai come unico riferimento Garcia, la cui autorità è talmente indiscussa da far sì che nessun cantante o maestro di canto, ch’è peggio, abbia mai tentato di riferirla a dati misurabili, che non siano l’orecchio ma lunghezza delle corde, natura dello spettro vocale, etc.. Continuo a battere su questo punto perché lo trovo fondamentale: noi stiamo mescolando dati oggettivi (cioè il fatto che in natura esista una certa estensione attribuibile ad un dato meccanismo muscolare) con dati del tutto soggettivi e contingenti (tecnica, gusto, miscugli vari tra registri frutto di più tensioni muscolari, estetica, etc.). Io non dico che all’interno del mare magnum della vocalità umana non esistano tenori più acuti di altri, dico solo che il preteso “contraltino” di Bellini, Rubini e Garcia non deve essere letto come voce “naturale”, frutto del normale studio d’un cantante sulla sua propria estensione, bensì, come tutto fino alla metà dell’Ottocento, di costruzione “in laboratorio” mescolando registri differenti e pasticciando per ottenere una vocalità ibrida che soddisfacesse le loro esigenze stilistiche e musicali, che con loro sono morte. Oggi tale è l’idea che esista “one music, one country, one technic”, se mi permetti la citazione, che nessuno dubita del fatto che sia stato tutto sempre così. Vedi Mancini com’è certo dell’interpretazione di Garcia? Non vi sono dubbi! Quando poi si trovano cantanti veramente conservatori, di vecchia scuola, come Moreschi o De Lucia, subito si dice che siano più o meno incapaci, più o meno limitati “naturalmente”, etc., solo perché non corrispondono ai canoni attuali. E qui permettimi di venire al punto: non si vuol capire che nessuna, dico nessuna voce esiste in natura. Che il tenore debba avere quell’estensione non è per niente dato naturale, lo stesso vale per tutte le altre voci. Finché i contralti non impararono ad usare la voce di testa rimasero relegati in poco più d’un’ottava, e così chiunque può constatare le limitatezze del tenore monteverdiano, che però scende fino al Fa grave! Ed allora da una parte mi si vuol dire che il contraltino sia esigenza di natura, senza darne prove, dall’altra si nega ostinatamente che ogni voce sia legata indissolubilmente alla sua tecnica, tant’è, ad esempio, che la Francia ha sviluppato per conto suo un sistema di classificazione del tutto diverso, così la Cina, così pure i Romani, etc., etc.. Non voglio minimamente essere polemico con ciò 😉 voglio solo dire che non abbiamo Rubini perché ci ostiniamo ad attendere il Messia senza capire che è la strada ad essere sbagliata. Da questo punto di vista, del resto, tu mi vieni in favore, notando le due componenti di natura e studio; magari tutti la pensassero così!

      Quanto alla tua gentile richiesta, mi sono fatto fraintendere: non credo minimamente di avere in natura la voce di Lauri-Volpi (e non solo perché ribadisco di non essere un contraltino, ma anche perché la mia è piuttosto brutta nonostante anni di studio), e dubito che tu mi possa trovare interessante per un raffronto. Non mi sottraggo però; devo procurarmi un registratore, che non posseggo, e vedrò di farmi vivo e soprattutto di ascoltare gli esempi che hai così cortesemente condiviso 😉 Spero che ancora una volta il mio tono non sia suscettibile di fraintendimenti, non voglio passare per polemico, benché ammetta d’essere talvolta fastidioso 😉

      • Ti assicuro che le mie certezze nei confronti del Garçia non discendono affatto dalla fede, ma derivano dall’ascolto e soprattutto dalla pratica: sono cose che provo quotidianamente su me stesso, ho girato anch’io diversi maestri e sull’argomento dei registri posso dire di essere arrivato a chiudere del tutto il cerchio. Non ci sarebbe tutta questa confusione oggi se solo si fosse prestato attenzione a ciò che scrive con perfetta chiarezza e coerenza il Garçia, senza cercare di dare sempre una propria “interpretazione”…

      • Sì certo, su questo son d’accordo con te, che la vocalità è natura (a meno di spettri, misure di corde – cose tutte interessanti comunque – se un cantante è comodo in una data regione e.g. fa2-fa3, chiamiamola tenorile, si identifica come tenore! Se sta comodo in una estensione dal sol2 al sol4 come Marian Anderson, vuol dire che può cantare quel che le pare! ) e studio (se la Horne non avesse studiato, non avrebbe avuto i gravi che ha).
        Attendo si sentire questa voce di contraltino 😛

  7. Colgo l’occasione per proporre una playlist sulla scuola del Garcia: http://www.youtube.com/playlist?list=PL52A87EEB6F6AAA6F&feature=mh_lolz

    Può apparire quasi ovvio, ma grandi cantanti come la Kurz, la Calvé, la Melba, la Beach Yaw (che trillava anche su intervalli di quinta), la Onegin, la De Hidalgo, la Barrientos, Gayarre, la Callas, la Sills sono tutte nipoti di terza o quarta mano del Garcia figlio con molte allieve della Marchesi, a sua volta allieva del Garcia.
    Di tutti i cantanti presenti su YouTube ce n’è solo una che ha la straordinarietà di essere stata allieva diretta della Viardot, ossia Mafalda Salvatini. Son sincero: pensavo ci fosse qualcosa di meglio di un mero “Vissi d’arte” ma ci si accontenta! 😉

    • Bah…mi lasciano alquanto perplesso considerazioni circa la presunta “discendenza” artistica (pur di terza o quarta generazione) in virtù della genealogia di allievi e maestri. Secondo me è un “giochino” (magari divertente, magari no) che, in realtà, non spiega nulla e in base al quale non si potrebbero/dovrebbero trarre conclusioni. Parte, infatti, da un presupposto logico del tutto “illogico”, anzi assurdo – in quanto puro atto di fede – ossia che il maestro “travasi” nell’allievo la sua essenza canora, a prescindere dall’evoluzione di gusto, stile e musica che, nel frattempo (da Rossini a Puccini) si è andata sviluppando. Si presume, cioè, che il canto sia un’entità a tenuta stagna che si tramanda di “padre” in “figlio” o “nipote” senza alcuna interferenza esterna. Tradotto in altri ambiti sarebbe come ritenere Kempff “allievo” di Beethoven perché studiò pianoforte con Barth, che a sua volta prese lezioni da Tausig, che a sua volta prese lezioni da Liszt, che a sua volta prese lezioni da Czerny, che a sua volta fu allievo di Beethoven….e in base a questo ritenere il Beethoven di Kempff quasi un riflesso autentico del grande compositore (non importa se nel frattempo ci sono stati Liszt, Chopin, Debussy etc…che hanno certamente rivoluzionato la tecnica pianistica e che, sicuramente hanno influenzato l’apprendimento del buon Kempff). Peraltro non si capisce perché Kempff sarebbe l’erede di Beethoven (così, spesso, è definito) e non quello di Liszt (visto che si trovano nella stessa linea geneologica). Così pure si dovrebbe ritenere che lo stesso Liszt suonasse come Beethoven, in quanto allievo di un suo allievo…. Il giochino, volendo, non è mai finito e si arriva a risultati bizzarri o aberranti. Barenboim studiò con Markevitch, a sua volta allievo di Alfred Cortot, allievo di Descombe, che fu studente di Chopin: ebbene stando al giochino di cui sopra, si dovrebbe dire che Barenboim discende direttamente da Chopin… E così via si potrebbe dire tutto e il contrario di tutto…risalendo a Bach e immaginando di trovare discendenze dirette persino con Lang Lang…
      La realtà è, come sempre, più varia e complessa dei facili schematismi o delle ideologie. E probabilmente considerare l’apprendimento musicale e il canto alla stregua della teoria dei vasi comunicanti è, oltre che scorretto, ingenuo e superficiale.

      • Beh, però non è corretto nemmeno negare che una scuola d’arte abbia dei principi che vengono tramandati di generazione in generazione… altrimenti non potremmo neanche parlare di scuola, se non avviene nessuna trasmissione. E poi bisogna considerare che in quel mezzo secolo che separa le prime documentazioni fonografiche dalla generazione dei belcantisti storici dell’Ottocento non possono essersi verificati stravolgimenti nell’arte del canto paragonabili a quelli che vediamo nel mondo odierno, dove lo sviluppo delle tecnologie ha velocizzato la trasmissione delle informazioni creando nuovi potenti canali in cui il germe della decadenza serpeggia e si ingigantisce con un ritmo che accelera in continuazione.

        • Sono d’accordissimo con te, Mancini: una scuola porta sempre un suo metodo di rigore, e se proprio non si possono trasferire le qualità di ogni singolo cantante/docente in ogni studente successivo, a sua volta docente, si può senz’altro trasmettere il metodo di rigore della scuola.
          Poi come ho detto sotto, il ragionamento di Duprez (in sintesi: la Callas cantava come il Garcia) è una totale stupidaggine!

        • Certamente Mancini: è naturale che esistono principi (o meglio sensibilità) comuni nelle diverse scuole d’arte, ma si tratta di questione differente. Un conto è la scuola, altro il “travaso” da maestro e allievo. Ovviamente il mio discorso estremizza la questione, ma spesso si sente – a mio avviso scorrettamente – citare questo o quel cantante dei primi anni del ‘900 come “testimone” del canto dell’epoca di Rossini semplicemente perché allievo di un allievo di un allievo della Pasta. Ecco, in questo senso, secondo me, è impossibile far discendere argomentazioni pregevoli. In realtà, infatti, tra Rossini e Puccini sono avvenuti tanti e tali stravolgimenti nel campo musicale (dalle modalità compositive, esecutive e pure di fruizione del pubblico e rapporto coi teatri) nel gusto e nel rapporto compositore/cantante/esecutore che è davvero impensabile non tenerne conto. Per non parlare nella nascita di uno strumento – il fonografo – che ha modificato il modo di cantare almeno nei frammenti di cui disponiamo (per limiti tecnici ed esigenze concrete).

      • Caro Duprez, la mia era una ricognizione storica ossia una ricognizione quantitativa, non qualitativa o di valore.
        Barenboim <- Markevitch <- Cortot <- Descombe <- Chopin : cosa può provare? Che storicamente c'è una continuità tra Barenboim e Chopin. Ciò può portare ad un giudizio qualitativo? Molto difficile perché non abbiamo gli audio di Chopin e Descombe, ma sicuramente possiamo comparare la tecnica di Corto http://www.youtube.com/watch?v=I2fRWWW_6MM con quella di Barenboim.
        Tutto questo visto in un'ottica storica, quindi si possono al massimo COMPARARE le diversità degli allievi e delle evoluzioni di scuola (come quella della Marchesi) e scusa se te lo dico, devi avere proprio una scarsa stima della persona che ha scritto il commento sulla Scuola del Garcia per poter avvallare una continuità qualitativa (peraltro indimostrabile) dopo 5 generazioni, una vera IDIOZIA!

        • Papageno…guarda che non sono certo io a definire valida questa “continuità”…ANZI, il mio discorso vuole sostenere l’esatto opposto: ossia che, a parte una mera constatazione storico-statistica, la continuità maesto/allievo è sempre una scemenza…diverso il discorso che fa Mancini (a cui rispondo sopra).

          • Ma infatti ripeto: avendo i documenti (nel nostro caso registrazioni) e confrontandoli, si può capire come questa continuità storica si articola, cosa ogni cantante ha dato di suo e cosa ha mantenuto della “scuola”, ripeto, in presenza di documenti CERTI.

            Dissento sulla continuità maesto/allievo in un altro campo come può essere la scuola portoghese di architettura: Tavora -> Siza -> Souto de Moura -> allievi futuri. Questa scuola insegna un metodo e ogni personalità in continuità storica innesta una sua interpretazione in base alla sensibilità. Nel caso dei 3 sopra citati, c’è anche una continuità di intenti e sensibilità.
            Diverso invece se consideriamo Franz Stuck -> Kandisky -> Werner Drewes.
            Franz Stuck fu maestro di Kandisky, e le loro poetiche e modalità di disegno sono completamente diverse. Werner Drewes, di statura inferiore a Kandinsky, invece possiede una continuità anche poetica simile a quella del maestro, sebbene diversa.

          • Papageno, evidentemente non sono stato chiaro: per me la continuità maestro/allievo è una SEMPRE forzatura e lo è in tutti i campi (che sia canto, architettura portoghese o allevamento di ostriche in Normandia)…semplicemente perché i cambiamenti del mondo che ci circonda influenzano l’apprendimento e l’insegnamento… Ora come si può ritenere “figlio o nipote del Garcia” un cantante che ha vissuto all’epoca di Puccini e ha cantato Mascagni? Davvero credi di rinvenire, attraverso la Kurz o la Melba, la “voce” di Garcia??? E’ esattamente come pretendere di trovare nel gesto di Barenboim il tocco di Chopin…

  8. Infatti sono d’accordo con te che “rinvenire, attraverso la Kurz o la Melba, la “voce” di Garcia” sia una assurdità, sia perché ripeto è una dato non quantitativo ma qualitativo, sia perché non abbiamo testimonianze fonografiche del Garcia, sia perché è passata tanta di quell’acqua tra il Garcia e la Kurz/Melba, sia perché il Garcia (figlio) non era una cima di cantante!
    Quello su cui concordo con Mancini è che attraverso questi ascolti (certi sì, certi no) si possa tracciare una storia del metodo (scuola di Garcia) che esiste: basta aprire il trattato del Garcia o “Un’ora di studio” della Viardot per trovare esercizi ed idee che ci sono testimoniati da cantanti come la Callas o la Sutherland stesse.
    Questa per me è la scuola: una base che accomuna, non che la Callas canti come Garcia, che ripeto è una sciocchezza …

    • Ecco, ci siamo compresi perfettamente: ovviamente una comunanza di sensibilità (che caratterizza una scuola o una tendenza) è perfettamente riscontrabile…che sia canto, direzione d’orchestra o modo di suonare il piano..

      • Mah… sulla comunanza di “sensibilità” sarei cauto, quel che interessa qui è notare le caratteristiche dell’imposto vocale, l’uso dei registri, insomma l’uso della voce in senso tecnico, che erano la materia di cui si Garçia si è occupato per tutta la vita, e che quindi rappresenta il lascito più importante della sua scuola. Le allieve della Marchesi per esempio hanno tutte delle caratteristiche tecniche comuni, si può sentire in ciascuna la derivazione dalla stessa scuola. Ciò che non è possibile dimostrare è che la Marchesi, che fu la più famosa continuatrice della scuola di Garçia, abbia davvero ereditato pienamente la coscienza, l’orecchio e la capacità di insegnamento del suo maestro. Si sa ad esempio che accettava solo allieve femmine: non sapeva insegnare agli uomini, e questo fa di lei tutt’altro che una didatta completa! Il parallelo con i pianisti mi sembra azzardato: quando parliamo di Garçia parliamo di un professionista che fu prima di tutto un didatta, che approfondì scientificamente gli aspetti basilari della fonazione. Non so invece quanto Chopin e Beethoven abbiano approfondito la pratica dell’insegnamento e se anche nel loro caso si possa parlare dell’esistenza di una scuola.

        • Quello che voglio dire è che resta impossibile ricostruire il modo di cantare del primo ‘800 in base ad incisioni risalenti al secolo successivo, pure in presenza di interpreti che hanno studiato con allievi di allievi di allievi dei cantanti d’epoca rossiniana: troppe sono le variabili e troppi i mutamenti. A poco vale, pure, il riscontro dei ruoli affrontati (poiché è notorio come in tutto l’800 e ai primi ‘900 si provvedesse senza alcuno scrupolo ad adattare la parte al cantante). Ovviamente, però, restano le testimonianze di una civiltà del canto che andrebbe giudicata – storicamente – per ciò che è, senza necessità di “agganciarla” ad una pretesa autenticità ottocentesca (cosa che all’epoca non interessava a nessuno e, pure oggi, non dovrebbe impedirci di apprezzare quei lasciti). C’è poi la questione tecnica (allora povera e mortificante) che non solo ci da un’immagine sbiadita e parziale, ma che, credo, abbia avuto diretta influenza sull’esecuzione stessa: probabilmente quei cantanti storici cantavano in modo differente a teatro, con altri tempi soprattutto.

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