Peter Grimes alla Scala

E alla fine Peter Grimes. Sgombero subito il campo da una fastidiosa – ma doverosa – considerazione preliminare: da più parti si è chiesto il motivo del ritardo, da parte di questo Corriere, nel dare contezza e adeguato rilievo allo spettacolo scaligero, elucubrando – sulla mancata tempestività – le più bizzarre teorie e le più variegate supposizioni. Ebbene, non mi passa neppure per l’anticamera del cervello la sola idea di dover dare giustificazioni al presunto (e colpevole) ritardo: basti dire che a teatro ci vado quando voglio e quando posso, non essendo la mia né una sacra missione né un mestiere remunerato. Qualche parola in più, invece, vorrei spenderla sul molesto filosofare in ordine al fatto suddetto. Tranquillizzo tutti coloro che si sono stracciati le vesti e scarmigliati i capelli: né io né il Corriere, abbiamo alcun “conto in sospeso” con Mr. Benjamin Britten (che, credo, non abbia bisogno di pubblici accusatori o difensori d’ufficio) e neppure ci “scandalizziamo” per la sua programmazione nell’ambito della stagione scaligera (lo dico a scanso di equivoci e prima di finire sulle pire erette da sedicenti inquisizioni che pare distribuiscano patenti di merito culturale a compositori e musicisti di secoli passati, distinguendo con zelo scientifico i “buoni” dai “cattivi”). Classifiche siffatte non mi interessano e nutro più di un dubbio sulla loro onestà intellettuale. Peter Grimes, poi, è opera quasi di repertorio: titolo importante del più importante compositore inglese (anche se, personalmente, trovo superiore – e non di poco – quel Billy Budd che mi auguro passi presto in quel di Milano, dopo l’ubriacatura verdiana/wagneriana del bicentenario), la cui doverosa rappresentazione non costituisce certo uno sfizio culturale imposto per ansia rieducativa (cosa che, per taluni, sarebbe il nostro recondito pensiero in merito). Chi si aspetta, dunque, verbose concioni contro Britten (manco fossimo una tribù di ritardati), contro la Scala di Lissner e in difesa della sana e vecchia opera ottocentesca – così da solleticare il disgusto altrui per tale e tanta ignoranza crassa, esposta senza pudore alcuno – ha decisamente sbagliato indirizzo. Qui la musica la si ama – ovviamente assecondando i differenti gusti di ciascuno che, lo ribadisco, non ha da attenersi alla rigida “linea di condotta” che altrove è condicio sine qua non per essere accolti tra gli happy few.

Peter Grimes, dunque. La produzione scaligera si pone tra i migliori risultati della presente stagione e non solo: in particolare per ciò che riguarda l’aspetto orchestrale e registico. Quest’ultimo segna il debutto milanese di Richard Jones, celebre e celebrato director anglosassone. Jones – attraverso un’indubbia abilità teatrale che mai si scontro con il contenuto musicale – trasporta la vicenda nel XX secolo, fingendo l’azione non più in un borgo di pescatori, ma in una città o in un quartiere portuale nell’Inghilterra della Thatcher, richiamando nell’ambientazione e nello sviluppo della vicenda, il miglior Ken Loach, indagatore disincantato e disilluso del degrado sociale e morale della working class britannica dell’epoca. Il Borgo di Jones è una comunità chiusa tra decoro benpensante, abitudini e ipocrisie contro cui – coerentemente con il libretto – Peter si scontra. La realizzazione scenica è molto curata e realistica: si succedono con rapidi cambi diversi ambienti: l’aula di giustizia, priva di solennità, come si conviene ad una sede periferica di un quartiere “proletario”, il pub e la squallida abitazione del protagonista, la chiesa e, onnipresente, la piazza, col via vai di gente che parla e giudica e guarda. La gestione delle masse è esemplare e la recitazione cinematografica (studiata in ogni singolo dettaglio per dare una caratterizzazione precisa di ognuno dei tanti personaggi) è decisamente accattivante. Due soli appunti mi sento di muovere: la voluta assenza del mare (che si intuisce solo per i tanti gabbiani appollaiati sui tetti delle abitazioni e sui tralicci) e certe “coreografie” meccaniche che mal si adattano al realismo della messinscena (oltre ad essere inutilmente volgari nel mimare gesti osceni senza un’apparente ragione in rapporto al racconto). Decisamente buona la prova orchestrale. Qualcuno dice che in fondo non esistono buone o cattive orchestre, ma solo buoni e cattivi direttori (frase attribuita di volta in volta a Toscanini, a Furtwängler, a von Bülow o a Mahler): non sono molto d’accordo – anche se è indubitabile che pessime compagini, come quella del Met degli anni d’oro, suona in modo sensibilmente diverso quando a dirigerla c’è Walter invece di Bodanzky – tuttavia quello che ieri sera ho sentito dalla buca era molto distante (per qualità, tensione, concentrazione) da quanto, la medesima orchestra, è riuscita a combinare con la IX Sinfonia di Beethoven nel concerto in onore di Benedetto XVI. Robin Ticciati (classe 1983), formatosi con Sir Colin Davis, si sta imponendo come un’interessantissima realtà tra la nuova leva dei direttori d’orchestra. Maestro di grandissima sensibilità musicale e di tecnica impeccabile (ha inciso una Sinfonia Fantastica in una lettura molto originale: e Berlioz non si improvvisa) è cresciuto senza lasciarsi trascinare dalle facilities del ruolo di enfant prodige (come altri suoi colleghi), maturando una carriera che l’ha portato dalla gavetta in Gran Bretagna all’Accademia di Santa Cecilia a Salisburgo e Glyndebourne, senza alcun azzardo o “passo più lungo della gamba”, sino ad assumere la direzione di quel gioiello che è la Scottish Chamber Orchestra. Il Britten di Ticciati è generoso, lirico, cantabile. Il suono orchestrale non è mai caricato o pesante, ma neppure è debole o timoroso: le entrate degli ottoni (miracolosamente ordinati) sono vibranti e sonore, pronte, però, a lasciare il passo agli squarci di malinconico lirismo nei soli degli archi. Ciò che colpisce maggiormente è l’estrema tensione narrativa, il passo concentrato senza alcuna soluzione di continuità (splendidi gli interludi marini), la capacità di variare e colorare la singola frase musicale, il gusto concertante e l’estrema duttilità dei piani sonori. La lettura ricollega il Peter Grimes a certe suggestioni del tardo romanticismo brahmsiano e al retaggio delle melodie popolari (che spuntano nella trama sonora senza alcuna forzatura e senza nessuna triviale e inopportuna sottolineatura): Ticciati, infatti, tra la scelta di riprodurre sterilmente l’interpretazione di Britten (testimoniata ufficialmente dal disco) e trovare una via differente e autonoma, sceglie saggiamente la seconda, non potendosi intendere, la direzione d’orchestra, come mera esecuzione di pretese “ultime volontà”. Mi auguro di sentirlo più spesso a Milano. Purtroppo la produzione, che nel complesso si fa apprezzare anche per una compagnia di canto più che discreta (molto buono il Balstrode di Christopher Purves, mentre la Ellen di Susan Gritton mostrava diverse difficoltà, e incertezze), sconta la presenza dell’improbabile John Grahm-Hall nel ruolo del protagonista. Vocalmente inaccettabile, trasforma il personaggio in un’isterica macchietta: impossibile giudicarne il canto, talmente sgraziato, fuori posto e in enormi difficoltà su ogni parte della tessitura. Peccato, perché un Peter Grimes senza Peter, è un problema serio e lascia la sensazione amara dell’occasione persa, almeno in parte. Un’ultima considerazione circa il successo delle opere non di repertorio che – a sentire taluni – sarebbero “graziate” solo per scarsa dimestichezza di alcune parti (quelle presunte facinorose) del pubblico con certi titoli. Non è così: in realtà questi titoli (che a dire il vero non sono affatto desueti o rari, ma costituiscono una fetta importante del repertorio, anche se estranei all’opera ottocentesca) vengono semplicemente curati di più. E naturalmente il pubblico li apprezza. Il fatto è che la gestione Lissner opera con scarsa dimestichezza nel melodramma ottocentesco con scelte al ribasso che denotano mancanza di cura e di rispetto. Non ci si stupisca dunque – e neppure ci si lanci in fantasiose elucubrazioni – del successo di un Peter Grimes (opera splendida) ben fatto e dei fiaschi di Tosca e Aida (altrettanto splendide) raffazzonate alla meno peggio, poiché sono figli, entrambi, di scelte ben precise ancorché opposte.

 

10 pensieri su “Peter Grimes alla Scala

    • ìl CdG preferisce attendere e mandare tra noi il piu competente per ogni specifica recensione. Duprez lavora, non è milanese , e va quando il lavoro lo consente. Da amanti della musica indipendenti e paganti, garantiamo a modo nostro la qualità di quello che scriviamo ai lettori/ amici, ma anche e soprattutto a chi la nostra critica subisce. Spero che il concetto sia chiaro a qlnque lettore……

      • Cara Giulia, davvero non è necessario espletare come intendiate garantire la qualità di quanto scrivete. E’ sufficiente leggere. Questo sia detto con buona pace di chi vi segue e di chi vi subisce.
        Concordo poi con sonovecchioeccetera, anche se personalmente questo tipo di opera non è esattamente la mia “cup of tea”.

      • Divina Giulia, ci tengo a precisare che la mia -non lo si fosse capito dal sorrisino- era una battuta.
        In realtà, con l’allestimento, io sono stato … come dire … più severo e meno entusiasta. E non perchè mi ritenga necessariamente un passatista (ma non posso non ricordare, con le voci, anche i bravi artefici degli spettacoli visti in quasi 50 anni di frequentazione) ma perchè ho trovato alcuni tics della routine del “moderno” teatro di regia che mi irritano forse più delle scene dipinte del Sormani (oh tempora!) e dei concerti in costume.
        Ne dico due: il tabagismo insistito, ma “vero” solo per le comparse (troppe e troppo estranee, evidentemente “lavorate” più delle masse del coro) mentre i cantanti (una delle due nipotine) le maneggiavano … spente. L’insistito camminare con le mani in tasca, come motivo conduttore di una recitazione “naturalistica”.
        Mi si obbietterà che sono quello che si fissa sul particolare innocente e senza rilevanza: infatti è così. Per esempio la bambinetta che cammina con le scarpe da adulta a fianco della “nipotina”, che messaggio subliminale dovrebbe trasmettermi?
        Io per il GRIMES ho in mente uno spettacolo, come dire, meno “barocco”. Qui Jones ha accusato una “zeffirellite acuta”, dal mio punto di vista, nè più e nemmeno come capita spesso all’osannato e “geniale” Michieletto.
        Scusate lo sfogo.
        Cari saluti

        • A me l’allestimento – come ho scritto – è piaciuto (pur con i due limiti di cui ho parlato). Non comprendo, però, le tue considerazioni in merito ai presunti “tic”: premesso che Peter Grimes non è la Beatrice di Tenda, non trovo nulla di male nella recitazione “naturalistica” (anzi). Ciò che mi infastidisce è ben altro, ossia la mancanza di senso musicale o le scelte ostentatamente contrarie alla musica: e nella regia di Jones nessuna scelta era antimusicale.

        • Quanto al “manierismo” di Michieletto (regista che a me personalmente non piace affatto): senz’altro è vero….ma, in fondo, ogni regista (come ogni sculture, pittore, scrittore, musicista) ha i suoi “temi ricorrenti”…dalle colonne&scale di Pizzi alle “baracconate” di Zeffirelli, dalle prospettive sghembe di Ronconi alle luci di Strehler… L’importante è che il tutto non cozzi con i contenuti musicali: francamente mi sembra un po’ eccessivo concentrarsi su mani in tasca o sigaretta in bocca…anche perché si può dire la medesima cosa su tutto (a cominciare dalle caccole e le mani sul cuore)

  1. Mi associo ai complimenti della recensione e pubblico, con questo, il mio parere sulla recita che ho visto dal vivo, quella del 19 Maggio. Ecco in breve che ne penso.
    Direzione: Premetto che Ticciati mi piace moltissimo già di per sè, trovo che la sua lettura dell’opera sia stata davvero di alto livello, capace di evocare (mai descrivere, cosa che a parer mio la musica non fa) proprio gli ambienti di tale titolo, come il mare, che, eliso un po’ ingiustamente dalla regia e dalla scenografia, emerge davvero molto sotto il comando della bacchetta del giovane direttore. Ticciati, ha saputo poi, cogliere ogni essenza (può sembrare una frase fatta, ma in questo caso va interpretata letteralmente) della partitura, guidando egregiamente un orchestra sicuramente valida (quando vuole) ma non cresciuta-che sia a causa della sovrintendenza o meno-a pane e Britten.
    Cast: personalmente nella mia recita ho trovato molto interessante la performance della Gritton nel ruolo di Hellen, bella voce, scura e drammatica, ma decadente al punto giusto che serve per l’opera, molto incentrata su questa sorta di “decadentismo inglese”. Hall lo avevo sentito nel Death in Venice l’anno scorso e non mi aveva entusiasmato, e i risultati ottenuti nell’affrontare la parte di Grimes hanno confermato i miei dubbi (dopo il “live” del 19 ho visto anche la recita del 24 in tv): fatica, fatica e sopratutto terribilmente fuori forma.
    Regia: Non sono pienamente d’accordo con Duprez sulla questione della regia. Molto originale l’idea di ambientare l’intera opera negli anni della Thatcher, se non altro una scelta intelligente e non da registi “modevni”, interessante anche la mimica e il muoversi sulla scena dei personaggi e del coro, con sprazzi quasi fantastici e momenti di cruda realtà. Unica “pecca” le scenografie, ma credo sia gusto personale, non mi sono piaciute. Ho visto poco di quello che (anche negli anni della Thatcher) si può trovare in un paesino di MARE dell’Inghilterra. Unica nota positiva la scena della sala del giudizio, quella iniziale, ben resa. Sta di fatto che questo è sicuramente uno degli spettacoli migliori (se non il migliore) della stagione scaligera, e spero di rivedere titoli e allestimenti del genere, passato il ciclone Verdi-Wagner, del tutto commercialotto e veramente poco attraente per un pubblico anche solo di non “lovvosi” (cit. Mozart). Alla prossima e grazie della recensione!

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