Fratello Streaming: a Torino, “Un ballo in maschera”

Come  ben sappiamo, la stagione estiva – con i suoi tempi dilatati, i suoi ritmi più distesi – consente di ritornare a fare il punto su questioni e spettacoli magari tirati via con qualche “video-riparazione” o commento isolato. Degli ultimi broadcast disponibili, la collega Marianne ci ha appunto raccontato, prendendo a prestito il Trovatore andato in scena a Bruxelles, fino a che punto può spingersi la tanto auspicata – da parte di certuni, insuperati discepoli di Onan – “destrutturazione” del teatro in musica. La sottoscritta Carlotta si limiterà invece a riordinare le idee su un’altra, recente produzione, di pretese senza dubbio più modeste rispetto alle velleità fiamminghe, ma che in realtà rimane interessante per come spesso il plauso generale si realizzi – si legga “cominci e finisca” – ipso facto con l’apparizione mistica dell’eterno divo, che per definizione appunto sa, o meglio dovrebbe sapere, come aggirare lo scalpello del tempo. Insomma, vorremmo dimostrare che l’antico proverbio “An old hen makes good broth” – per dirlo nella lingua universale della star universale – è una volta di più infondato, convinti, noi del Corriere, che i meriti si conquistano ancora col “fare”, meno con l’”essere”. Il contesto è il Ballo in maschera allestito poco tempo fa a Torino. Lui, la “gallina vecchia”, è Gregory Kunde.
…ma partiamo dalla messa in scena firmata da Lorenzo Mariani, una co-produzione tra il teatro Bellini di Catania e il Maggio Musicale Fiorentino che risale a poco meno di un decennio fa. Va detto da subito che la ripresa torinese non ha aggiustato nulla dello scadente spettacolo che ricordavamo. Uno spettacolo di fatto improvvisato e superficiale, sia in termini di autentica prassi registica che sul versante squisitamente scenografico, che dovrebbe, quest’ultimo, rimandare a una vaga cornice hard-boiled d’oltreoceano. Di primo acchito, non è punto qualificabile se non come insensibile idiozia che un’aria di estrema confidenza, dedizione, totale vicinanza quale si tratta la sortita di Renato, che qui vediamo gigioneggiare intorno all’amico e superiore lanciandogli i fogli di una documentazione che incastrerebbe i cospiratori, venga risolta con tale sbruffona leggerezza. Che dire poi della grande scena del secondo atto, con Amelia che fa il suo ingresso coricandosi a terra nel bel mezzo di un bosco di alberi stilizzati, i cui “evocativi” frutti sarebbero delle corde da impiccagione penzoloni? E i congiurati che entrano in camera da letto per accordarsi con Renato, nel terzo atto? Impressiona poi il venir meno della forte dicotomia che carica di senso il primo atto, ovvero la netta cesura visiva – e quindi semantica –  tra la civiltà del milieu cortigiano e il periferico, misterioso retroterra oltremondano in cui agisce Ulrica. Invece Mariani ci presenta un anonima e persistente pavimentazione a scacchi – il classico coperchio buono per ogni pentola – e una sorta di piattaforma circolare a metà strada tra la giostra “ballerina” – quella specie di rodeo all’europea in cui ci si diverte a mantenere l’equilibrio – e un disco di marmo in odor di negromanzia: ma se c’è un aspetto che l’iconografia noir non smette mai di ribadire è proprio la sua totale estraneità al soprannaturale, preferendo piuttosto una “visione delle cose” che aderisce al vecchio tema del destino ineluttabile. Per questo, vedere Riccardo che entra in uno spazio senza tempo con un berretto da pescatore – come da libretto, ma che in realtà dovrebbe fare molto Lang e moltissimo Chandler! – lascia quantomeno di sale. Tacciamo poi dei simbolismi da rotocalco in cui spiccano il già citato letto sghembo (i coniugi sono in crisi! I Roses stan sul fronte! Il noir si fa tragedia – e arredamento… – d’interni!), la sedia ribaltata, il lampadario sbilenco, l’opposizione cromatica rosso/nero… Si salva, per pura suggestione visiva, l’intensa saturazione del rosso sul volto spiritato di Ulrica durante il suo assolo del primo atto.
Come accennato, l’unico elemento di interesse, se così si può dire, è stato il debutto di Gregory Kunde come Riccardo di Warwich. Cosa porti un affermato tenore contraltino a integrare in repertorio parti lirico-spinte è un interrogativo di non facile soluzione, soprattutto quando nel giro di poche settimane deve passare dal Raoul degli Ugonotti a Riccardo del Ballo e dopo ancora a Otello e a Gualtiero del Pirata (in questo senso i dubbi sollevati sul suo Arrigo dei Vespri lo scorso anno dimostrano ancora una volta quanto siano fondate le affermazioni del Corriere). Il paradosso – ce lo conferma la produzione torinese – è che il registro meno usurato rimane tuttora quello acuto, ancora suggestivo nei momenti più struggenti (il Si bemolle su “TUTTO, TUTTO, fuorché l’amor” nel duetto d’amore del secondo atto) mentre il centro – il settore più sollecitato nel caso in quesitone – è completamente logoro, incapace di mantenere la corretta l’intonazione. Un limite, ricordiamo, che non appartiene solo a chi difetta di musicalità, ma anche a chi presenta evidenti segni di usura nello strumento. Ed è quanto si sente per esempio nel duetto con Amelia nel secondo atto, con frasi come “Il tuo nome intemerato, l’onor tuo sempre sarà”, buttate lì senza alcun moto di vigore. Non si contano poi gli arbitrii nelle riprese di fiato, come nel recitativo di sortita (“ogni”-“grandezza oblia”), attaccato con stonature e fissità davvero fastidiose. Peraltro l’intenzione di altalenare forte e piano – il primo spinto di gola perché manca la cavata necessaria al sostegno, l’altro stonato e ingolfato – produce un senso di prevedibilità che alla lunga stanca. A conti fatti, un Riccardo privo della necessaria espansione che la parte richiederebbe, a cui nulla valgono alcuni brani di recitativo esposti con la giusta timbratura, comunque solo in virtù della loro brevità. Manca l’ascolto dal vivo, ma con quell’emissione costantemente forzata immagino sia mancata quella sensazione di riempimento che sanno dare solo le voci che si librano a fior di labbro. E se si vuole lasciar correre, si smetta pure di fare ironia sul Di Stefano del ’57 in Scala…
Oksana Dyka, il soprano che forse ha ricevuto più riprovazioni che consensi nella cronaca operistica degli ultimi due anni, è stata la degna amante di tale Riccardo. Pur tralasciando la mancanza del pur minimo senso dello stare in scena – per cui i rari attimi di giubilo e i ben più frequenti momenti d’angoscia vengono espressi con la stessa, catatonica espressione, fino a far pensare o a un certo disagio del palco o al contrario a un’indifferenza quasi sdegnosa – è impossibile sorvolare una questione di fondo: per cantare una parte ostica come Amelia non bastano le virtù ereditate da madre natura, come in parte Tosca – suo secondo tonfo in Scala, dopo Pagliacci e prima di Aida – potrebbe far credere a lei e soprattutto ai più improvvisati  melomani. Peraltro mai si è visto, almeno fino agli ultimi anni, che un sedicente soprano drammatico risultasse totalmente afono in prima ottava, come le discese cavernose nella grande aria del terzo atto testimoniano (“che mai più non verrà”). O, ancor più inudibile, causa stimbratura, la frase grave parlata “Mi vuol parte ad un’opra di sangue” poco più avanti, o nel terzetto del secondo atto, quando si percepisce perfino il cosiddetto “scalino” (“Del fiero suo fato più tema non ho”), nonostante la relativa giovane età. Gli acuti sono puntualmente urlati e presi spezzando la linea vocale, con effetti a dir poco grotteschi, come ben dimostra la stretta nel duetto con Riccardo risolta con attacchi indecorosi sui primi acuti (il La coronato di “CHE non m’è dato in seno”) e il bercio sul Si bemolle appena dopo (“o nella morTE”). La dinamica espressiva, il ricorso al legato a fini espressivi, le smorzature che “sapevano dire” di una Cerquetti, una Stella, della Milanov ormai consumata del ’55, ma anche il languore di una Margaret Price – si riascolti incisione di Solti – sembrano inutili cimeli. Se imparassimo a ripescarli, forse ci accorgeremmo di quanto le Dyka, le Lewis etc..non siano altro che ugole robotiche arrugginite. Al loro confronto, l’Amelia di Birgit Nilsson passa per un bacino di morbidezza e contenimento.
Pare ormai che davvero non ci si possa più confrontare con la corda baritonale se non dando per scontato che oltre il passaggio il suono debba andare indietro, ingolfando la voce e producendo di conseguenza suonacci sporchi e sabbiosi. Non fa eccezione Gabriele Viviani, che presenta un Renato truce e ordinario, un segretario del Conte con la nobiltà di uno Sciancato e la misura di un Metifio. E allora, tutta la zona Mi bemolle3-Sol3 è risolta di fibra – funziona meglio il centro piuttosto pulito – mentre la prima ottava è spesso sbiancata, come i Re2 toccati nell’aria di sortita (“sempre CHIUSO IL VARco”), che scivola via nell’indifferenza di forcelle e accenti, in particolar modo nelle più intense frasi di perorazione (“TE PERDUTO, ov’è la patria”). Ne consegue un fraseggio inerte, aggravato da tentativi pregevoli – sulla carta… – di modulare l’emissione con mezzevoci purtroppo faticose e per certi versi pretenziose.
Non convince l’Oscar di Serena Gamberoni. Al soprano va dato il pregio di presentare un paggio al di fuori dei sentieri battuti del sibilo e delle cavate ristrette. Il peso vocale, considerata la parte, è consistente. Ma non basta certo per farla preferire alle cosiddette zanzarine del passato, leggere –  fuori dalla filologia che vorrebbe il Ballo opera da cinque prime parti – ma dalla voce pulita e sempre avanti. Basti sentire come snocciolavano la coloratura una Eugenia Ratti o meglio ancora una Stella Andreva. La Gamberoni avrà pure la stazza, ma arriva spesso sfiatata nei passaggi più bassi, laddove risulta secca e sfibrata, mentre in alto – si pensi alla risoluzione del salto d’ottava Fa3-Fa4 nel primo assolo o al quintetto del terzo atto – stimbra e spinge. La voce sembra comunque girare meglio nell’ultima aria: il settore acuto più timbrato consente alla voce di apparire più corposa, così da staccarsi – come detto poco sopra – dalla vulgata degli Oscar all’ultrasuono.
La senescenza del mezzo di Marianne Cornetti è palese, con il venir meno della saldatura tra i registri – i gravi oltre ad essere slabbrati prendono un colore quasi comico – e il vibrato largo che aleggia ai piani alti. Ma la sua Ulrica rimane l’unica interpretazione che perlomeno non chiami seduta stante lo spegnimento del televisore. Specifichiamo, più per valore relativo che assoluto. Perché almeno il retaggio di un corretto imposto consente alla Cornetti di essere consona a una ruolo che richiede grande espansione, sia per la base orchestrale tutt’altro che defilata che per la credibilità del personaggio. Antonio Barbagallo e Gabriele Sagona hanno tutta la struttura dei comprimari dei tempi che corrono. Impossibile non far caso agli “staccati” prodotti con colpacci di glottide del tema iniziale cantato col coro, anch’esso perfettibile negli impacciati unisoni.
Renato Palumbo riesce, pur all’interno di una direzione routinaria, a tenere le fila del palco. Ed è impresa non scontata considerate le premesse. Eccezion fatta per la mazurka un po’ fiacca nella scena del ballo, il resto è tutto pensato all’insegna del clangore opposto al particolare. Da una parte ci riesce quando cerca di dare vigore alle prime battute del secondo preludio creando un contrasto attraente col “pianissimo” degli archi che sorregge il flauto; altre volte finisce preda di un manicheismo un po’ fuori luogo, specialmente quando il momento necessiterebbe di un più generale abbandono, come nel duetto del secondo atto. Si sente una certa pesantezza anche nel “preludio” iniziale, privo di ampiezza e respiro. Ma nel caso in questione è responsabilità condivisa con l’orchestra: spigolose e poco sinuose le frasi dell’oboe, stonati i clarinetti quando anticipano il motivo dell’ingresso del coro.

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9 pensieri su “Fratello Streaming: a Torino, “Un ballo in maschera”

  1. Cara Carlotta, questo Ballo lo avevo già rimosso. Lo vidi con uno scarno numero di altri malcapitati della chat. Spettacolo brutto, bruttissimo, la Dyka con voce dura ed inespressiva, gli altri senescenti. Ancora mi stupisco di come rimanemmo a vederlo sino alla fine, fino a quel lampadario storto che, qualcuno ebbe a spiegarmi, pare simboleggiasse che nella vicenda qualcosa era andato storto. :)

    • Dici bene, Olivia. Mariani andrebbe mandato – prima ancora che a ripetizioni di regia – a un corso di lingua italiana. Prima lezione: “Rinfoltire il lessico”. Si comincia con “ridondanza” e “tautologia”…

  2. Ennesimo esempio di “concetto” elaborato in pizzeria assieme a una brigata di amici burloni. Lo sa il cielo cosa c’entrino Chandler e Hammett con il Ballo in Maschera. Non sarà che il conflitto nasce dall’incontro-scontro di una comunità puritana (di quaccheri si tratta) con una corte illuminista, godereccia e un po’ libertina? Seicento e Settecento, America ed Europa, con Ulrica presenza ctonia e irrazionale al di sopra (o al di sotto) delle parti…

  3. Riferisco dello spettacolo dal vivo nel giorno della recita ripresa dalla televisione in diretta-differita (c’erano almeno 8 telecamere…).
    L’allestimento è una brutta riscoperta: non ricordavo, rispetto alle recite di circa 10 anni fa, un primo quadro del primo atto così gelido e insulso, vero inno alla regia delle sedie; un secondo atto così nuovamente algido e nuovamente insulso (la notte? il cavallo? il cimitero?, ecc). I quadri migliori erano quello dell’antro di Ulrica con l’ondeggiare della lampada, e il ballo finale. Interessante il primo quadro del terzo atto ma non pienamente coinvolgente.
    Poi la regia vera e propria, che fa di Riccardo un signore di mezza età – complice Kunde, anche, se non soprattutto, di voce – rimbecillito che gioca a fare lo scemotto. La scena dell’antro di Ulrica in cui fa il pescatore – con stivali e cappello da pescatore pensionato – è a riguardo geniale!
    Sul versante musicale, nessun entusiasmo viene dal canto, anche se per motivi opposti. Il Riccardo di Gregory Kunde, pur se cantato con tecnica d’altri tempi rispetto agli altri cantanti in palcoscenico, è veramente senescente. La differenza tra i registri, la prudenza di certi passi, la difficoltà nel portarne a casa altri, l’utilizzo scaltrito della tecnica per mascherare le deficienze vocali, tutto contribuisce a fare un Riccardo fuori fuoco. Ora se questo gioco vocale può valere per tanti altri personaggi, dal canto sicuramente difficile e tecnico, ma meno caratterizzati come giovani, spensierati, quasi sfacciati nel loro canto, in Riccardo del Ballo in Maschera mi sembra si vada troppo in là: allorquando la Scotto ormai in pieno declino affrontò (1983?) a Chicago la Manon massenettiana si disse proprio che era più una Tosca che una Manon: la tecnica può riuscire ma l’interpretazione no (e stiamo parlando di una delle maggiori fraseggiatrici italiane). Qui siamo nella medesima situazione. Un Riccardo senescente che corre dietro – platonicamente! – ad Amelia proprio non sta in piedi.
    Gli altri non fanno nemmeno sentire i brividi (in senso buono… :-) di Kunde. Gabriele Viviani non arriva a emozionare come invece era accaduto ad Ambrogio Maestri nella precedente edizione, che aveva magnetizzato la sala dall’apertura dell’atto III fino all’‘Eri tu’, al cui termine “se ne era caduto” il teatro.
    O. Dyka – per cui il plauditore (connazionale?) si è premunito di gridare brava alla prima uscita per metter le mani avanti – risolve tutto con una gran voce, che di per sé rappresenta anche un qualcosa di interessante, se non fosse che non c’entra nulla con il personaggio e che arrivata agli acuti vuole ovviamente strafare ancora di più (invece di gestire con parsimonia quel materiale vocale). Non parliamo poi della presenza scenica: una signora anni trenta – qui conta il costume – che fa corsette tra una commissione e l’altra.
    E Serena Gamberoni come paggio Oscar? Sarebbe sufficiente un soprano leggero, o di coloratura (Donna Grisi ci farà una bella lezione sulla differenza tra i due tipi???): ebbene, si è voluto strafare anche qui, cosicché abbiamo un Oscar che fa la voce grossa e tira il concertato finale del I quadro, ma che secondo me non esegue le colorature, non trascendentali, delle sue arie, e le risolve in una specie di “fiato accentato”. Il fatto poi che faccia tutte quelle vere capriole a ruota in scena, che le han procurato tanti e tanti applausi (! Si applaude la simpatia?) e che faccia il maschietto non fa che peggiorare l’impressione verso la caratterizzazione del personaggio: una specie di Giamburrasca.
    Altra stranezza: un solo intervallo tra secondo e terzo atto, cosicché gli spettatori restano intrappolati in sala per un’ora e tre quarti!

  4. Visto in tv :
    Riccardo da dimenticare, sono d’accordo sulla senescenza abbastanza evidente e poi… che fatica “ma se m’è forza…”, Oscar privo di leggerezza – ah Eugenia Ratti, che colore e che spirito – Renato di serie, non la più alta, , Amelia proprio sfigata di voce e di presenza, dalle mie parti di una così si dice ” la vusa semper ” .
    Scenografia inventata per, forse, sorprendere ( chi.. non si sa, perchè aveva del già macinato).
    Per il Ballo ci vogliono 5 comprimari di prima scelta, altrimenti le differenze qualitative diventano quasi inopportabili, soprattutto nelle scene di insieme, e oggi averne tanti così al giusto livello è un terno al lotto
    Insomma : tanta “maniera” teatrale, poco piacere musicale, orecchi stanchi , troppo, alla fine.

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