Verdi Edission: Traviata

Vi sono opere delle quali sembra impossibile parlare senza cadere nell’ovvio e nel banale e senza rifugiarsi, per converso, in assurde e astruse elucubrazioni. Traviata è titolo popolare, amato e praticato tanto nei massimi teatri quanto nella profonda provincia (distinzione che aveva poco senso nel passato anche recente, quando i grandi artisti cantavano indifferentemente nei primi e nella seconda, e ancora meno ne ha oggi, per ragioni eguali e contrarie), al punto che il rischio appare più che mai concreto e presente. Del resto la nostra Verdi Edission non si prefigura certo come obiettivo quello di riscrivere la storia e la filosofia del melodramma (altri già mirano allo scopo, con risultati tanto risibili quanto strumentale ne è l’eziologia), semmai quello di fornire qualche spunto di riflessione, si spera piacevole e non del tutto privo di interesse.

Tipicamente citato quale prototipo del dramma borghese, a volte allo scopo di apparentare la protagonista alle eroine di Ibsen e Pirandello e giustificare in tal modo “interpretazioni” ai confini del teatro di prosa, frutto di tecniche di canto assolutamente aleatorie, Traviata presenta una forte dimensione corale, assegnando al demi-monde un ruolo di primo piano (tradotto senza eccessive finezze, ma con indubbia efficacia, dalla musica) e facendo del “popoloso deserto” di Parigi qualcosa di più che uno sfondo generico per l’azione. Di fatto il coro riveste, nel finale secondo e nell’intervento fuori scena al terzo atto, un carattere di commento all’azione che lo apparenta, per quanto permesso dalle convenzioni di un dramma giocoforza naturalistico, a quello della tragedia attica. Di fatto l’inno al Bue grasso funge da stasimo fra i due episodi che compongono il terzo atto, la grande aria di Violetta e l’ultimo incontro della fanciulla con gli uomini che hanno segnato il suo destino.

Destino che risuona inesorabile già nel preludio del primo atto, e che puntuale si ripresenterà in quello che apre il terzo: al lamento degli archi divisi e con sordina segue l’enunciazione del tema dell’amore di Violetta, sentimento tardivo per la cortigiana abituata a essere oggetto di amore (con tutte le virgolette e i corsivi del caso), non a provarlo. Che l’amore sia per Violetta soprattutto il tentativo di esaudire un sogno giovanile, che la vita non le ha permesso di concretizzare, lo dice chiaramente il testo della seconda strofa (di norma soppressa, al pari della seconda dell’Addio del passato) dell’aria che chiude il primo atto. “A me fanciulla un candido/E trepido desire/Questi effigiò dolcissimo/Signor dell’avvenire…”. In nome di questo sogno, di questa astrazione Violetta rinuncia ai lussi e agli eccessi della propria esistenza e si sobbarca di fatto per intero l’onere di un ménage domestico, cui Alfredo non sembra pensare se non in termini di compiaciuta soddisfazione, salvo poi sobbalzare alla notizia che “lo spendio è grande a viver qui solinghi”. E nel nome di un’altra astrazione, quella della serenità familiare, di per se stessa preclusa alle donne “perdute”, quali la società considera le cosiddette mondane, Violetta rinuncia al proprio sogno e così facendo lo perfeziona, sottraendolo alla sfera del divenire (e quindi all’inevitabile morte della passione, preconizzata nel duetto con il mancato suocero) e cristallizzandolo nel ricordo e perché no, nel rimorso di Germont padre e figlio. Insomma della “traviata”, nel senso di donnaccia, Violetta non ha nulla, e non è casuale che una delle interpreti maggiormente ammirate da Verdi, Adelina Patti, fosse tale anche per il candore e l’innocenza che riusciva a trasmettere nei panni della Zerlina mozartiana.

Che l’opera riposi interamente sulle spalle della primadonna appare indubbio: i personaggi maschili sono troppo scialbi e risaputi per costituire una reale alternativa al protagonismo totale del soprano (protagonismo che ribalta quanto previsto dal romanzo di Dumas figlio, che faceva di Armando il personaggio principale e cardine della narrazione). Il tenore è gratificato (per così dire) di un’aria assolutamente convenzionale, cassando la quale non si avvertirebbe alcuna lacuna drammatica (di fatto il brano era, nelle esecuzioni di tradizione, regolarmente amputato della cabaletta) e ancora più gramo è il momento solistico del baritono, sorta di parodia involontaria dei grandiosi cantabili destinati a questa corda da Bellini e Donizetti. È pur vero che Alfredo ha a disposizione un momento solistico di forte impatto come la scena della borsa (in cui il personaggio esibisce con violenza la volontà di fare i conti, in ogni senso, con il proprio passato e, come spesso fanno gli uomini, che si sentano minacciati dal biasimo pubblico o peggio ancora dal ridicolo, rovescia la propria vergogna su chi non vuole e non può difendersi), ma è altrettanto evidente come lo stesso sia squisitamente strumentale all’impostazione del grandioso cantabile “Alfredo, Alfredo”, dominato dalla voce del soprano, che costituisce di fatto la stretta del finale d’atto.

Il protagonismo di Violetta è senza reali alternative, ma non si concretizza nelle forme tipiche del melodramma, anche verdiano. In Traviata, come in Rigoletto, le strutture caratteristiche dell’opera italiana (aria, duetto, concertato) sono ancora presenti, ma caratterizzate da scelte del tutto particolari, che le distanziano dal modello cui sembrano uniformarsi. L’esempio più evidente è dato dal duetto Violetta-Germont padre, in cui la tradizionale concatenazione di recitativo, tempo d’attacco, cantabile, tempo di mezzo e cabaletta (insomma il “tipo” perfetto del duetto da opera seria, da Rossini in poi) risulta polverizzata e sostituita da una successione di incisi musicalmente affatto diversi (dalla pomposità appena temperata di tenerezza di “Pura siccome un angelo” alla violenta emotività di “Non sapete quale affetto”, all’amaro cinismo di “Un dì quando le veneri” fino alla disperazione di “Così alla misera”), prima di giungere a quello che sarebbe il cantabile propriamente detto, “Dite alla giovine”. Altrettanto si può dire del primo duetto tra Alfredo e Violetta, che si svolge di fatto in due parti, la prima come brindisi col coro, la seconda nelle forme di un tradizionale duettino in una sola sezione, o ancora della grande aria del primo atto, in cui l’intervento fuori scena del tenore risulta ben più complesso e carico di significato di un semplice pertichino. Che Violetta faccia ricorso, nei due grandi momenti solistici che le sono riservati, alla forma dell’aria strofica, normalmente destinata a un racconto (magari extradiegetico) e non all’espressione di un sentimento, è un’ulteriore prova della libertà formale cui Verdi era giunto ben prima di esplicitare il concetto di parola scenica. Un caso a sé è poi l’arioso “Amami Alfredo”, che annulla di fatto ogni distinzione fra recitativo, passo declamato e cantabile.

Opera adorata e mitizzata dal pubblico almeno quanto dalle primedonne, Traviata ha spesso attirato i soprani di coloratura e lirico-leggeri, in virtù della grande scena del primo atto, sovente rimpolpata nella cabaletta di roulades e sovracuti, magari di non eccelso gusto, ma che possono, se convenientemente eseguite, tradurre musicalmente l’ansia e i dubbi che Violetta tenta di occultare sotto una patina di forzata allegria. In realtà la scrittura del personaggio insiste in misura piuttosto marcata, per tutta la durata dell’opera, sull’ottava centrale della voce del soprano (fa3-fa4) con sistematiche puntate ai primi acuti, spesso da attaccare scoperti come il labem4 di “solinga ne’ tumulti” nel finale primo. In questa decima abbondante la cantante è chiamata a cantare piano, legare i suoni e scandire con chiarezza il testo poetico. Quel che si dice fraseggiare, insomma: un’arte che pochissimi soprani di coloratura (in primis Beverly Sills) hanno saputo praticare in maniera consona ai ruoli affrontati. È quindi indispensabile un perfetto controllo del primo passaggio di registro, unito a una potenza vocale sufficiente a sostenere il peso di un orchestrale imponente, specie nella scena della festa di Flora (e, in questa, nel passaggio “ah perché venni incauta” e nella stretta del finale d’atto). In assenza di queste caratteristiche si avranno, nei casi più felici, cinque minuti di canto nell’ambito di una serata del tutto priva di interesse, negli altri, un patetico arrabattarsi alla ricerca di un’espressività chimerica quanto maldestramente inseguita. Del resto velleità e surrogati sono, oggi come oggi, le sole risorse davvero inesauribili nel mondo dell’opera.

 

Gli ascolti

Giuseppe Verdi

La traviata

 

PreludioOrchestra del Teatro alla Scala di Milano, dir. Herbert von Karajan (1964)

Atto I

Dell’invito trascorsa è già l’oraRosa Ponselle, Millo Picco, Henriette Wakefield, Angelo Badà, Alfredo Gandolfi, dir. Ettore Panizza (1935)

Libiamo ne’ lieti caliciCarlo Bergonzi, Renata Scotto, dir. Eliahu Inbal (1970)

Che è ciò?…Un dì, felice, etereaMaria Callas, Cesare Valletti, dir. Oliviero de Fabritiis (1951)

E’ strano…Ah, fors’è lui…Sempre liberaBeverly Sills, Alfredo Kraus, dir. Aldo Ceccato (1970), Joan Sutherland, Richard Tucker, dir. Richard Bonynge (1970), Maria Chiara, Robert Ilosfalvy, dir. Nello Santi (1974)

 

Atto II

Lunge da lei…De’ miei bollenti spiriti…O mio rimorsoAlfredo Kraus, dir. Aldo Ceccato (1970)

Alfredo?…Madamigella Valery?…Pura siccome un angelo…Dite alla giovine…Morrò! La mia memoriaMaria Caniglia, Mario Basiola, dir. Vittorio Gui (1939)(1939), Magda Olivero, Manuel Ausensi, dir. Angelo Questa (1956), Maria Chiara, Renato Bruson, dir. Giuseppe Patané (1974)

Dammi tu forza, o cielo!…Amami AlfredoEleanor Steber, Giuseppe di Stefano, dir. Giuseppe Antonicelli (1949)

Ah, vive sol quel core…Di Provenza il marAlfredo Kraus, Sesto Bruscantini, dir. Peter Maag (1967)

Avrem lieta di maschere la notte…Noi siamo zingarelle…Di Madride siam matadori…Alfredo! VoiThelma Votipka, Lawrence Davidson, George Cehanovsky, Leslie Chabay, Giuseppe Di Stefano, Eleanor Steber, dir. Giuseppe Antonicelli (1949), Liliana Pellegrino, Angelo Caroli, Gino del Signore, Nunzio Gallo, Giacinto Prandelli, Renata Tebaldi, dir. Carlo Maria Giulini (1951), Romana Righetti, Silvio Maionica, Giorgio Goretti, Alfredo Giacomotti, Renato Cioni, Mirella Freni, dir. Herbert von Karajan (1964)

Invitato a qui seguirmi…Ogni suo aver tal femmina – Renata Scotto, Carlo Bergonzi, dir. Eliahu Inbal (1970)

Di sprezzo degno…Alfredo, Alfredo, di questo coreRenato Bruson, Alfredo Kraus, Maria Chiara, dir. Giuseppe Patané (1974)

 

PreludioOrchestra del Teatro alla Scala, dir. Herbert von Karajan (1964)

Atto III

Annina?Renata Scotto, Maria Cristina Pedretti, dir. Eliahu Inbal (1970)

Teneste la promessaAntonietta Stella, dir. Tullio Serafin (1955)

Addio del passatoVirginia Zeani, dir. Angelo Questa (1956), Leyla Gencer, dir. Nicola Rescigno (1964)

Largo al quadrupede…Parigi, o cara…Gran Dio! Morir sì giovineMaria Caniglia, Beniamino Gigli, dir. Vittorio Gui (1939)

Ah! Violetta!…Prendi quest’è l’immagineFranco Bordoni, Gianfranco Pastine, Raina Kabaivanska, dir. Armando Gatto (1974)

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