La Bohème in Scala. “Divertitevi!”

“Sii spontaneo!”, “Sii te stesso!”. La recita della prima di Bohème in Scala, andata in scena lo scorso mercoledì, potrebbe venir messa in catalogo come l’ennesimo esempio di ciò che qualcuno ha definito una volta “paradosso pragmatico”. Mai era successo infatti che l’opera – o, meglio, il gradimento di una rappresentazione – potesse rivelare qualche recondita affinità con la psicopatologia della comunicazione. Perché non saprei come altrimenti interpretare le continue, infinite uscite che i cantanti concedevano generosi alla fine di ogni atto e poi al curtain call – con l’unico momento in cui il pubblico si è davvero commosso coinciso con l’entrata sul proscenio di Zeffirelli, salutato a ragione come un’apparizione celeste – se non quale nuova declinazione di certi paradossali imperativi di natura psicologica. “Siate spontanei!”, appunto. O, considerato il contesto, “Divertitevi!”. Oppure, per essere ancora più prosaici, “Dovete divertirvi! State assistendo a un grande spettacolo!”. Va bene che l’altruismo, per essere tale, dovrebbe sempre essere evidentemente… “spontaneo”, e non dovuto, ma farne addirittura un principio di carità, magari no. Perché, a conti fatti, la sproporzione – per non parlare poi del conseguente disagio – tra gli smorti clap clap degli spettatori e la profusione di abbondanti quanto immaginarie chiamate era sotto gli occhi di tutti. Come cartina di tornasole basterebbe ricordare l’accoglienza degli stessi assoli – che, sappiamo bene, in Bohème non sono semplici arie ma alcuni dei momenti più popolari e amati dell’intero repertorio lirico – finiti quasi sotto silenzio: se non si è ripetuto l’unicum di Kaufmann, con “le stelle” di Tosca che si spegnevano nel flusso musicale manco si trattasse del Naso di Šostakovič, poco ci mancava. Ci chiediamo dunque come un titolo così celebrato per la sua capacità di mettere in scena il freddo e le sue metafore – infuocando però i cuori di infinite platee – possa aver smesso davvero di scaldare: palco e platea, mercoledì sera, erano le facce di uno stesso gelo. Una coltre di galaverna che si guardava allo specchio. Mi auguro che le ragioni possano tutte trovarsi nella prevedibilità di un cast e di una bacchetta che a conti fatti non hanno convinto e che già in partenza non riservavano certo grandi promesse, come poi testimonierebbe la misera coda di slavi e giapponesi per i posti di loggione, la mattina stessa. Ma questa sarebbe una chiave di lettura talmente ottimistica che nemmeno Dickens…
La bacchetta, dunque. Daniele Rustioni aveva diretto nel 2010 in Scala una mediocre Occasione fa il ladro nell’ambito del tradizionale titolo estivo destinato agli allievi della Scala. C’era poco mordente all’epoca, non ve n’era traccia l’altra sera. Manca qui la sensibilità e il tocco capace di seguire e accompagnare i cantanti nei passaggi più spigolosi del dialogo pucciniano, la risolutezza nel gestirlo e l’accortezza di sagomarlo per rivelare senso della parola e stato d’animo dei personaggi. Rustioni fatica ad amalgamare e rendere sinuoso l’apparato strumentale – che ha le sue gravi responsabilità – non solo nei momenti di più palese concitamento (secondo atto) ma anche quando il tessuto orchestrale si dirada – dovrebbe diradarsi… – in slanci di abbandono. L’entrata di Mimì è loffia (violini e fiati sciatti e fissi), senza alcuna spinta o cambio di ritmo, nemmeno all’attacco di “Oh” Sventata!”. E la descrizione dell’alba del terzo atto è un’istantanea sul panorama lattescente dell’Alaska più che una pennellata del rigido inverno parigino. Non si infiamma mai, Rustioni, nemmeno con l’invocazione di Mimì a Marcello, in apertura di terzo atto (“O buon Marcello, aiuto!”). I rari casi in cui la buca si anima, invece, è lode al metronomo (“Importuna è la vicina”, inizio di secondo atto; l’accompagnamento dell’assolo di Mimì nel terzo), peraltro assecondata dal fraseggio del tenore (“Co-sa-di-ce,-ma-le-pa-re?”): e non c’è peggior omaggio a un’opera come Bohème di una direzione che richiami da una parte i ritmi della catena di montaggio e dall’altra la vigoria di un’onda di fiume in contesto di acquitrino.
Ma veniamo al cast. Per una volta, il ritorno del divo in Scala è stato pensato in un’ottica di buon senso e consapevolezza di ciò che egli può (ancora?) dire. Non che Angela Gheorghiu abbia mai impressionato “quelli del Corriere”, ma la vocalità di Mimì ha sempre rappresentato ciò che il soprano rumeno ha potuto meglio trarre dal palco d’opera. Tuttavia, siccome cachet e aspettative – su colei che per anni è stata messa alla stregua di un’effigie di matrice divina – sono per forza di cose alti, il risultato è il solito soufflé bucato, pur con qualche pallida attenuante (…e ci mancherebbe!). L’aspetto più fastidioso è di natura – osiamo pur dire – morale: non è accettabile che un cantante trascini in scena l’estensione del suo essere divo, tra civetterie spesso fuori luogo e una cinesica da gran galà. L’agogica poi è pretestuosa, atta a mendare una capacità polmonare non certo di primo piano, come dimostrano alcune accelerazioni improvvise e attacchi spediti, da scioglilingua (valgano su tutti, i primi versi dell’aria di sortita del primo atto).  La resa vocale viaggia a corrente alternata, tra buoni momenti (“Donde lieta uscì”) e cadute pacchiane. Se gli acuti risultano un po’ aperti, la zona medio-acuta è ancora salda, facile da modulare e con un potenziale di effetti a discreto contenuto espressivo, come nel duetto Mimì-Marcello oppure, come già detto, nell’aria del terzo atto, risolti con qualche “piano” degno di nota (Bada…”). Grottesco il registro grave, gonfiato e plateale, a mo’ di fattucchiera. Complice – ed è ciò che davvero lascia di sale, con una carriera pluridecennale alle spalle – una dizione che potremmo definire “naturalistica” se solo Zeffirelli avesse pensato a uno slum di Bucarest quale quadro d’azione. Tutto ciò al netto di una voce che comunque fatica a proiettarsi, finendo per diventare quasi inudibile nei pochi momenti in cui Rustioni alza un po’ la voce.
Quanto detto per la Gheorghiu vale anche per Piotr Beczala. Il tenore ceco troverebbe nella parte di Rodolfo l’ideale terreno di elezione. Tonnellaggio adeguato, timbro fresco e chiaro. Il problema arriva se cominciamo a chiederci dove stia il senso della parola e quindi in generale il giovane bohèmien. Perché non c’è scavo nel canto di Beczala. Tenta di rispettare le indicazioni dello spartito ma il fraseggio è sempre inerte, “ravvivato” solo da un’elargizione generosa del singulto che finisce solo per ribadire quanto venga frainteso Puccini nella sua cornice realista. La voce gira piuttosto bene in zona centrale, al netto di una tendenza a spingere un po’, anche quando il momento farebbe pensare invece a tutt’altro approccio (“SEI MIAAAA!”, nel duetto in chiusura di primo atto). Infine, ricordiamo che se gli estremi acuti sono stati la spina nel fianco di molti grandi tenori di grazia del passato, di certo le testimonianze non ci riportano dei La e Si bemolle sguaiati e sfibrati come ci è stato dato sentire la sera della prima (“L’idea vampi in FIAmma”; “Chi SON” e “TaLOR dal mio forziere”, nella “gelida manina”; “Sovra ogni cosa al MONdo, nel duetto con Marcello nel terzo atto; il sol4 che chiude le terzine “Essa canta e sorride, e il rimorso m’assale. Me, cagion del faTAle mal che l’uccide”, sempre nel terzo atto).
Quanto alla coppia più sbarazzina, Fabio Capitanucci è un baritono chiaro dal timbro tutt’altro che fatato, ma bitumato per natura, potremmo aggiungere. Però è cantante intelligente: lo si capisce da come cerchi di dare ogni volta un significato preciso al testo, variando ritmo e intensità ai fini della credibilità del suo Marcello. Riascoltare il duetto con Mimì per appurarlo. Peccato che la voce non sembri pienamente sfogata e tenda ad andare indietro non appena la tessitura si alzi. Sulla Musetta di Ellie Dehn c’è poco da rilevare: dico solo di aver sentito cantare il suo valzer in maniera più dignitosa da alcuni soprani – allievi di mediocri accademie – che la domenica pomeriggio intrattengono gli ammalati negli ospedali della provincia di Milano. Un livello di amatorialità talmente alto che dettagliare gli effetti di una voce aspra, metallica, carente di legato e del minimo concetto di respirazione vorrebbe dire abbassarsi al turpiloquio. Tra gli orrori, valga la scommessa che difficilmente il loggione – non proprio parco di sghignazzi durante i passaggi più “critici” – dimenticherà la scala ascendente che precede di qualche battuta l’assolo e il salto di settima ascendente al Si naturale del valzer stesso (“tutta ricerca in ME”).
Infine, tra le parti minori, non sfigura lo Schaunard di Massimo Cavalletti, coi centri nitidi e gli acuti non più ingolfati di tanti baritoni scritturati in prime parti al Piermarini. Mentre dà di stomaco Marco Spotti, mediocre Colline dall’intonazione gravemente difettosa (“Vecchia zimarra”).

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10 pensieri su “La Bohème in Scala. “Divertitevi!”

  1. Anche io ho presenziato (mio malgrado) alla recita del 26, e devo dire che concordo più o meno su tutto con te, carissima Carlotta, una recita a mio avviso pietosa; la Gheorghiu (o quel che ne rimane) è l’ombra di se stessa, si ostina a fare la divetta con mossettine e caricature non solo dal dubbio gusto, ma anche davvero ridicole, dato anche il personaggio, che non è una regina, ma una semplice ragazza.
    Beczala ha un bel mezzo, timbro fresco, ma non lo sa proprio sfruttare! ha degli acutacci tremendamente urlati, e l’impostazione è quantomeno grezza e priva di bel fraseggio. Unica nota positiva (vabbè 😀 ) era più in forma di Salisburgo.
    Dehn: (chi è?????). Premessa: le UNICHE cantanti che a parer mio son riuscite a dare la giusta caratterizzazione (sia interpretativa che vocale) a Musetta sono la Supervia, la Moffo e la Popp, che hanno creato un personaggio molto furbo, che cuoce gli uomini a fuoco lento (valzerino), e non quella di una facilona che grida “Marcello, saltami addosso”. Detto ciò, ovviamente da costei (giuro, non so chi sia) non mi aspettavo di certo i livelli delle dette dame, ma un minimo! è riuscita a deludere anche le mie infime aspettative, vociuzza da gallina, respiri presi alla carlona e totale mancanza di espressione.
    Sul fatto Rustioni non sono pienamente d’accordo, perchè secondo me certamente non è Kleiber (ma nemmeno Muti, sia chiaro), però è un giovane (finalmente) talentuoso, e la sua direzione è risultata sufficente, forse alcune parti non erano ben studiate, ma ho sentito sprazzi molto interessanti, sopratutto verso la fine dell’opera. Troppo fracassone nel secondo quadro. “Chi si accontenta gode?” boh, a me non è dispiaciuto 😉
    La regia di Zeffirelli (la più bella edizione di Boheme che abbia visto), la conosco (come molti in sala) a memoria, in quanto da poco più di una decina d’anni è entrata a far parte (insieme a Strehler) di quegli allestimenti “tappabuchi”…insomma, per farla breve è in cartellone una stagione si e una no..la ripresa (affidata a Tosi, se non erro) non mi ha entusiasmato, troppo “scintillante”, troppo “metropolitanesca” (inteso come il MET teatro)…la versione di Zeffirelli era più cupa, più malinconica, ma non per questo sciatta.
    P.S. ho sentito dal loggione (insieme alle ovazioni di gente dalla facile identificazione), anche dei confortanti buu; se eravate voi, vi ringrazio, avete movimentato una serata che senza di essi si sarebbe potuta dire riservata alle case discografiche, e le sciure in platea mi guardavano molto male 😀 )
    Cordiali Saluti

    • Sulla Popp sono d’accordo. Storcevamo il naso, ma… troviamo oggi una Musetta più rifinita o meno chioccia (doppia accezione dovuta!)? O una Regina della Notte più calibrata?
      p.s.
      Non ho sentito alcun buu.

      • Concordo in pieno, incarnava benissimo un personaggio che oggi risulta più difficile da eseguire della stessa Mimì.
        P.P.S. ho sentito pochi buu alla fine dell’opera, seppur belli stracchi, ma son serviti a confortarmi…magari per la disperazione me li sono immaginati 😀

    • C’ero anch’io in Scala, mercoledì, e sottoscrivo quanto sopra, anche se sono più d’accordo con Stefix che con Carlotta per quanto concerne la direzione di Rustioni: nell’insieme l’ho trovata accettabile, nonostante alcuni tratti un po’ troppo “bandistici”. Pollice verso per una Musetta inqualificabile, semplicemente inesistente. La Gheorghiu sfiora il ridicolo: a me, peraltro, non sono piaciuti ne’ il “donde lieta uscì”, piatto piatto, e nemmeno il “sì, mi chiamano Mimi”, tanto forzato e spinto come se dovesse andare all’arrembaggio (ma de che???). E che dire di quelle vocali sempre aperte e “ciabattate”? Io la chiamo sciatteria.
      Beczala non mi dispiace nel timbro, ma, correggetemi se sbaglio, io ormai sento cantare tutti con la gola (alla Kaufmann, per intenderci), per cui c’è spazio per tanti strilli.
      Io e mio marito eravamo in galleria gli unici italiani nell’arco di diversi posti a sedere: la Scala è ormai un teatro per turisti.
      Ce ne siamo andati ben prima del curtain call, siamo stati sollecitati fin troppo già ad ogni fine atto….

  2. Continuo a non capire come sia possibile che alla Scala non azzecchino una produzione, una, dico, UNA SOLA! Almeno sulle “opere sacre” che si impegnino, santo cielo! Ma possibile che da quando c’è l’accoppiata Barenboin-Lissner non si senta quasi più niente di livello veramente alto?

  3. Bentornata Carlotta. Sono a grandi linee d’accordo con te, anche se non trovo che Vinco abbia stonato solo la “zimarra”, che la Gheorghiu abbia alcuna zona facile a modulare, che Beczala abbia in Rodolfo il suo naturale terreno d’elezione, che Capitanucci vari ritmo ed intensita’ se non a scapito della linea di canto. Sull’altro soprano sara’ bene tacere, e Cavalletti e’ l’unico (almeno nel centro) ad aver emesso delle note non collegabili a qualche malore fisico o psichico. Ah, il direttore, un’infermiere mal riuscito, non entra proprio in contatto con i pazienti, nonostante si prodighi, porello.

  4. concordo pienamente con quanto scritto. Alla generale con Gheorghiu c’era Grigolo. Bella voce ma ……..Il direttore d’orchestra è un battisolfa senza se e senza ma. Alla genreale poi cantava????? anche il basso Vinco. Mi son detto: povera Scala.

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