Verdi Edission. Simon Boccanegra.

“Excusatio non petita, accusatio manifesta” recita un vecchio brocardo medievale, ma nessuna scusa e nessuna accusa vogliono esserci in questa breve premessa circa il seguente capitolo della Verdi Edission. Il lettore più attento, infatti, potrebbe avere un senso di déja vu: e non sbaglierebbe. Questo Corriere – tanto amato e odiato – si è occupato spessissimo del Simon Boccanegra (e Verdi non sarebbe dispiaciuto di questa attenzione postuma ad una delle sue creazioni meno fortunate), tanto che ci è sembrato inutile scrivere un nuovo pezzo rimasticando concetti già espressi, così abbiamo preferito adottare la prassi dell’autoimprestito (e del resto non stona, in un sito che parla di opera, l’adozione di una pratica di cui fecero uso e abuso Rossini, Donizetti, Bellini, Handel o Vivaldi). E quindi, al lettore benevolo, chiediamo di accostarsi a questo nostro Boccanegra con la stesso animus con cui ascolterebbe Eduardo e Cristina o qualche altro centone di cui è piena la storia del melodramma (che non è solo “forma ideal purissima”, ma anche artigianato e mestiere). Corre fare un piccolo avvertimento: proprio l’ampia frequentazione del titolo – sulle nostre pagine – ci ha convinti a dedicare una sola puntata per entrambi i Boccanegra, quello del 1857 e quello del 1881, dando conto delle modifiche e delle varianti. Questo non perché crediamo che il catalogo del Cigno di Busseto si esaurisca nei canonici 27 titoli (solo frange di nostalgici e sedicenti sommi pontefici del culto verdiano si ostinano in questa facile banalizzazione, e non considerano l’autonomia di Jerusalem – che è opera completamente diversa dai Lombardi – o le due diversissime versioni di Don Carlo), ma per amore di sintesi e praticità.

E’ arcinota l’ansia di Verdi – soprattutto nell’ultima parte della sua carriera – nel rivedere forma e sostanza di alcuni titoli del suo vecchio catalogo: a volte per ragioni estetiche (finalizzate ad un supposto “miglioramento” dell’originale che, forse, non aveva ottenuto il successo sperato), ma più spesso per mere contingenze (Verdi fu sempre uomo pratico), rappresentate dall’occasione di riprese di lavori passati, sui quali sembrava necessario (e lo era in un teatro lirico ancora vivo e non già imbalsamato in una, pur splendida, sala di museo) un attento restyling per consentire maggior appeal all’orecchio di pubblici nuovi e diversi, ormai avvezzi ad altri linguaggi: certe formule che erano prassi almeno sino alla metà del secolo e oltre, derivate dal melodramma donizettiano e tardodonizettiano – ambito entro il quale si muoveva diligentemente il primo Verdi – non erano più proponibili a cominciare dagli anni ’60. Non si commetta, però, l’errore di scambiare questo procedimento (assolutamente naturale e comune) per un progresso anche qualitativo, in ossequio ad una concezione hegeliana della storia intesa come processo di superamento e maturazione verso un livello superiore! E’ semplicemente un mutare linguaggio per renderlo più comprensibile e spendibile. Peraltro Verdi, procede in modo assai differente a seconda delle esigenze, delle circostanze, delle necessità e del titolo oggetto di revisione, passando dalla mera sistemazione di dettagli (orchestrali e vocali) all’omissione di taluni brani ormai morfologicamente superati, all’aggiunta di pezzi nuovi, sino al totale stravolgimento della struttura musicale dell’opera. L’esempio del Boccanegra si pone a mezza via. La prima versione dell’opera ebbe il suo battesimo a Venezia, il 12 marzo 1857. Non fu un successo: Verdi scrisse, a Maffei, “ha fatto fiasco quasi altrettanto grande che quello della Traviata”. Forse esagerava. Gli esiti comunque non furono lusinghieri e non mutarono neppure nel corso delle poche repliche. Diversi furono i fattori che ne causarono la caduta – lo ammise lo stesso autore, parlando di “musica che non fa immediatamente colpo”, e lo riconobbe la stampa coeva che, riportando, evidentemente, le sensazioni del pubblico, lamentò un’eccessiva cupezza e severità. Succeduta di poco alla “trilogia popolare” – che segnò il primo, vero punto di svolta nell’estetica verdiana, rispetto ai cosiddetti “anni di galera” – il Simone si inserisce in quella fase di passaggio e transizione che comprende i Vespri Siciliani e, soprattutto, il Ballo in Maschera. Il linguaggio verdiano, che ancora risente della tradizionale separazione dei numeri chiusi e di tutti i cliché del genere (nella scansione di arie e cabalette, concertati e strette), mostra, tuttavia, evidenti sforzi per un superamento delle forme. Ciò che ancora sopravvive, nella scrittura vocale e nell’accompagnamento, è innanzitutto l’attaccamento a soluzioni debitrici del melodramma romantico donizettiano (un canto ancora fiorito e abbastanza rigido, con cabalette d’ordinanza e separazione netta tra episodi solistici e recitativi), nonché un uso essenziale e spesso impacciato dell’orchestra, in bilico tra strumentazione ora bandistica (e piena di effettacci) ora esageratamente scarna, finalizzata ad un mero accompagnamento privo di ogni intento espressivo. Il primo Boccanegra risente di tutti questi aspetti, a cominciare dalla struttura: si apre con un breve preludio (tra i meno ispirati dell’autore) che si limita a riassumere alcuni temi dell’opera, segue la classica introduzione con cori e solisti, per sfociare nella cavatina dell’antagonista. E così via. La strumentazione è elementare, severa, rigida e cupa. Le formule vocali sono ripetitive. Ma Simone aveva a differenza di tutti gli altri titoli del primo Verdi (Ernani escluso, che, infatti, ebbe costanti rappresentazioni per tutto l’800 e, frequenti nel ‘900) in sè il colore ed il fascino della Storia, che era sopravvissuto nel favore dei musicisti alla stagione del grand-opera, che i post verdiani , capitanati da Boito, ritenevano il modello di opera contemporanea. Tutto questo viene rivisto nel 1881: l’occasione è data dall’appena nata collaborazione con Arrigo Boito (che rivide il libretto) e dalle insistenze di Ricordi che cercava in ogni modo di riportare il musicista al teatro, dopo il lungo silenzio succeduto ad Aida; ma già nel 1868 l’editore (10 anni dopo la prima) propose a Verdi di riprendere in mano l’opera, ottenendo un seccato rifiuto ( “opera troppo triste e monotona” scrisse l’autore). Verdi ci lavorerà per più di 6 settimane, rivedendo quasi ogni singola battuta. La scrittura orchestrale si fa più elaborata, tendente a fondere con essa la linea vocale. Ma oltre a questo complesso lavoro di piccoli tagli, continui ritocchi, inserzioni e modifiche – che, pur stravolgendone il contenuto, mantengono intatta la struttura – Verdi opera alcuni cambiamenti radicali: importantissimi per il rilevo che assumono nel rapportarsi alle soluzioni estreme della parabola musicale dell’autore.  In particolare: elimina il preludio (sostituito da una breve e suggestiva introduzione strumentale) e la cabaletta che segue l’aria di sortita di Amelia; riscrive completamente il duetto tra Fiesco e Gabriele nell’atto I; sostituisce il finale d’atto – che prevedeva originariamente una scena di festa in onore del doge davanti al porto di Genova – con la grande scena del Palazzo Ducale; compone una nuova scena in apertura dell’atto III. Tutti questi cambiamenti sono emblematici del procedere dello stile verdiano e dell’evoluzione della sua scrittura – che non diventa necessariamente migliore, ma semplicemente diversa: anzi, a dirla tutta, il “nuovo” Boccanegra presenta al suo interno problemi di coerenza compositiva (il distacco di oltre vent’anni tra le due redazioni, infatti, è distanza incolmabile e le differenze stilistiche rimangono evidenti, soprattutto nell’atto II, nonostante gli sforzi dell’autore protesi nello smussarle il più possibile), laddove la versione originale si presenta, invece, seppur con tutte le sue evidenti debolezze, come un lavoro del tutto compiuto e omogeneo, sicuramente ancora debitore di certe convenzioni (poi superate), ma strutturalmente più compatto e drammaticamente efficace.

Tralasciando i numerosissimi dettagli della revisione che, come già accennato, percorrono l’intera partitura (in effetti ogni singola battuta viene ripensata), vorrei soffermarmi – sulla scorta dei fondamentali volumi del Budden e basandomi sulle poche incisioni esistenti che riportano la stesura originale – su quegli episodi che marcano la differenza tra le due versioni.

1) Preludio: scomparso nella redazione del 1881 e sostituito da una breve introduzione strumentale di appena 26 battute (caratterizzata da un andamento lirico e nobile con un impiego molto delicato ed evocativo della tavolozza strumentale), il preludio non è che un centone di alcuni temi che si ascolteranno nel corso dell’opera. Strutturato in quattro sezioni, si apre con dei rozzi accordi suonati ad orchestra piena, a cui segue la citazione del tema lirico del duetto tra il doge e Amelia fino ad un crescendo che propone il tema della sommossa ordita dai cogiurati (orchestrato in modo bandistico), per terminare col tema finale del perdono. Un brano decisamente poco ispirato, pesante e piuttosto ingenuo (ben altro livello aveva raggiunto Verdi con altri preludi precedenti: si pensi a Traviata, ma anche ad Attila Masnadieri) con l’unico pregio della brevità: poco meno di 3 minuti di musica scadente.

2) Cabaletta di Amelia: dopo la sortita del soprano “Come in quest’ora bruna” (che nella prima stesura non presenta la suggestiva ed evocativa raffigurazione strumentale dell’aurora che sorge sul mare, bensì una più convenzionale introduzione) e appena seguente alla voce di Gabriele fuori scena (accompagnata da una fisarmonica, sostituita poi dall’arpa nelle revisione del 1881), la versione originale prevedeva una cabaletta prima della scena e duetto col tenore, a rappresentare l’esplosione di gioia per l’imminente arrivo dell’amato. Dello stesso stile di “Trionfai” del primo Macbeth (e ugualmente espunta), è la tipica cabaletta con il da capo: caratterizzata da una scrittura vocale ancora virtuosistica (con abbondanti trilli) e un veloce accompagnamento arpeggiato, segna un deciso passo indietro, nella sua convenzionale banalità. Brutta e inutile la definì Verdi, e con ragione: eppure ancora nel 1883, in occasione di alcune recite a Parigi, il soprano chiese all’autore di ripristinare proprio quella cabaletta (probabilmente per dare mostra delle sue doti), e, poiché nel frattempo la partitura non era più disponibile, di ristrumentarla: naturalmente l’autore rifiutò seccato, sostenendo di averla ormai gettata nel fuoco.

3) Duetto tra Fiesco e Gabriele: la versione originale prevedeva, in luogo del duettino del 1881 (col suo procedere organistico e solenne, ma senza effettacci), un’esplosione rabbiosa nei confronti del doge, un giuramento di vendetta tra timpani, grancasse e ottoni. Un brano feroce, ma non privo di una sua efficacia.

4) Finale dell’atto I: è il cambiamento più rilevante. Al posto della famosa scena nella Sala del Consiglio (considerata, e a ragione, uno dei vertici del teatro verdiano, nonostante certi eccessi di Boito che sfiorano il comico involontario: il “romito di Sorga”, ne è esempio preclaro e, spesso, saggiamente modificato), vi era in origine un finale assai più convenzionale con coro, banda, ballabili, concertato dei solisti e stretta conclusiva. La scena è una vasta piazza di fronte al porto, sovrabbondante di gente d’ogni sorta e imbarcazioni, in occasione della celebrazione dell’anniversario dell’incoronazione del doge. Si apre con un lungo episodio corale: musica festosa, senza troppe pretese, di puro intrattenimento (come tutta la musica cerimoniale dell’epoca) che comprende una barcarola di voci femminili, un inno al doge di retorica bruttezza, un ballabile di corsari africani e di nuovo coro femminile e banda: effettacci a profusione (nemmeno negli anni di galera l’ispirazione di Verdi era scesa così in basso)! A seguire, la denuncia del rapimento di Amelia e l’accusa al doge, ritenuto responsabile: la situazione degenera fino all’ingresso dell’interessata che scagiona Boccanegra, lasciando tutti sorpresi. Qui Verdi inserisce un sestetto “di stupore” (che nel suo effetto di sospensione e di staticità, come afferma giustamente il Budden, ricorda troppo certi espedienti dell’opera buffa per non suscitare una certa ilarità, del tutto inadatta ed incongrua al momento così altamente drammatico). Dopo il racconto di Amelia circa il suo rapimento (in parte mantenuto nella revisione), segue la consueta stretta, ancora irrinunciabile nel 1857, che conclude l’atto in un banale accordo in maggiore: nulla di diverso da un Pacini o un Mercadante, solo molto meno riuscito e molto più scontato. Poco o nulla di tutto questo rimarrà nella redazione del 1881 e nel Verdi maturo.

5) Inizio dell’atto III: nel 1857 la scena si apre con un doppio coro di vittoria, banda e popolo fuori scena, orchestra e senatori in scena. Un breve dialogo tra Paolo e Pietro, interrotto da un coro nuziale in lontananza, introduce l’arrivo di Fiesco che apprende, inorridito, dell’avvelenamento del doge. La revisione è radicale, il personaggio di Paolo assume un nuovo e più disperato spessore, mentre Fiesco si rassegna al proprio destino.

Riassumendo la portata degli interventi si può ben affermare che il lavoro di Verdi, in quest’occasione, fu ben più radicale che nel Macbeth o nella Forza del Destino: non solo questi 5 episodi, ma l’intera partitura venne ripensata, i personaggi stessi assumono nuovi caratteri (Paolo, ad esempio, ottiene una maggiore complessità; Fiesco e Boccanegra vengono meglio rifiniti nel loro carattere di disillusa nobiltà, Amelia perde certe incongruenti incrostazioni belcantiste passando da soprano drammatico d’agilità a soprano drammatico come Aida o donna Leonora de Calatrava e pure Gabriele acquisterà un maggior interesse, anche se il personaggio resta il meno riuscito dell’opera e quello più legato alle convenzioni che pretendevano un innamorato tenore). Tuttavia, ancora evidenti rimangono le suture tra vecchio e nuovo: troppi anni sono passati, troppo legata a formule ormai desuete è la versione originale e troppa strada aveva percorso il linguaggio verdiano (non insensibile alla continuità drammatica di una scrittura post-wagneriana). Otello e Falstaff erano alle porte e, nonostante gli sforzi e le revisioni, una classica “opera a cabaletta” restava estranea alla nuova poetica (diverso il caso di Don Carlo che già in partenza parlava un diverso e più moderno linguaggio).  Il 24 marzo del 1881, la nuova versione di Simon Boccanegra va in scena al Teatro alla Scala di Milano, con un cast di prestigio, a cominciare dal direttore, Franco Faccio, oltre a Victor Maurel (Simone), Francesco Tamagno (Gabriele), Edouard De Reszke (Fiesco) e Anna D’Angeri (Amelia, anche se Verdi aveva pensato alla Patti). L’opera ottenne un buon successo (ben lontano, però, dall’atteso trionfo), ma faticò non poco a circolare stabilmente nei teatri. Anche in seguito il titolo esercitò scarso interesse soprattutto nelle grandi bacchette del XX secolo, nonostante – in genere – le estreme partiture del compositore beneficiassero di numerose attenzioni da parte di direttori di solito più avvezzi alla musica sinfonica o all’opera wagneriana e post wagneriana (e le ragioni stanno sempre nella natura ibrida del Boccanegra: ancora “in sospetto” di melodramma). Certo vi sono state eccezioni assai significative: Mitropoulos, Abbado, Levine, Solti. Pochi nomi, rispetto ad altri titoli di Verdi. Ma nomi importanti: alcuni intoccabili. Eppure il Boccanegra è anche opera da direttori: vi sono molti luoghi della partitura ove una grande bacchetta può mostrare il proprio virtuosismo. E la capacità di legare in una visione unitaria i tanti squilibri che l’avvicendarsi della scrittura verdiana e i differenti linguaggi (mal conciliati tra loro, e forse inconciliabili), han lasciato irrisolti. A parte l’atto II – forse quello più problematico, e a cui la revisione non ha affatto giovato, ancora troppo legato agli stilemi ormai sorpassati del melodramma da cappa e spada, e lasciato lì, drammaticamente insulso e musicalmente poco significativo, nell’economia del titolo – l’opera permette al direttore grandi slanci. Si pensi al tono cupo del prologo, dai contorni sfumati e misteriosi in un’atmosfera notturna e tragica: l’eliminazione della goffa sinfonia permette a Verdi l’inserimento di un breve preludio orchestrale risolto su di un tema avvolgente e delicato, che subito trasporta l’ascoltatore nel clima di cospirazione che prelude all’elezione del “primo abate”, clima rafforzato dalle raffinate soluzioni orchestrali che accompagnano dolcemente un canto prescritto sottovoce, ad accentuare il mistero. L’apertura dell’atto I, con il preludio che introduce la cavatina di Maria e vuole evocare l’aurora che sorge sul mare, con tinte delicate e nebbiose, e un preziosismo strumentale e timbrico che resta una delle vette compositive dell’autore, fatto di luci e colori tenui su cui, poco a poco, si sparge il calore del sole che sorge, colorando la tinta di maggior passione, maggior definizione tonale e trovando sfogo nel grande cantabile del soprano, screziato, però, dalla malinconica presenza di memorie passate e dolorose. E ancora il finale I, con la grande scena nel Palazzo degli Abati (che sostituisce la più convenzionale scena di festa che conclude la prima versione, con la consueta formula di concertato e stretta), espressione tra le più alte della visione politica di Verdi e dall’elaboratissima struttura musicale che su di uno strumentale ricco, ma mai ingombrante, alterna concertati ed episodi solistici, a rappresentare l’altezza morale del protagonista che richiama, per grandiosità di impianto la conclusione del Fidelio. E poi la prima scena dell’atto III e, infine, la morte di Simone che chiude l’opera in tono sommesso e commosso (non dissimile alla morte di Boris, ma senza le ombre di rimorso che annebbiano la mente dello zar). Grandi momenti, in cui non è la mera esibizione vocale, o l’incisività del ritmo, o l’efficacia teatrale che dominano, quanto, piuttosto un’alta elaborazione musicale che emerge dalla direzione d’orchestra, chiamata a dare un respiro unitario all’andamento strumentale, amalgamandolo al canto ed evidenziando l’aspetto di severa nobiltà dell’opera (scambiata, dai detrattori, per cupezza e grigiore) in una costante tensione morale. Certo, titolo popolare non lo fu e non lo è tuttora, ma – nonostante il titolo rimanesse relegato ai margini della produzione verdiana (almeno sino agli anni ’60 del secolo XX) – piacque immediatamente a grandi baritoni e bassi: Maurel, Battistini, Galeffi, Tibbett e Schlusnus, Kipnis, Pinza e Pasero. E a proposito di vocalità è interessantissimo leggere la corrispondenza coeva al primo allestimento del rifacimento per capire le esigenze drammaturgiche e vocali, soprattutto riferite al protagonista. In una lettera del dicembre 1880 Teresa Stolz relaziona l’amato maestro circa la compagna di canto attiva in Scala per quella stagione e che, secondo l’uso del tempo, sarebbe stata con qualche rinforzo, la destinataria del rifacimento. Allo stesso ufficio risponde una lettera di Franco Faccio direttore di Ernani, titolo proposto con i cantanti destinati, poi, al Simone. In particolare il maestro Faccio si dilunga su Victor Maurel, Carlo V in Ernani e futuro titolare di Simone per elogiarne le doti interpretative, predilette da Verdi, che lo ritenne superiore a cantanti acclamati come Gottardo Aldighieri e soprattutto Mattia Battistini. La preoccupazione per Verdi era duplice con riferimento al protagonista ossia adeguare il ruolo, in origine pensato per Leone Giraldoni alla vocalità di Maurel e offrire la massima resa ad un reputato interprete oltre che esecutore. Tutti i passi aggiunti, a partire dalla grande scena del palazzo degli Abati al monologo che inaugura l’ultimo atto, per tacere della scena della morte, rientrano non già nel genere dell’aria a pezzo chiuso, ma in quella della scena, struttura musicale e drammatica nella quale l’attore, il fine dicitore, l’interprete drammatico avevano il luogo di elezione ed esaltazione (in ossequio alle più recenti evoluzioni del linguaggio musicale e alla lezione wagneriana). L’autore, poi, nel rivedere in acuto la parte del doge (anche per meglio sfruttare le peculiarità di Maurel, cui poi imputò quella di cantare poco ed interpretare troppo) mirava a dare una più compiuta differenziazione tra il timbro del protagonista e quello dell’antagonista Jacopo Fiesco (segno, questo, della maturazione musicale rispetto alle formule vocali del melodramma classico). Prova ne sia che la Stolz e poi Verdi, sempre nella corrispondenza, lamentarono il timbro troppo baritonale di de Reszke. Era il 1881, epoca già di un certo realismo e l’aspetto ieratico e magari satanico (pensate alla frase “come un fantasima Fiesco t’appar” del duetto finale) imponevano il colore scuro della voce. Il vecchio patrizio genovese, ad onta dei fa diesis acuti, scritti, optional o interpolati è sempre stato riservato a bassi profondi.

 

Gli ascolti

Verdi – Simon Boccanegra

Prologo

A te l’estremo addio…Il lacerato spiritoJosé Mardones (1910), Tancredi Pasero (1927), Alexander Kipnis (1931)

Suona ogni labbro il mio nome…Simon? Tu?Lawrence Tibbett & Ezio Pinza (1935), Renato Bruson & Cesare Siepi (1980)

Atto I

Come in quest’ora brunaSusan Dunn (1988)

Propizio ei giunge…Vieni a me, ti benedicoGiovanni Martinelli & Ezio Pinza (1935)

Favella il Doge…Dinne, perché in quest’eremo…Orfanella il tetto umile…Figlia! a tal nome io palpitoLawrence Tibbett & Elisabeth Rethberg (1935), Tito Gobbi & Ilva Ligabue (1965), Renato Bruson e Margaret Price (1980)

Messeri, il Re di Tartaria…Nell’ora soave…Plebe, patrizi, popoloLawrence Tibbett (con Elisabeth Rethberg, Ezio Pinza, Giovanni Martinelli & Alfredo Gandolfi – 1935), Leo Nucci (con Susan Dunn, Simon Estes, Giacomo Aragall & Nickolas Karousatos – 1988), Vladimir Chernov (con Aprile Millo, Roberto Scandiuzzi, Plácido Domingo & Bruno Pola – 1995) / Bonus: Heinrich Schlusnus (1933)

Atto II

Figlia!Sì afflitto, padre mio…Vecchio inerme il tuo braccioLawrence Tibbett, Elisabeth Rethberg & Giovanni Martinelli (1935), Giuseppe Taddei, Antonietta Stella & Gianfranco Cecchele (1966)

Atto III

Cittadini…M’ardon le tempiaLawrence Tibbett (con Giordano Paltrinieri – 1935)

Era meglio per te…Delle faci festanti al barlume…Piango, perché mi parlaEzio Pinza & Lawrence Tibbett (1935)

Chi veggo!…Gran Dio, li benediciLawrence Tibbett (con Elisabeth Rethberg, Ezio Pinza & Giovanni Martinelli – 1935)

M’ardon le tempia…Era meglio per te…Delle faci festanti al barlume…Piango, perché mi parla…Chi veggo!…Gran Dio, li benediciGiuseppe Taddei (con Giorgio Tozzi, Antonietta Stella & Gianfranco Cecchele – 1966), Piero Cappuccilli (con Nicolai Ghiaurov, Raina Kabaivanska & Veriano Luchetti – 1976)

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108 pensieri su “Verdi Edission. Simon Boccanegra.

  1. Grazie per questa utilissima analisi, tra l’altro penso che molti di voi abbiano avuto il piacere di assistere al Simone scaligero del periodo d’oro Abbado-Grassi, che pero’ non mi sembra rappresentato negli ascolti (quello con Cappuccilli per intenderci) ,l’incisione del 1977 mi sembra una delle migliori in commercio e la confrontero’ con quella del 1975-prima versione-con Bruscantini (voce forse piu’ simile a quella di Maurel) diretta da Matheson.

  2. Caro Massimo, mi sarebbe piaciuto assistere a quel Simone, ma – per motivi anagrafici purtroppo (o per fortuna, a seconda dei punti di vista) – non potevo esserci. Concordo, però, con te: la trovo una splendida incisione (anche se – tra i colleghi del Corriere – ci sono dei “distinguo” in merito: a dimostrazione dell’inesistenza di una presunta “linea di condotta” del nostro sito, a cui tutti dovrebbero adeguarsi). Circa i mancati ascolti posso dirti che oltre a questioni legate al diritto d’autore (ovviamente l’incisione DGG non è “libera”), quel Simone scaligero è già conosciutissimo tra appassionati e non…ecco perché i brani proposti si riferiscono a testimonianze meno frequentate.
    L’edizione diretta da Matheson è importante soprattutto per il valore documentario (non ci si aspetti da quella direzione molto più di una generale correttezza) e per il Doge del grande Beuscantini (cantante che adoro sempre e comunque): peccato non abbia affrontato la revisione del 1881, tanto più ricca e musicalmente profonda (soprattutto nella definizione vocale del protagonista).

  3. tanto per essere chiari sono io quello che ha detestato simone grazie ad abbado e cantanti sotto la sua guida, compreso, amato come un capolavoro simon egrazie a hector panizza e i SUOI CANTANTI.
    Se volete ve lo posso anche spiegare il motivo di questa preferenza, perchè quell’edizione me la sono vista , rivista sorbita, ingerita etc dal 1971 in poi….. francamente un po’ troppo.

      • le riduco ad una e mezza
        intero l’allestimento ossia regia scene ed anche i costumi, mezza per abbado sopratutto dopo il 1975 atteso che poco gli importava di quello cha andava facendo e che il direttore è anche concertatore e che pertanto il cattivo gusto di cappuccilli e ghiaurov (per tacere dei russi delle ultime riprese tipo marusin) andavano censurati. Ma per censurarli bisogna amare l’opera ed il linguaggio del melodramma. e mezza la freni perchè l’accento era generico e la dinamica, more solito, di comodo. Io credo che per Amelia occorra o un peso superiore (vedi rethberg, stella e ligabue) o un accento ben diverso da quello generico di madama freni (gencer o anche la kabaiwaska) ma queste signore con altre come la price (margaret) o la maria chiara facevano ombra la soprano ufficiale della scala.
        ciao dd

          • Il binomio Ligabue- Freni (che negli anni sessanta ha abbellito tanti palcoscenici internazionali) mi ha sempre affascinato.

            Le due signore, affini per tanti versi (provenienza emiliana, timbro, carattere) e per questo legate da una salda amicizia al punto di scambiarsi, per gioco e in recita, le parti nei concertati –
            costituivano in alcune Opere la coppia ideale. Contessa-Susanna, Alice-Nannetta; la prima – a ragione del peso vocale e del temperamento – sempre la Ilva, la seconda Mirella.

            Con il passare degli anni, dopo la prematura e mai abbastanza compianta perdita della Ligabue, la Freni – in una conduzione di carriera esemplare – ha ampliato il suo repertorio, aggiungendo ruoli che non le sarebbero DI NATURA appartenuti, quei ruoli (Elvira di Ernani, Amelia di Simone, Desdemona, Aida, Elisabetta) che parevano scritti per la Ligabue.

            Della Freni ammiriamo l’oculatezza, la serietà, la personalità accattivante, la perizia (e perchè no, la furbizia) con cui ha affrontato e risolto certi scogli vocali.

            Ma la memoria torna a quelle Alici e a quelle Nannette che sembravano fatte in cielo.

      • Però – all’epoca – quelli erano i cantanti che affrontavano Verdi.
        Non concordo su Abbado (davvero mi chiedo dove sbagli…e parlo di direzione NON di scelta di cantanti…che se aprissimo questo capitolo direttori che passano per esperti di canto, sarebbero da ridimensionare non poco, visto i cani con cui infarciva le sue incisioni)… Scrivi “bisogna amare il linguaggio del melodramma”, ma – ti chiedo – il Boccanegra è ancora melodramma? O è qualcosa di più maturo? Non a caso l’ultimo Verdi è l’unico che i grandi direttori di area germanica hanno affrontato di loro volontà.
        Anche su Amelia non concordo del tutto: pur non amando la Freni (men che meno in Verdi) credo che una Ligabue o una Stella fossero più adatte ad altri personaggi piuttosto della angelicata figlia del Doge (la Rethberg non la considero, perché nelle incisioni che possediamo la trovo fissa e talvolta sgradevole: ma del resto era già ai limiti della carriera). Certo una Price sarebbe stato ben altro…
        Concordo invece su Ghiaurov (ma se si crocifigge Abbado per la scelta del cantante, si dovrebbe come minimo sciogliere in acido Bonynge che al Nicolai è ricorso molte più volte, lasciandolo – oltretutto – allo stato brado…con l’aggravante che Mr. Sutherland intende la direzione d’orchestra come un fracasso generalizzato salvo slentamenti mollicci laddove canti la consorte…).
        Concordo anche su Cappuccilli, almeno in parte (perché nell’incisione ufficiale lo trovo in forma). Devo dire poi, che non ha cantato solo con Abbado (o con direttori “colpevoli di non avere l’opera come loro unico orizzonte”..come se fosse un difetto), ma anche con Serafin, Votto, Schippers, Gavazzeni, Giulini, sino ai più routinier Capuana, Molinari-Pradelli, Cleva, Gardelli, De Fabritiis, Rossi, Bartoletti…quindi o erano tutti degli incompetenti, oppure quello passava il convento.

        Però – al netto di gusti personali e critiche – vuoi mettere un Boccanegra del genere rispetto all’ultima “cosa” che è passata in Scala?

    • Ben lo sapevo caro Domenico :)
      Il Simone di Abbado è stato il mio imprinting e, ad onta di certi squilibri nel cast (soprattutto Cappuccilli e Ghiaurov: penso a come sarebbe stato diverso – in meglio – avere Van Dam nel ruolo del Doge e non in quello marginale, anche se cantato splendidamente, di Paolo) la trovo, nel complesso, una bella incisione. Ovviamente la direzione d’orchestra fa la differenza (secondo me è uno degli esiti maggiori di Abbado in campo operistico). Non riesco ad amare, invece, quella diretta da Panizza, per diverse ragioni (Tibbett, l’orchestra sgangherata, la direzione fracassona).

  4. No, Duprez, è veramente una battuta. Ci sono alcuni livelli talmente alti che in quei casi il “de gustibus” non vale. Specialmente quando quello spettacolo lo si è visto dal vivo. Sarebbe come uno che dicesse che Karajan dirigeva male i Meistersinger o l’Ottava di Bruckner.
    Marco Ninci

    • Non mi sembra che Donzelli abbia scritto che Abbado dirige male, ma che non gradisce – per tanti motivi – quell’edizione (per motivi che, credo, prescindano dal mero aspetto orchestrale). Detto questo non capisco perché aver paura delle opinioni differenti dalle proprie…. Il “de gustibus” deve valere per tutto e tutti…

  5. Io non sopportavo l’incapacità di Cappuccilli di cantare a mezzavoce (soprattutto in “Figlia a tal nome io palpito”) e di Ghiaurov gli accenti cavernosi. Per quanto riguarda la Freni , penso che con altri colleghi al fianco avrebbe fatto molto meglio.

  6. Comunque, la più bella delle sei recite di quella produzione da me viste tra Milano e Vienna fu quella del 12 gennaio 1979. Accanto a Cappuccilli c’erano Kiri Te Kanawa, Doro Antonioli e Cesare Siepi, che rientrava in Scala dopo diversi anni e che dopo “Il lacerato spirito” ricevette un’ ovazione da far tremare il teatro!

  7. Mah, io credo che per detestare il Simone Abbado-Strehler sia necassario non tanto amare il linguaggio del melodramma quanto piuttosto non avere senso estetico di alcun tipo. Quando si fa il bilancino dei difetti, si usa un metodo filisteo e conformista. In questo modo si possono stroncare le cose più grandi, il cui significato sta in qualcosa di più generale del singolo dettaglio. Nel caso in questione tutti i cantanti rispondevano al disegno generale di Abbado, che consisteva nel sottolineare quanto nel Simone non è più melodramma, è sottile ed ambiguo, in questo opponendosi nettamente alla tradizione chiassosa dei Santini e dei Gavazzeni. Che poi non sempre le intenzioni fossero realizzate al meglio, per me è secondario. Le mezze voci di Cappuccilli non saranno state il massimo, ma l’interprete è autorevolissimo e sensibile. Luchetti era splendido. La Freni anche, sempre nitida, poetica, tecnicamente impeccabile (non è in questo sito che si apprezza tanto la tecnica?) Ghiaurov cavernoso? Forse, ma il suo ultimo atto era indimenticabile. Complice una regia che si situa alle massime altezze possibili; la solitudine della vecchiaia e l’appressarsi della morte come le ho viste realizzate da Strehler nelle ultime scene restano fra i miei ricordi più belli. Certo, se appena si sente una nota subito nella testa si svegliano i ricordi delle incisioni, se la Freni con un riflesso pavloviano suscita accanto a sé il fantasma della Rethberg, allora tutto questo si trasformerà in una porta chiusa con dieci mandate. E non rimarrà che impersonare per l’ennesima volta il ruolo di un sempre più stanco Beckmesser, con la sua lavagna e i suoi gessetti. Ma la musica non è questo. Come non lo è nessuna attività intellettuale. Che vive di audacia, di spunti innovativi, e anche di fallimenti nel tentare qualcosa di nuovo. Audacia, spunti, fallimenti che il filisteo non contesterà se non con l’enumerazione de difetti che non compromettono l’audacia della concezione. Mi viene in mente Furtwaengler che, parlando dell’amatissimo Bruckner, sosteneva che i suoi difetti potevano essere notati anche da uno studentello al primo anno di composizione; ma questa era roba da critici nati e da filistei, che non vedevano lo spirituale di questa concezione così ardita.
    Marco Ninci

    • Vede, caro NInci, io in qualche modo lo sapevo che, prima o poi e nonostante il nostro battibecco su Fischer-Dieskau, un punto di comune sentire lo avremmo trovato – anche se allora avevo concluso i miei interventi dicendo altrimenti. L’unica cosa sulla quale mi permetto di dissentire è l’accomunare Santini a Gavazzeni, essendo il primo musicista e concertatore infinitamente più sensibile.
      Ciò detto, a lei viene in mente il grande Furtwaengler; a me, alla sua frase “Che vive di audacia, di spunti innovativi, e anche di fallimenti nel tentare qualcosa di nuovo. Audacia, spunti, fallimenti che il filisteo non contesterà se non con l’enumerazione dei difetti che non compromettono l’audacia della concezione.” viene in mente Nietzsche, che era solito dire “in ogni caso gli errori delle grandi menti sono più interessanti delle verità delle piccole”.
      Saluti

  8. Caro Donzelli, le tue osservazioni mi hanno spinto a cercare (e trovare) su You Tube il Boccanegra diretto da Panizza dal vivo, nel 1939.
    Orbene, vorrei conoscere i motivi per i quali lo preferisci a quello di Abbado del 1977 (certo, non dal vivo, ma registrato in studio).
    Io ti comunico le mie superficiali osservazioni : l’ orchestra ed il coro di Panizza sono nettamente inferiori a quelli della Scala ( a volte c’e’ solo rumore),Tibbett e Pinza sono bravissimi , la Rethberg e Martinelli (soprattutto quest’ultimo ) non all’altezza di Simone e Fiesco.
    In Abbado invece l’orchestra e ‘ favolosa, Cappuccilli a me sembra magnifico, ad ex nella scena della morte,e, di concerto con Abbado, nel ” O refrigerio, la marina brezza etc…mi sembra surclassi la edizione ” Panizza”, Freni e Carreras mi sembrano ( mi sembrano..)superiori a Rethberg e Martinelli.
    Tutto questo lo dico senza aver ancora acquisito le competenze tecniche che ritengo indispensabili per giudicare gli ascolti ( non avendo, ovviamente visto dal vivo le due edizioni del Boccanegra ) Chiedo percio’ venia della mia incompetenza , che pero’ non mi impedisce di notare troppi portamenti da parte della Rethberg. Cari saluti dall’apprendista Massimo

    • in parole povere ti potrei rispondere che quello di panizza (meglio il1935 che il 1939 per le condizioni vocali degli innamorati, lui sopratutto) è verdi quello di abbado è abbado con i suoi ragionamenti da direttore sinfonico (ovvero anti opera) conditi in salsa (tanta e lutulenta) dell’epoca (ossia della demagogia di certa parte politica). E un’affermazione apodittica e generica . Con calma spiegherò perchè quel Simone non mi piaccia.

      • Piuttosto io vorrei capire perché Abbado non ti piaccia, mi sembra in generale e non solo nel Simone. Beninteso: questo è un limite mio nel capire come un direttore diriga.

        In seconod luogo, secondo me sei troppo severo con Cappuccilli. Sinceramente non capisco che cosa giustifichi un tuo giudizio così negativo. Probabilmente era era emendabile sotto certi punti di vista ma, buon Dio, sapeva cantare e nella registrazione in disco sempre con Abbado, Freni, Ghiaurov ma Carreras al posto di Luchetti, risulta un Simone molto ispirato. In particolare nel duetto della morte con un altrettanto emendabile Ghiaurov, ma anche altrettanto ispirato, accenta “taci… non dirle” in un modo tale che potrei andare avanti per ore ad ascoltarlo. Ora, mi si dirà: è il disco. E va bene. Ma è anche Cappuccilli.
        No?

        (P.S. …sto ancora aspettando un bell’articolo sul baritenore 😉 )

          • No. Cappuccilli fautore del malcanto non lo accetto, mi dispiace: non voglio certo dire fosse il miglior baritono che abbia mai calcato le scene, ma questo è un giudizio un eccessivamente pesante.

            Domenico, parliamo di interpretazione o di tecnica? Ma in ogni modo non sento Tibbett svettare così tanto su Cappuccilli. Sarà un limite mio, proverò ad ascoltare con più attenzione.

        • hai sentito l’attacco di figlia qual nome di tibbett, o come tibbett si rivolge a maria per chiederle di narrare del rapimento, hai sentito come muore tibbett oppure hai sentito il come un fantasima di pinza questa è ossessione quello di ghiaurov è solo malcanto duro fisso e stomacale

      • Però è solo una tua opinione, Domenico: Verdi non prescrive di fare il fracasso che fa Panizza… Neppure prescrive le stonature, gli ingressi sporchi e gli scollamenti ritmici. Neppure prescriveva che le sue orchestre fossero bandacce (come quella del Met). O che il coro fosse di livello amatoriale… Insomma, lo stesso Verdi metteva molta cura nella ricerca dei direttori (tanto che, a partire dagli anni ’50, non accettava commissioni da teatri che non disponessero di un’orchestra eccellente). Poi non esiste il Simone di Verdi (nel senso che nessuno ha avuto l’approvazione del maestro in una seduta spiritica). Panizza fa il suo Simone, come lo fa Abbado, Solti, Levine, Gavazzeni… Il resto appartiene ai gusti personali.
        Che poi non ti piaccia Abbado per motivi extramusicali – come si intende ogni volta che si cita il direttore – beh, allora è un altro discorso…
        Trovo però un pregiudizio ritenere che l’approccio sinfonico “rovini” l’opera…come se l’opera non fosse musica.
        Attendo di conoscere nel dettaglio dove Abbado “sbagli”….

        • tu credi che da un acetato del 1939 si possa valutare la qualità del suono! Pia illusione per essere delicati. Si può solo valutare la concertazione l’idea che il direttore aveva di un titolo. Infatti le mie critiche non sono all’Abbado direttore, ma all’Abbado concertatore. Ma per concertare ci vuole una qualità amare l’opera coni suoi pregi ed i suoi difetti!!!

        • Non parlo di qualità audio, ma di attacchi sporchi, effetti da banda e un’orchestra dilettantesca (per tacere del coro). E questo, aldilà delle idee interpretative (Panizza aveva le sue, come le aveva Abbado), è una tara non da poco. Sulla concertazione, poi, non concordo: trovo quel Simone molto equilibrato e ben concertato. Quanto ai cantanti scelti: sono quelli che giravano allora…gli stessi usati da Schippers (Cappuccilli) o da Bonynge (Ghiaurov)…per stare a due direttori che invece apprezzi.
          Però, ti chiedo, dove, in quali luoghi della partitura e come Abbado concerti male o dove non segua ogni più piccola sfumatura della scrittura verdiana.

          • il problema è che le indicazioni non le deve seguire abbado ma i cantanti…..tutto qui e non è poco

          • Non è poco, ma vale – al massimo – nel giudizio sui cantanti: ti porto ad esempio un direttore che tu ami particolarmente, ossia Bonynge.. Vogliamo parlare dei suoi cast allucinanti? Vogliamo parlare di come li lasciava, sostanzialmente, allo stato brado? Vogliamo parlare di cosa combina Cappuccilli nei Puritani? O Ghiaurov (cantante che Mr Sutherland includeva spesso e volentieri)? O Vrenios o la Touranfeau o Spiro Malas o Ghiuselev? Che concertatore d’accatto era Bonynge – a questo punto – quando si occupava solo della consorte lasciando che tutti gli altri cantassero Bellini o Donizetti con piglio verista e berci assortiti?

            E poi, scusa, ma il direttore mica deve limitarsi a battere la solfa…deve, appunto, tenere le redini dell’aspetto musicale. Un’opera non è un concerto di canto con orribile accompagnamento (neanche Mr Sutherland arrivava così in basso…)

          • Vero, ma un’opera non può neppure essere un concerto per orchestra su cui occasionalmente si stagliano urla e rantoli… altrimenti si proponga una suite sinfonica dell’opera (opzione che nel Simone è impraticabile non foss’altro per assenza di preludi et similia)

          • D’accordo, ma definire “urla e rantoli” quel Boccanegra – certamente imperfetto – è quantomeno eccessivo. Io, comunque, attendo ancora di scoprire dove farebbe tanto schifo la direzione di Abbado (o la sua concertazione) e dove “tradisca” Verdi…e come sia possibile, invece, che attacchi sporchi e suoni sgangherati (e non per limiti audio, ma per dilettantismo) provenienti dalla scalcagnata orchestra del Met del ’39 siano invece un balsamo per l’orecchio. E poi – ancora – attendo di scoprire i motivi di tale severità (beckmesseriana) nei confronti di Abbado laddove con Mr. Sutherland e il 90% dei suoi cast si applica la più totale e fideistica indulgenza (anche per il chiasso consueto dei suoi finali).

          • Medesimo basso che appare con grandissima frequenza nelle incisioni di Bonynge…e non credo migliorasse improvvisamente in quelle occasioni (anzi, ascoltando Trovatore, Sonnambula, Rigoletto, Lucia, Favorita, Puritani…si direbbe l’esatto contrario)

  9. Mi dispiace che negli ascolti non sia presente quella che davvero è l’ unica valida alternativa all’ esecuzione di Abbado: l ‘ edizione del Met 1960 diretta da Mitropoulos. Ecco, se facciamo un confronto con questa, allora Abbado non ne esce sempre vincente.

    • Purtroppo la compagnia di canto e l’orchestra (chiamiamola così) non sono all’altezza della bacchetta…anche se – in questo caso – Mitropoulos non è al meglio.

      Personalmente a me piace molto la direzione di Gavazzeni.

  10. Sotto l’aspetto vocale, dell’edizione diretta da Abbado ricorderò sempre il fiale con una Freni davvero raggiante, sicurissima , luminosa. Stranamente la cantante modenese non mi ha mai convinto nell’aria di sortita: Abbado le prevarava un’introduzione meravigliosa, un pulviscolo sonoro irridescente, ma lei non sapeva adeguarsi al clima suscitato era, come dire , troppo “prosaica”. Ovviamente nessuno è perfetto, ma in quella pagina le preferisco la Gencer o la giovane Ricciarelli.

  11. Vorrei dire qualcosa sulla questione del “de gustibus”, sollevata da Duprez in merito alle divergenze di opinione fra alcuni di noi sulla valutazione del “Simone” di Abbado-Strehler. Questo modo di dare legittimità a tutte le opinioni non mi ha mai molto convinto. A prima vista sembra un criterio di puro buon senso: tutte le opinioni hanno una loro validità, purché ovviamente siano in buona fede e ragionevoli. Nondimeno a me sembra che questa maniera di considerare le cose sfoci nel condannare proprio le opinioni all’isolamento reciproco. Per definizione, il gusto è qualcosa di puramente individuale; qualcosa di immediato, istintivo, che non si confronta e non si mette in relazione. In una certa misura, la codificazione del “perché sì”. Ma è un peccato che una cosa così importante come il giudizio su una musica o un’interpretazione in ultima analisi sia ridotta a ripetere unicamente se stessa: esisto e tanto basta. Penso invece che il gusto in questi casi non sia se non il travestimento esteriore di una concezione ideale, di qualcosa quindi di molto più nobile. Io ho detto che Donzelli nella valutazione di quel “Simone” manca semplicemente di senso estetico. Ma tutto sommato non è vero. Donzelli, almeno credo, ha un’idea della musica e dello spettacolo operistico che lo tiene lontano da manifestazioni di quel genere. Un’idea analitica degli elementi singoli, che lo porta a non incontrare il senso generale di un evento musicale. E’ un’idea molto simile a quella di Mancini, il quale non a caso mai o quasi mai parla di spettacoli considerati nel loro complesso. Anche se in Mancini è presente una tensione metafisica, una filosofia della storia di totale pessimismo, che mi sembra essere totalmente assente nel laico passatismo di Donzelli.
    Anche questo è interessante. La purezza della voce pare essere per Mancini (mi sembra l’abbia anche detto) l’espressione metafisica della presenza di Dio nel mondo, in un assolutismo che è l’espressione commovente della giovane età. Ma queste sono idee, non gusti, e sono in grado di entrare in relazione fra di loro. Vorrei riprendere una frase di Mauro Grondona, secondo me molto bella: “ogni opinione non capricciosa contiene una parte di verità; in ogni errore di giudizio c’è un po’ di verità; grazie a questo vi è un progresso della conoscenza”. E’ vero; quella verità, o quella tensione alla verità, che ci accomuna tutti, secondo quanto scriveva Fedele D’Amico nel suo saggio sul “Così fan tutte”: ” Non c’è deformazione della verità senza un fondo di verità” (“Un ragazzino all’Augusteo”, Torino 1991, p. 12). Si ritorna così a quanto dicevo ieri del contesto e del suo superamento, nel post dedicato alla Schumann-Heink. I neoplatonici dei primi secoli dell’era cristiana sostenevano che non vi è separazione fra le idee, ma ognuna si riflette nell’altra, in una connessione universale, altrimenti dai corpi, che hanno un tipo di connessione del tutto diverso, dal momento che sono separati nello spazio. Il superamento del “de gustibus” nella relazione reciproca fra le diverse concezioni dell’ascolto che cos’è se non il riflesso moderno di quell’antichissima problematica? Il gusto come corrispettivo dei corpi, le concezioni come corrispettivo delle idee? Una problematica attuale, anche se sappiamo oggi che è molto improbabile che esista un intelletto divino come luogo delle idee delle cose, come invece pensavano quegli antichi.
    Marco Ninci

    • Caro Marco,
      da tempo nutro profonda diffidenza per la categoria del gusto, un’avversione che mi porta a considerare l’espressione “buon gusto” un vero e proprio ossimoro. Il “gusto” mi è sempre parso qualcosa di leggermente sconveniente, qualcosa di cui è meglio non parlare in pubblico – come i sogni e le funzioni corporali – e che, una volta tirato in ballo, diventa il capolinea della comunicazione.

      Ora il tuo intervento mi chiarisce molte cose, e mi chiedo (e ti chiedo): ma questa categoria quando è nata? La scarsità e il disordine del mio bagaglio culturale non mi consente una risposta, ma la sensazione che sia roba ottocentesca, biedermeir, piccolo borghese, mi perseguita.

      Un saluto e un grazie.

      P.S. La mia consistente esperienza lavorativa in Giappone mi fa pensare che in quel paese – dal senso estetico così marcato – il concetto di “gusto” nemmeno esista.

  12. Caro Antonio, siccome di quel Simone si parla, penso che tu lo consideri una bolgia di urla e rantoli; il che mi sembra un giudizio un po’ azzardato. Come diceva Don Giovanni a Donna Elvira: “Siate un poco più prudente, vi farete criticar”.
    Marco Ninci

    • nessuno lo considera solo una bolgi adi urli e rantoli, ma non può certo portarlo quale esempio di vocalità ed accento verdiani. Questo credo sia il motivo per cui io “vo gridando” che ho capito simone grazie a panizza e non ad abbado. Preciso perchè sembra che sul dualismo abbado panizza (la cui rilevantissima carriera invito a considerare) ci si stia fermando che al nome del maestro italo argentino si potrebbe serenamente sostituire quello di mitropoulos, anche se i titoli verdiani del grandissimo direttore sono a mio avviso ernani e ballo. Tutto qua, almeno per me ch emolti dei vostri termini , ignorante contadino orobico qual sono, non capisco.

      • Mancano sempre, però, i motivi per cui la direzione di Abbado sarebbe “sbagliata” e non ditemi per come canta Ghiaurov che sarebbe come rispondere “ho mangiato le polpette” a uno che chiede che ore sono… :)

        Pe Domenico: la carriera di Panizza è paragonabile a tanti altri direttori di media statura (di quelli che hanno fatto fortuna tra sud america e USA)…mi sembra impossibile paragonarlo al grande Mitropoulos. Peraltro concordo sul fatto che i migliori esiti verdiani del direttore greco siano Ernani e Ballo: nel Simone non lo trovo molto a suo agio.

  13. Scusa, Donzelli, anche la falsa modestia ci dobbiamo sorbire? Ma via… In ogni modo, questa frase non l’ho capita: “Preciso perchè sembra che sul dualismo abbado panizza (la cui rilevantissima carriera invito a considerare) ci si stia fermando che al nome del maestro italo argentino si potrebbe serenamente sostituire quello di mitropoulos”. Lasciamo perdere la sintassi oscurissima. Ma poi? Mitropoulos equivale a Panizza? Oppure equivale a Panizza nell’essere superiore ad Abbado? Boh…
    Marco Ninci

  14. Con l’occasione mi sono riguardata il Simone di Abbado. Concordo con quanto letto nell’articolo ed in alcuni commenti : lo spettacolo è bellissimo e pure la direzione di Abbado, la Freni canta bene ma di circostanza, Cappuccilli alterna momenti di buona interpretazione ed altri in cui canta proprio male, Ghiaurov anodino e ingolato. Tutti coloro che sono intervenuti a commentare dicono più o meno le stesse cose ma cambia il giudizio finale sullo spettacolo. Non lo trovo un problema di gusto né di aderenze ad un ideale di bello, semplicemente, a mio avviso, ognuno ha una scala di valori personali che determinano il giudizio . Mi spiego meglio : se per me è predominate il canto, Abbado avrà suonato anche bene ma il Simone era schifoso, se a mio parere Panizza aveva compreso il “significato verdiano” del Simone, benché l’orchestra non fosse ottimale, per me sarà un buon Simone, e così via. Insomma, esistono delle priorità legate al proprio modo di sentire e di percepire le cose, se poi ciò lo si definisce “gusto”, non lo trovo affatto sconveniente, anzi, conoscere tali altrui criteri significa, per me, intravedere una realtà percepita o colta da altri ed a me sfuggita.
    Inoltre, vorrei pregare il dotto Ninci, che molto stimo ed apprezzo, di smetterla di correggere la sintassi e la grammatica dei commentatori, è molto infastidente e blocca tutti coloro che non hanno una dimestichezza con la lingua pari alla sua. A me piacerebbe conoscere il parere anche di chi scrive male. Evita di umiliarli per favore !

  15. Ci sono pochi esempi nella discografia anche non ufficiale delle opere di Verdi che possano stare di fianco al duetto potente, poderoso, suggestivo, raffinato ed epico, meravigliosamente ottocentesco, sommamente fraseggiato di Fiesco e Simone cantato da Tibbett e Pinza. Di fronte a questi due giganti assoluti del canto, della tecnica, della voce di grande qualità e di fraseggio, i signori Ghiaurov e Cappuccilli possono andarsi a nascondere perchè nel confronto ne escono a pezzi. il primo un ruttone gigione, il secondo un greve con pochi colori. il declino del canto verdiano era già in essere nel simone di abbado, che se ha una grande qualità è la direzione, ma che sul piano vocale è al meglio inadeguato e privo di vero fraseggio verdiano come mostra la solida, perfetta e per nulla veridana mirella freni.abbado dirige bene o male, a mio avviso ben nelle suggestioni di matrice karajaniane e basta. non è in nulla ottocentesco. nullo il direttore nel dare suggerimenti ai cantanti, che non fraseggiano mai come la scuola del canto verdiano ha ampiamente dimostrato csi debba fare. si solfeggia con abbado,si dice con genericità da parte di signori che cmq sapevano mettere la voce, questo si. oggi nemmeno quello, si rigurgita per bocca come abbiamo visto recentemente a milano. Ma l’attaco del signor Ezio Pinza “Piango perchè mi parla…” e tutto quanto segue a due con Tibbett è un monumento esemplare del fatto che si può piangere, si può commuovere anche nella corda di basso e baritono.I piani! Le mezzevoci! Il canto a fior di labbro…”gran dio li benedici..”..straordinari! Dopo questa generazione di cantanti ci sono rimaste alcune donne, callas, cerquetti, gencer, o uomini, tucker, bergonzi, mcneill e basta, solo…..il diluvio. Del cast di abbado non so che farmene quando sento il simone di panizza. ed é inutile stare a discettare sulla parola scenica verdiana se poi ce ne dimanetichiamo o non ne sentiamo il bisogno sentendo il canto di questi antesignani dei moderni commercianti della lirica. altro mondo!con le major del disco l’opera è finita e il confronto tra i due simoni è la prova lampante

    • Non sono per nulla d’accordo…soprattutto su Abbado. Chi ha mai ascoltato un direttore ottocentesco??? E Poi Simone non è Tancredi…non può ridursi a battere la solfa per i cantanti. Il cast di Abbado è manchevole esattamente (anzi meno) di quelliassemblati da Bonynge…con la differenza che quest’ultimo dirige infinitamente peggio..

        • Ma certo, mi domando, però, quale sarebbe il prototipo di “direttore ottocentesco”: Verdi aveva molta attenzione per l’aspetto orchestrale (tanto da non accettare – a partire dagli anni ’50 – commissioni da parte di teatri che non gli garantivano un’orchestra di ottimo livello) e la scelta del direttore era molto meditata. Non capisco in che senso di riferisci al direttore ottocentesco: a cavallo della metà del XX secolo, poi, nasce la figura del direttore come lo intendiamo oggi (l’Italia con un leggero ritardo), però nell’81 – quando Simone va in scena nella sua versione definitiva – la bacchetta ha già una sua centralità. Non voglio polemizzare – per Abbado poi – ma non capisco cosa non vada in quella concertazione…ripeto (senza voler annoiare) che non potete dirmi che Abbado non convince perché i cantanti sono discutibili…il direttore suggerisce, se il cantante non lo segue la colpa è limitata.

          • evocare l’ottocenteo. evocare l’ottocento. senti cortis nell’aria del ballo: ottocento puro. quello è quello diu cui parla verdi.
            quello di cui parla verdi, che pretende dai cantanti prende vita con pinza, tibbett, cortis, bergonzi….quello è fraseggio verdiano. cosa èil fraseggio verdiano? la varietà, l’eleganza, il dire nobile, mica ste servette adolescenti come la freni, o i ruttoni come ghiaurov. senti l’idea del vecchio nobile, alla fine degli anni di pinza in quella frase di cui parlo. sennò tutti sti segni d’esrpessione che li avrebbe scritti a fare? loro li eseguono, quelli di abbado no. vai a vedere con la musica in mano. ad orecchio si sente una varietà di fraseggio che poi sparisce….sopravvive con bergonzi e fine.
            e cambio tema: senti questi due: http://www.youtube.com/watch?v=Mx24MuggYSk e poi questi due http://www.youtube.com/watch?v=AYKFmgF0MbM. ecco, si capisce che la prima non dice niente e quello in buca non pretende che dica, mentre la seconda si. e ti posso fare milla altri esempi che sono lo steso caso del simone. ma perchè poi con karajan fraseggia ? e con abbado no? perchè il maestro nonlo chiede, non lo esige, non ie frega! perchè non capisce e non sente il canto. punto. questo è il limite del suo simone. può sbacchetare finchè gli pare, ma verdi è recitar cantando.
            quanto a Panizza, mi sa che forse non lo conosciamo molto. dd mi narrava di un aneddoto su strauss che nel 32 o giù di lì scrive a Panizza e gli dice che bene come lui nessuno ha mai diretto la sua elettra. dunque, forse tanto mezza sega non era. e a me non pare proprio che lo sia quando dirige simone. poi poassiamo discute dell’insopportabile invadenza ideologica del direttore moderno nell’opera pur non mando l’opera, scuola di pensiero cui il signor claudio appartien, col suo snobismo circa il canto e l’opera come musica secondaraia e vassalla della sinfonica. direttori come lui hanno cotribuito alla fine dell’opera col loro disinteresse per il canto. posto che il suo simone a me piace.

          • Però mi parli ancora di cantanti (Cortis: splendido peraltro).
            Guarda che non disprezzo Panizza, ma la miserabile orchestra che si trova costretto a dirigere! Ma ti ribaldo l’aneddoto straussiano…credi che Strauss avrebbe elogiato così Panizza se si fosse limitato a porre al centro di Elektra i desiderata dei cantanti? Secondo me no…

          • ma senti, giocbhi nad aver ragione o stiamo parlando sul serio? se strauss scrive così vuol diore che quello n on era un battisolfa. punto
            infatti non credo affato che sia servo dei cantatni in quell’audio, che per me è bello e per nula miserabile, anzi. si sente male, quello si e te non ne tieni conto. per me c’è tutto, il clima, le atmosfere, i tempi…..è una grande simone, ben diretto e cantato da dio, sopratutto nell’audio primo, quando martinelli non stecca. il simone esemplare è quello.

          • Ma chi ha scritto che Panizza è un battisolfa? Io dico solo – ed è incontestabile, l’audio è lì da ascoltare – che quell’orchestra suona malissimo (non parlo di qualità della registrazione, ma di attacchi sporchi, suonacci, scollature). E io di musica mal suonata proprio non so che farmene. Per non parlare del coro. Poi sui cantanti: Martinelli – come dici tu – stona e vabbé, la Rethberg (nel ’39) non è certo freschissima…restano OVVIAMENTE Tibbett (di cui personalmente trovo censurabili certe gigionerie) e il grandissimo Pinza. Io mica ho scritto che fa schifo… Per te è un grandissimo Simone, per me no…dov’è il problema?

      • ma che stai dicendo? io nonho detto nulla di abbado. e che cavolo c’emntra tandcredi^? chi ha parlato di acocmpagnamenti?
        abbado per il canto non fa nulla. e notoriamente non dice nulla ai cantanti e qui si sente. fa del pittoricismo, suggesitoni bellissime, descrittivo etc….a me piace, ma non farmi dire quello che non ho detto. cmq, il suo cast non mi piace e di verdi senza cantanti non so che farmene. non basta la bacchetta…

        • Il riferimento a Tancredi (e a certo Rossini) non vuole assolutamente essere un’accusa (sai bene quanto apprezzo l’opera rossiniana), ma semplicemente constatare come a metà ottocento la centralità del canto (o del cantante, in caso di compositori minori) si perde, e non basta più il gioco ruffiano del virtuosismo e neppure il “maestro al cembalo” o il “violino primo” che si limiti a dare gli attacchi e a far correre più o meno ordinatamente l’orchestra per accompagnare il canto. Già con Rossini il gioco non riesce più (dato che molte sue composizioni sono orchestralmente raffinatissime e necessitano un abilissimo concertatore o, meglio, un direttore avvezzo a suonare musica sinfonica). Quando Verdi rivede Simone, Wagner aveva già scritto tutto il suo catalogo, Debussy – da lì a 10 anni – avrebbe iniziato a comporre il suo Pelleas, il mondo è cambiato…e anche l’opera non si regge più sul solo aspetto vocale (che non va posto in secondo piano, ovviamente, ma che va coordinato con il tutto e sottoposto all’indirizzo dato dalla composizione intesa nel suo complesso) o sul singolo episodio.
          Quello che apprezzo – nel Verdi di Abbado o di Karajan (in realtà tra loro opposti) o di Mitropoulos o di Serafin (che non è un battisolfa qualsiasi, ma un musicista con una fortissima identità culturale) – è l’aver messo al centro la musica in senso assoluto, il tutto che è più della somma dei singoli momenti. Certo ci sono i cast che a volte funzionano, a volte no. Non è vero che Abbado non ama l’opera…semplicemente opta per determinate scelte di repertorio. Poi è questione di affinità con determinati titoli. Non è un difetto la concertazione di Abbado. E comunque tra quei cantanti diretti da una bacchetta consapevole e con qualcosa da dire (che non sia fare da sottofondo) e gli stessi diretti da Bonynge (ad esempio) che si preoccupa SOLO della consorte, la scelta per me neppure si pone. Perché Ghiaurov canta così nel Boccanegra come in Puritani e Sonnambula, intendiamoci…solo che in questi ultimi due è ancor più greve e brado. Se prendi Serafin (direttore che davvero capiva il canto…mica Bonynge) ascolti un’interpretazione che sovrasta il singolo cantante: ascoltavo proprio in questi giorni il suo Mefistofele e l’ho trovato un miracolo di gusto equilibrio e musica…e non per Siepi o la Tebaldi, ma per una direzione capace di trasformare un’opera francamente mediocre in un capolavoro.

  16. Cara Olivia, il fatto è che Donzelli spesso sbandiera la sua cultura classica, usa il latino ed espressioni arcaiche e ricercate; nello stesso tempo non gli importa nulla di farsi capire e scrive così come viene. Ecco, io questo lo trovo molto irritante e indice di scarsissimo rispetto per chi ha interesse a leggerlo. L’altra persona che io critico in questo campo è Misterpapageno. Non voglio rinfocolare polemiche, per carità. Ma solo spiegare che io lo faccio perché una volta lui si è presentato come un fustigatore di chi non sa parlare o scrivere correttamente l’italiano; ma, a leggere certi suoi post, si tratta di una pretesa abbastanza infondata. Tutto qui. Altre persone non mi permetterei mai di criticarle. Ciò che mi dà fastidio è unicamente l’arroganza. Tornando a Panizza e Strauss, è vero che il secondo apprezzava il primo. Va bene. Ma è altrettanto vero che lo stesso Strauss disprezzava la Schumann-Heink, qui adorata (anche a me sembra una cantante veramente grande). E allora? L’opinione di Strauss va bene quando è d’accordo con la nostra e non va più bene quando invece non è più d’accordo? Esattamente come le recensioni che leggiamo. Qui veramente sarebbe il caso di contestualizzare, sia nell’uno che nell’altro caso. Ci sarà un senso non generico e in quell’apprezzamento e in quella ripulsa.
    Marco Ninci

  17. Brava Donna Grisi!
    Poi nessuno ha parlato del cambio tenore per ragioni discografiche che ha cantato ll ruolo in teatro, ma l’hanno eliminato per il disco. (Fu cosi anche per Macbeth!)
    A me Tibbett/Pinza fanno impazzire. Là si trova la vera scuola.

    • così caro amodomio hai “tirato altra acqua al mio mulino” perchè il signor abbado e con esso il rivale e sodale muti (l’episodio cui faccio mente locale è legato ad un sette dicembre; ormai lo sanno tutti a distanza di quasi trent’anni e non conviene dettagliare) hanno sempre detto “SI SIGNORE” alle case discografiche, che su di loro puntavano, certi (peccato di superbia) che il loro nome, la loro arte (che c’era, sia ben chiaro) bastasse e supplisse le carenze del cast. Se pensiamo alla Aida o al don Carlos discografici di Abbado traiamo conseguenze, che sono l’oggi modesto, mediocre e spacciato per oro. Sia detto una volta per tutte: le radici dell’attualità stanno in quelle persone, in quegli anni, in quelle scelte. Per capireche non poteva che finire nell’attualità basta un’intervista di qualche anno or sono rilasciata qual da carlo bergonzi, che parla del differente comportamento di due direttori (bruno walter e riccardo muti)nel medesimo passo musicale: l’attacco dell’ ingemisco della messa verdiana

        • aveva anche dei pirla tipo la horne e pabarotti o aragall etcc…e poi bonynge è se,pra passato per un imposto, claudio per un dio. Dunque….non vedo i due pesi due misure…..hanno imposto cantantastri come la sinclair ma su certi rui per il belcanto a quel tempo nom c’erano alternative. I dischi di bonynge hanno una valore per il canto e l’opera che quelli di abbaso non hanno, perchè abbbado non ha detto niente di nuovo. Bonynge ha fatto parte della belcanto renaissance …..e ha detto la sua eccome. Abbado che ha fatto di nuovo nell’opera? Niente

          • E Ghiaurov, la Tourangeau, Cappuccilli, Vrenios, Ghiuselev, Spiro Malas, Duval e altri orrori? Che ha dato al belcanto..a parte la consorte? Il presunto esperto di voci si occupava solo della Joan lasciando fare agli altri il caxxo che volevano (mai una cadenza, mai una variazione: ascoltati Cappuccilli e Ghiaurov nei Puritani)…oltretutto dirigeva con una pesantezza rara. Io credo che sia da smitizzare Mr Sutherland…perché se Abbado è schiavo delle majors – come dici tu – non da meno lo è Bonynge. Cambia solo l’etichetta e il repertorio (e, ovviamente, le capacità)

          • ghiaurov e cappuccii condivide con claudio, milnes no. Gli altri li ritengo oscenità ma….me lo immagino ghiaurov in semiramide chw delizia hahahahha! In compenso il divino con queo cast pietosi di don carlo e aida poteva far moooooooolto meglio, a cominciare da bruson per finire con la chiara ma si sa che quando le major chiamano il compagno claudio corre gambe levate !!!bperchè a quello del canto no gli frega niente diciamolo…..si sente!…ah ps e la ritascova immancabile? Crichiamo meno bonynge please….meno proclami da rivista da edicola ( mantenute dall’etichetta gialla al tempo ) che è meglio..

          • E perché non si può criticare Bonynge? Io di Bonynge dico quel che mi pare e mi piace, e pure della sua consorte e di certe incisioni da discount: fu mediocre direttore e servo della Decca: e andrebbe ridimensionata la sua qualifica di “espeto di belcanto” (ma dove? con la Tourengeau o Vrenios?). Tu parli di cast, ma ti rendi conto di quali cantanti si serviva Mr. Sutherland? O basta la presenza della consorte per far dimenticare tutto il resto? Siamo sempre lì…tu ritieni che la sola presenza della Sutherland faccia passare il resto in secondo piano, io credo che – a fronte di un cast non ottimale – Abbado riesca a dare una lettura molto profonda. Poi se i miei sono proclami da rivista da edicola (quale poi?) i tuoi sono dogmi di fede. Parli da fan e ti dimentichi di ascoltare.

  18. Carissima Lily, in questo clima di “Relazioni pericolose” (bellissima la notazione di Billy) provo a dare una piccola risposta alla tua domanda sul gusto. In questo caso penso che si debbano distinguere due piani. Uno, che è quello cui ti riferisci, riguarda la sfera dell’appartenenza sociale: il gusto è ciò che distingue una classe. Vale a dire, il buon gusto. E’ chiaro che un concetto di questo genere si è manifestato soltanto con l’apparire all’orizzonte europeo della borghesia; buon gusto come ciò che emancipa da quanto permette la sua esistenza, vale a dire la sfera brutale del guadagno, buon gusto come modo di vivere, buon gusto come scelta di ciò che deve circondare e abbellire il nostro quotidiano. Una connotazione del genere sarebbe stata impensabile per un aristocratico francese del Seicento, per il quale ciò che lo distingueva dagli inferiori era al contrario quasi una diversità di natura, non certo un’attitudine acquisita. Io invece, che penso che le classi esistano ancora e che sia più che mai necessario abbattere le barriere che le separano (si vede che sono proprio vecchio), non ho nessuna ammirazione per virtù di questo genere, per il buon gusto e la raffinatezza, che trovo ben poco interessanti; mi attraggono molto di più l’audacia e il rischio del pensiero, due categorie non proprio raffinate. L’altro piano è quello più propriamente filosofico. Il dibattito sul gusto è una questione settecentesca, nata in Francia e sviluppatasi anche in Inghilterra e in Germania. L’asse attorno al quale ruota è il rapporto fra individualità e universalità. E giudizio di gusto equivale a giudizio estetico; non a caso anche la nostra discussione è nata da una discordanza di valutazione sul bello. Il rapporto con il bello è qualcosa che rimane chiuso nelle visioni, inconfrontabili fra loro, dei diversi individui oppure è in grado di ambire ad una sorta di universalità, ad una rete concettuale nella quale almeno i diversi giudizi possano entrare in relazione reciproca? Le risposte sono state varie ed è interessante accennare almeno al loro culmine teorico, quello di Immanuel Kant. Per il quale la sfera estetica è sostanzialmente diversa di quella della scienza. In quest’ultima infatti la nostra soggettività riesce a dare base oggettiva, basata sulla relazione causa-effetto, alla conoscenza del mondo che ci circonda. Nella prima invece non siamo in grado di fondare scientificamente il consenso universale. Questo viene raggiunto soltanto attraverso una spontaneo accordo fra l’oggetto considerato bello (ma non conosciuto scientificamente come tale, ché questo è impossibile) e la nostra facoltà di contemplazione, libera dalle costrizioni della scienza e presente in tutti gli uomini. Spero di aver portato un piccolo contributo utile.
    Ciao
    Marco Ninci

  19. Vorrei aggiungere una piccola notazione a quanto ho detto sul buon gusto borghese. A mio parere, non c’è persona peggiore e più spietata di chi pensa di occupare un posto superiore a quello degli altri perché se l’è meritato col proprio lavoro e con le proprie doti. Meglio, molto meglio l’orgoglio per nascita del Duca di Saint-Simon.
    Marco Ninci

    • Caro Marco, ti ringrazio per il tempo speso a rispondere alla mia domanda un po’ ingenua. Quanto dici del primo livello chiarisce e conferma i motivi dell’avversione che provo per il concetto di buon gusto, e non mi dispiace affatto avere Saint-Simon dalla mia.

      Quanto al secondo livello, è di gran lunga al di sopra della mia testolina di ragazza passata direttamente dalle Orsoline all’Università di California, Berkeley.

      Ma non dubito tu abbia capito con chi hai a che fare: non certo con una Merteuil, ma con chi è poco più di una sarta di scena o di un’attrezzista, che però ha passato la vita ad osservare dalla quinta – con genuino interesse – quanto succedeva in scena.

      Grazie dell’amicizia tutt’altro che pericolosa.

  20. Mah, io dal vivo ho sentito Bonynge in due occasioni. La prima volta in Semiramide a Firenze. La raffinata scrittura orchestrale di Rossini lo mise in tale difficoltà (proprio un disastro in senso tecnico, come di uno che non avesse la minima idea di cosa significhi dirigere un’orchestra) che ache l’illustre consorte naufragò miseramente. L’altra volta in Lucrezia Borgia a Roma. Un po’ meglio, anche perché la scrittura di Donizetti, di quel Donizetti, è imparagonabilmente più semplice di quella rossiniana. In sintesi. Sarà stato un ottimo conoscitore del ben canto, un buon concertatore, ma i suoi rapporti con la bacchetta sono stati come minimo problematici. Ma tanto problematici, proprio tanto.
    Marco Ninci

  21. Riporto qui la mia risposta a Giulia…per amore di polemica…e per evitare che vada persa nei tanti commenti.
    “E perché non si può criticare Bonynge? Io di Bonynge dico quel che mi pare e mi piace, e pure della sua consorte e di certe incisioni da discount (parliamo di Elisir): fu mediocre direttore e servo della Decca: e andrebbe ridimensionata la sua qualifica di “espeto di belcanto” (ma dove? con la Tourengeau o Vrenios?). Tu parli di cast, ma ti rendi conto di quali cantanti si serviva Mr. Sutherland? O basta la presenza della consorte per far dimenticare tutto il resto? Siamo sempre lì…tu ritieni che la sola presenza della Sutherland faccia passare il resto in secondo piano, io credo che – a fronte di un cast non ottimale – Abbado riesca a dare una lettura molto profonda. Poi se i miei sono proclami da rivista da edicola (quale poi?) i tuoi sono dogmi di fede. Parli da fan e ti dimentichi di ascoltare.”
    Aggiungo una cosa: nonostante difetti evidenti (diversi da quelli che reputi avere l’edizione di Abbado, certamente, ma sempre difetti sono) io apprezzo ugualmente quelle edizioni Decca, perché esprimono qualcosa di più della somma dei singoli fattori (che possono essere anche sballati). Certo se dovessi ragionare come un Beckmesser dovrei dire che fanno schifo…ma per essere dei Beckmesser bisogna avere anche estremo rigore e coerenza, non si può esserlo a “targhe alternate” e solo per chi fa comodo…

  22. Leggo solo ora e mi viene da sorridere. Io credo, senza usare il bilancino del farmacista, che nel complesso , Claudio Abbado in campo operistico non abbia lasciato nulla di paragonabile alla Lucia , ai Puritani , alla Norma, alla Lucrezia Borgia o all’Alcina di Bonynge. Sarà merito della moglie, sarà merito di Pavarotti, sarà merito della Horne ma certamente gli orrori che si ascoltano (nei ruoli principali) in certe incisoni di Abbado non si sentono. Penso alla sua Aida, al suo Ballo in maschera, alla sua Italiana in Algeri!!(ORRIBILE). Le uniche incisoni di Abbado degne (nel loro complesso) di essere ricordate credo siano la Cenerentola , il Macbeth e , forse, il Viaggio a Reims.

    • Ridi pure…chissenefrega…ma quel che dici mi conferma la malafede: parli di cantanti quando io parlo di direzione d’orchestra…che è come chiedere a uno che ore sono e sentirsi rispondere che a pranzo ha mangiato i tortelli!

    • Ciao Billy. A quale delle due registrazioni del Viaggio ti riferisci? Un confronto sarebbe interessante: stessa opera, stesso direttore, cast diversi. E inoltre ci aiuterebbe a capire il peso che i cantanti avevano nella resa di un lavoro andato in scena nel 1825. Secondo me un peso grandissimo, molto più grande che, ad esempio, nel Parsifal (vedi le tante versioni di Knappertsbusch da Bayreuth). Un altro caso di necessaria contestualizzazione.

      Mi pare che quello che ultimamente vado dicendo sia molte ovvio, ma non per questo meno imprescindibile.

      Un caro saluto.

        • Giulia, sono assolutamente d’accordo sulla superiorità della prima. E questo dimostra quanto l’esito dell’esecuzione di un lavoro di quel periodo sia in mano ai cantanti. In questo caso Abbado può essere considerato al massimo la ciliegina sulla torta. (abbasso lo starfucking!)

      • Beh, ma è ovvio che nel Viaggio a Reims i cantanti abbiano un ruolo prevalente rispetto a Parsifal…che discorso è?

        Comunque i due Viaggi a Reims di Abbado non sono diversi solo per i cantanti (migliori quelli della prima naturalmente), ma anche per l’approccio del direttore e, soprattutto, l’orchestra: la Chamber Orchestra of Europe è compagine molto più agile dei seriosi Berliner che, evidentemente, erano estranei al mondo rossiniano. Quindi le due edizioni sono diverse in tutto: non è che un direttore a distanza di 10 anni faccia ancora la stessa direzione.

        • E’ un discorso ovvio – come io stessa ho fatto notare in calce al mio intervento – ma apparentemente non così ovvio da non essere spesso ignorato quando non addirittura contraddetto.

          Il fatto che ci siano i Berliner al posto della Chamber Orchestra of Europe, -sommato agli eventuali ripensamenti di Abbado (sembrerebbe che abbia ripensato male) – contribuisce forse per il 0,6% alla differenza di qualità tra le due edizioni.

          Inoltre, nelle ultime recite dal vivo (Pesaro, Teatro Rossini, agosto 1992 – a otto anni di distanza dal primo revival del ’84 e con la stessa orchestra – di ripensamenti non c’è traccia. Tutto quel ripensare deve essere avvenuto nei pochi mesi che separano quelle recite dall’edizione berlinese.

          Cosa si fa per un DVD!

        • Non so che dire Lily, io mi baso su quel che ascolto (e su come lo recepisco). Son d’accordo sul fatto che in certi repertori l’apporto del cantante sia decisivo, ma nello specifico trovo che quei due Viaggi siano diversi non solo per il cast, ma anche per l’approccio direttoriale. Abbado è meno fresco, meno leggero, meno “mozartiano”…e l’orchestra è troppo “troppa” (scusa il bisticcio): è seriosa, poco agile…insomma si capisce che i Berliner non sono in gran sintonia col mondo rossiniano. Poi io credo che un direttore cambi la sua interpretazione continuamente…figuriamoci dopo 10 anni (e dopo aver portato in giro lo spettacolo per mezza Europa).

          • Ti svelo la vera ragione della differenza tra il primo e il secondo Viaggio diretto da Abbado: il primo è stato un’avventura elegante e divertente, il secondo una marchetta.

  23. Ovviamente mi riferivo alla globalità dell’esecuzione, e solo strettamente IN CAMPO OPERISTICO. Come dice Giulia: NEL LORO INSIEME le incisoni operistiche dirette da Bonynge sono di livello superiore a quelle dirette da Abbado, direttore che in campo sinfonico stimo comunque molto. Come ho scritto sopra, se c’è qualcosa che vale la pena di ascoltare nel suo Simone è proprio la sua direzione d’orchestra a cui, purtroppo, non coincide un’esecuzione vocale di pari livello. Bonynge sarà certo a lui inferiore, ma le sue incisioni dei balletti di Ciaikovskij, ad esempio, non mi sembrano poi così male (e lì non c’è moglie, Pavarotti o Horne a reggergli la coda…)

  24. Billy, premesso che non voglio convincere nessuno (i nostri gusti ci appartengono), io non concordo affatto:
    1) innanzitutto è una questione di metodo: coerenza vuole che si applichi lo stesso sia per artisti graditi che per artisti sgraditi. Non si può considerare un’incisione nel suo complesso solo quando fa comodo e invece analizzare ogni elemento di un’altra che si vuole “stroncare”. Perché nelle incisioni di Bonynge spesso oltre alla consorte non c’è altro… E se Abbado è servo della DGG – come scrive Giulia – Bonynge è la cameriera di casa DECCA.
    2) ti elenco alcuni cantanti ospiti fissi delle incisioni di Mr. Sutherland: Ghiaurov, Spiro Malas, Monica Sinclair, la Touangeau, Vrenios, Cappuccilli, Opthof, Bacquier, John Serge, Duval, Rouleau…etc… Non sono certo un bel sentire. Ma dici NEL COMPLESSO le incisioni funzionano: vero…non lo nego. Ma perché Ghiaurov o Cappuccilli (intollerabili ne Simone di Abbado) diventano NEL COMPLESSO buoni nei Puritani di Bonynge? Cantano meglio? Assolutamente no. E’ solo pregiudizio. Io credo che ogni incisione vada valutata nel complesso…ecco perché trovo il Boccanegra di Abbado un’ottima incisione nonostante alcuni squilibri di cast, così come (polemiche a parte) trovo godibilissimi i Puritani di Bonynge anche se Ghiaurov e Cappuccilli cantano male e sono totalmente estranei (per colpa del direttore che non li segue) allo stile dell’opera (mai una variazione, mai una cadenza) e se Pavarotti canta bene solo nel III atto.
    3) secondo me il Bonynge “direttore” ha grossi limiti tecnici (e giustamente si è tenuto distantissimo dal repertorio sinfonico). Anche nei balletti che citi la direzione è routinier, pomposa, superficiale, effettistica (spesso fracassona nei colpi di piatti). Bonynge li tratta come se fosse musica di serie B. Prova a risentirli diretti da Svetlanov (ti consiglio quello perché è il mio preferito in quei balletti…ma molti grandi direttori e grandi orchestre hanno affrontato almeno le suite). Poi confronta.

  25. Donna Giulia, la metterò in imbarazzo ma stavolta non so con chi schierarmi. Mi sa che rimarrò, come sempre con… me stesso. Io sono un estimatore di Abbado, malgrado tutto. Vero è che Ghiaurov negli anni Settanta era già in deterioramento, anzi io oso dire che l’ultimo Ghiaurov ad avermi davvero impressionato è stato quello del don Giovanni di Klemperer. Vero è che Cappuccilli non lesina durezze.
    Chiaramente stimo moltissimo Pinza. Stimo tutto sommato anche Tibbett, seppure non faccia parte del mio tipo preferito di cantante.
    Mi spiace, ma viceversa non posso dirmi un estimatore della Rethberg (e qui, ecco una delle mie poche divergenze dalla “linea” di Donna Giulia: amo pochissimo Milanov, Gencer e Kabaivanska).
    Insomma, oggi Er Gratta fa il cerchiobottista.
    Ahhahaha.
    Tra l’altro rido perché ho letto altre corbellerie deliranti sui baritoni verdiani su un forum che credo non vi sia ignoto: secondo costoro, i migliori baritoni attuali sarebbero, figurarsi, Hampson, Finley, Gilfry, Nathan Gunn (sic) e Peter Mattei. Ossia la gran scuola miracolata dai registi di turno, disfattismo operistico col gran pavese innalzato.

    • caro er gratta, a me come abbado dirige piace assai. Non mi piacciono i suoi cast ed il fatto che non si i,ponga su cantanti pigre, tendenti al mezzofortetuttasera, come la freni. Non credo ci sia da schierarsi….capisco anche l’obiezoone sulla rethberg ma resta il fatto che l’algida frau ha peso specifico adeguato a quella che amelia boccanegra è. Certo, preferirei magari una ideale russ ma…….mi piace anche così. E tanto

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