Cartoline da Monaco, parte prima. Rigoletto alla Bayerische Staatsoper

La cronaca non può che partire dal suono maggiormente a fuoco e meglio proiettato, l’unico che nel corso della première di Rigoletto, sabato 15 dicembre, ha letteralmente colmato la non certo piccola sala della Bayerische Staatsoper, ovvero dalle sonorissime e copiose riprovazioni rivolte da una cospicua parte del pubblico al regista Arpad Schilling e agli altri responsabili della parte visiva dello spettacolo. Responsabili che si sono decisi a uscire alla ribalta, a mietere il giusto riconoscimento per il lavoro svolto, solo dopo due chiamate (individuali e collettive) riservate a coro, solisti e direttore d’orchestra e solo perché esplicitamente invitati a farlo (il protagonista Franco Vassallo ha dovuto avvicinarsi alle quinte per ben due volte, prima che gli intrepidi “creativi” del team di regia si decidessero a presentarsi agli spettatori). Dobbiamo peraltro registrare come la reazione degli spettatori, anticipata nel corso dello spettacolo da un paio di interventi isolati (alla chiusa del primo quadro e al momento dell’uccisione di Gilda) e così veemente da eclissare di fatto i consensi provenienti da una parte del pubblico, non abbia dato adito sulla stampa tedesca o nei canali televisivi a dure reprimende sulla maleducazione dei melomani, a ipotesi di congiure ordite e orchestrate da occulte forze della reazione, saldamente ancorate alla Rete, insomma a tutto quel teatrino, questo sì monotono, gretto e provinciale, che si è inscenato ad altre latitudini per giustificare il “buco” di una supposta star del disco, che ha “bucato” per limiti propri e non per supposte influenze altrui. Del resto è facile ipotizzare come lo spettacolo di Schilling, non brutto, ma confusionario e al tempo stesso risaputo (a tratti manuale di psichiatria della mutua, per usare una felice definizione del collega Donzelli, a tratti semi-stage con i cantanti fissi al proscenio, spesso fisicamente incollati alla buca del suggeritore), sia stato per il pubblico bavarese, da anni destinatario di allestimenti offensivi per l’intelligenza, prima ancora che per il pudore degli spettatori, la proverbiale goccia che fa traboccare il vaso, riuscendo nell’impresa di attirarsi anche quei dissensi, che con maggiore coerenza avrebbero dovuto essere indirizzati alla componente musicale.
Si potrebbe osservare che è più facile e immediato esternare la propria disapprovazione nei confronti di uno spettacolo basato sul frusto tema del voyeurismo (il coro, schierato su una gradinata e quasi sempre mascherato, assiste impassibile allo svolgimento di tutta la vicenda, fatta eccezione per l’epilogo) o di singole “invenzioni” nello stesso contenute (la spada di Sparafucile rimpiazzata da una sedia a rotelle munita di ruote, che ricordano quelle dei trabiccoli utilizzati dai robivecchi, il menzionato assassinio reso in forma pseudosimbolica, con Maddalena che versa sul candido abito di Gilda, vittima sacrificale, il contenuto di un secchio di liquami e la suddetta Gilda che prima sembra sul punto di morire, poi esce di scena, affrancandosi dal tirannico regime di sorveglianza istituito dal padre, che ovviamente non ha la gobba, o ancora la vestaglia hawaiana indossata in rapida sequenza dal duca e dalla sedotta fanciulla, che si adegua piuttosto in fretta al clima della corte mantovana, per non parlare di quelle trovate che vanificano precisi equilibri musicali, prima fra tutte la presenza in scena, nel quadro di apertura, della banda, che dovrebbe invece trovarsi dietro le quinte) piuttosto che contestare un Rigoletto incapace di cantare piano senza che la voce vada indietro, che non riesce a smorzare senza precipitare nei falsettini, che nella zona dei primi acuti, segnatamente al primo duetto con la figlia e nel monologo che precede il finale, emette suoni sistematicamente stonati, e che per giunta si ispira, sotto il profilo espressivo, al peggior Tito Gobbi, senza sfoggiare dello stesso, ovviamente, la rigogliosa (almeno in potenza) natura vocale. Anche perché il suddetto modello è a tutt’oggi imperante nel ruolo, e non c’è regia, per quanto innovativa e “di rottura”, che sia stata finora capace di consigliare agli esecutori non certo la nobiltà di un Magini Coletti o di un Galeffi, ma neppure la pertinenza espressiva di un Tagliabue o di un Bruscantini.
Del pari imperante risulta il modello di canto femminile, inverato dalla prova di Patricia Petibon, al debutto nel ruolo. Poco o nulla udibile in prima ottava (il che è particolarmente evidente nel terzo atto, ma anche alla chiusa del secondo e nel duetto con il tenore), in serio conflitto con la respirazione professionale e quindi incapace di legato, la signora si distingue inoltre per i suoni in debito di appoggio, fissi e sovente “diversamente intonati” in zona medio-alta (meglio gli acuti più estremi, benché alternativamente gridacchiati o pigolati, emessi alla cadenza del “Caro nome”). Evidente modello di questa Gilda, che risulta quasi una parente ebbra di Olympia o della Fiakermilli, è la solita Gruberova, mediata dalla già di per sé risibile imitazione della stessa, a suo tempo offerta nel ruolo da Diana Damrau. Ovviamente la saldezza tecnica è l’unico attributo della cantante di Bratislava che le sue modeste epigone non riescono in alcun modo a riproporre.
Innalza, sia pure di poco, il livello generale Joseph Calleja. Anche qui la voce è per natura modesta (il che si avverte soprattutto quando il Duca deve cantare in assieme e come suol dirsi “tirare” il concertato, in primis alla scena della festa) ma ha sufficiente “giro” in zona centrale e l’interprete è, se non altro, misurato. Purtroppo il secondo passaggio vede l’esecutore in sistematico affanno, ad esempio all’attacco del “Parmi veder le lagrime” e la salita agli acuti è gestita più con la generosa natura che con l’ausilio della tecnica di canto. Il risultato è una prova che alterna prodezze come il si naturale filato al termine dell’ultima ripresa de “La donna è mobile” e momenti dimenticabili, su tutti la stecca sul la naturale alla chiusa della cabaletta (proposta senza da capo) dell’aria del secondo atto.
Quanto agli omicidi fratelli Ivashchenko e Krasteva (cui sono affidati anche i rispettivi ruoli di Monterone e Giovanna, con evidenti richiami tanto alla psicanalisi quanto alle pratiche in uso fino a pochi anni fa nei teatri di provincia), il primo imita Ghiaurov, senza riuscire a evocarne la consistenza strumentale, mentre la seconda si segnala per i “buchi” nella voce, ossia gli squilibri tra registro grave (inesistente) e acuto (urlato). Insomma, il proverbiale “scalino”.
Marco Armiliato dirige con navigato mestiere e totale indifferenza alla cupa sostanza del dramma un’orchestra e un coro mediamente più agguerriti di quelli che si odono in molti teatri nostrani, ma i clangori provenienti dal golfo mistico complicano non poco il compito dei solisti, agevolati in compenso dalla scelta di tempi sistematicamente rapidi e stringati.

 

Gli ascolti

Verdi – Rigoletto

Atto I

Figlia! Mio padreJean Noté e Yvonne Gall (1918)

Atto II

Compiuto pur quanto…Sì, vendetta, tremenda vendettaWilli Domgraf Fassbaender ed Erna Berger (1932)

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5 pensieri su “Cartoline da Monaco, parte prima. Rigoletto alla Bayerische Staatsoper

  1. ascoltato anch´io. per fortuna ascolto SOLO. voglio dire – per questo hanno avuto ben QUATTRO settimane di prova??? e quanto sei perfido, caro Tamburini, nel mettere proprio questi ascolti. che faciltà, che eleganza (forse con l´eccezione di Aragall)……………………….

  2. Mi hanno ritratto con vestaglia havaiana ? ebbene sì, non sono mai stato al di fuori di Mantova, ma mi piace esser snob!
    A quando mi ritrarranno col perizoma ?
    Ricordo un tizio ad una fiera paesana che invitava così gli spettatori:
    ” Venghino, venghino, che più gente entra, più bestie si vedono “

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