Verdi Edission: Otello a 78 giri

Siccome la polemica in questi giorni intorno al presunto dovere di inaugurare la Scala con un titolo verdiano ha occupato molte pagine dei quotidiani italiani torniamo al maestro delle Roncole con il consueto appuntamento bimensile riservato alle sue opere. Precisiamo anche che  la polemica circa l’inaugurazione verdiana è quanto di più inutile e pretestuoso vi sia, perché Lohengrin, più di ogni altro titolo wagneriano, ha una propria storia interpretativa in italiano, come dimostrato da un post di Tamburini, ma  soprattutto perché certe richieste nulla hanno a che vedere con la cultura e la capacità di proporre un prodotto artistico degno dell’autore e del luogo, che lo propone. Questo e non il dilemma salottiero Wagner-Verdi doveva costituire la vera diatriba, ma pretenderlo sarebbe pretendere  qualità raziocinanti di cui molti della critica vogliono essere privi.

Terminata o almeno in fase di ultimazione la composizione di Otello a Verdi si presentò un ulteriore problema in vista della realizzazione del proprio lavoro: la scelta degli interpreti. Non era il 1887 l’epoca in cui si componesse più ad personam, ma questa innovazione non equivaleva ad abbandonare un titolo al proprio destino ed al caso in sede di esecuzione, tanto meno la prima e dinnanzi al pubblico, allora esigente della Scala. Verdi, come parecchi anni dopo Richard Strauss, era uomo di teatro e gli era ben chiaro quanto il successo di un titolo dipendesse dagli interpreti. E se l’idea di Victor Maurel , quale Jago, trovò gli  immediati consensi di Verdi, che, alla fine “cedette” accettando la Desdemona di  Romilda Pantaleoni,  e perché amante di Franco Faccio e perché i cachets di Adelina Patti non erano sostenibili dalla Scala, il vero problema si rivelò il  protagonista.

Va segnalato una sorta di contrappasso ovvero il problema di cantare Otello per i tenori perché la schiera di quelli, che hanno gettato la spugna è lunga a partire da Caruso per seguire con de Muro e Corelli  sino a Bergonzi, per tacere dei rapporti tardivi di un Pertile e fuggevoli di Lauri Volpi.

Ricordi  editore, ma anche impresario,  patrocinava Francesco Tamagno. Tamagno veniva  chiamato il tenore cannone, era famoso per i suoi acuti estremi, trionfava in
Poliuto, Guglielmo Tell, Profeta ed in misura inferiore quale Raoul, Manrico e  Radames. Verdi con tali caratteristiche vocali temeva, e con ragione, che  il finale primo ed il finale quarto avrebbero perso di efficacia e presa sul pubblico. Era un rischio elevato perché nella parte ad onta di un optional al do4  nella “vil cortigiana”  nella parte prevale la
scrittura centrale, il canto legato ed a mezza voce alternato ad impetuose impennate sui primissimi acuti. Verdi esplicitò il dubbio in molte sue lettere (la più esplicita era del 29 ottobre 1886m indirizzata a Franco Faccio) aggiungendo che i difetti di Tamagno erano il “non andare a tempo” e l’inesattezza nella lettura musicale. L’espressione “ non andare a tempo “ non va intesa come  l’incapacità di Tamagno di cantare, ma la tendenza, che spesso diveniva vezzo e vizio dei cantanti del tempo di indulgere a note tenute, filature e rallentandi. In disco gli esempi più significativi in tal senso sono offerti da Checco Marconi e Fernando de Lucia.

Alla fine  grazie al ferreo controllo dell’autore e del concertatore (allora non lo eri se non eri in grado di preparare un cantante) Otello fu Tamagno. Come cantasse Tamagno, o più precisamente come avesse cantato Otello il tenore torinese, lo documentano le registrazione del 1904 e 1905.  Riguardo questi reperti  è  stato detto tutto ovvero che colore della voce è marcatamente chiaro, che ad onta del fiato spesso corto (si tratta di un cantante ritirato dalle scene) e di certe discutibili scelte musicali siamo dinnanzi ad un condottiero, al nobile, che un’insensata gelosia rende folle. Dalle registrazioni manca il duetto d’amore, presente, invece, la scena della morte dove emerge lo slancio folle di “ho
un’arma ancor”. Non sarà un fraseggiatore prezioso e ricercato, le lezioni di Verdi e Faccio saranno state efficaci, ma il giudizio in toto negativo sul cantante e sull’interprete non può essere condiviso.  Il problema, però, non è il reperto archeologico costituito dalle registrazioni di Tamagno, ma l’idea interpretativa del personaggio  cui almeno sino agli anni Trenta del secolo scorso tutti gli Otello si attennero, salvo rarissime eccezioni, ovvero che la vocalità di Otello, ad onta della scrittura marcatamente centrale (anticipazione della scrittura verista e “maledizione”,  che ha consentito il facile stravolgimento del personaggio soprattutto a partire  dagli anni ’40 del novecente) è quella del tenore da grand-opéra, che, ai tempi di Verdi, rappresentava il modello di tenore drammatico. A questo dobbiamo aggiungere nella definizione del personaggio la verbosità  boitiana (in parte sfrondata da Verdi), la suggestione tutta tardo romantica e pittorica del passato e dell’origine shakesperiana del dramma, che concorrono a rendere ancor più complesso il personaggio e la sua realizzazione.

A riprova del fatto siano i dubbi di Verdi sulla scelta di altri primi interpreti diversi da Tamagno. Anzi potrei dire l’interprete mancato: Angelo Masini, famoso Raoul degli Ugonotti, forse più imprestato, che  spontaneamente idoneo ai ruoli di tenore drammatico. Ricordi convinse Verdi che fosse migliore Tamagno perché per Masini Otello sarebbe stato un duplice debutto: nel ruolo ed in Scala (dove non cantò mai). Ma il compositore nel caldeggiare Angelo Masini pensava alla mezza voce del duetto d’amore, della scena
della morte, a frasi come “ma o pianto o duol” e, magari, a certi momenti di gelosa follia, simulata come la replica di Otello al “Dio ti giocondi o sposo”. E non si replichi che Masini  fosse tenore di grazia per il fatto che eseguiva spessissimo il Barbiere, bastando a smentire l’assunto che la più completa esecuzione della cavatina di Almaviva proviene da Herman Jadlowker, che vestì anche i panni del moro di Venezia. E con proprietà per quel che è dato sentire.

Non per nulla nei primi anni di circolazione del titolo Verdi elogiò più volte Giovan Battista de Negri (1850-1923), che veniva dalla schiera dei tenori donizettiani e che bruciò la propria carriera nei primi titoli veristi (Guglielmo Ratcliff, in primo luogo). Le registrazioni di un cantante ritirato da un decennio per conclamata decozione vocale  documentano, oltre una voce svuotata e priva di smalto, un legato superiore a Tamagno ed anche una maggior pertinenza di accento nella scena della morte. Non solo a conferma dell’opinione dell’autore nel “ora e per sempre addio” brano epico e grandioso de Negri non sfigura affatto. Non per nulla la più felice realizzazione fonografica del tenore alessandrino è l’intervento di Pollione nel finale di Norma, dove l’ampiezza vocale è evidente anche in un cantante ritirato.

Ma che il titolo fosse ritenuto orbitante nell’area del grand-opéra è confermato dal fatto che Roberto Stagno, Jean de Reszke e, persino, Checco Marconi cantarono negli anni Novanta dell’ottocento il Moro. Poi a conti fatti per Stagno, già convertito al verismo, Otello fu un disastro, per de Reszke , una toccata e fuga  sul sicuri palcoscenico del Met e Marconi a Madrid, lucrò una serie di fischi. Per documentazione proponiamo il duetto della Forza del destino  inciso dal tenore romano, ricordando a noi stessi che il primo don Alvaro della versione Scala 1869 –Mario Tiberini- era un famoso Arturo di Puritani, Raoul e Corradino della Shabran e che non a caso, Victor Maurel, che non amava Tamagno, parla del tenore marchigiano come un potenziale perfetto Otello perché per la parte era più importante il fraseggio che non l’acuto stentoreo. Più oculato Gayarre evitò l’ostacolo, assumendo che solo alcune pagine come il duetto d’amore del primo atto convenissero alla propria vocalità. Eppure era un tenore che stabilmente cantava Sansone e Dalila.

Ma Otello restava ruolo per tenori da grand-opèrà. Utilizzando questa categoria va chiarito che i tenori che fra il 1890 ed il 1910 frequentavano quel repertorio non cantavano come Nourrit, ma l’immagine del loro imposto vocale emerge non solo dalle  registrazioni di Tamagno, ma da quelli di Scampini, di Slezak, di Affre o di  Escalais. La prima comune evidenza è la posizione alta del suono anche nella zona medio grave della voce, che esclude suoni tubati, ingolati ed artificiosamente scuriti, che,invece, risuona chiara (donde la generica conclusione che avessero la voce chiara o addirittura bianca, mentre questo è solo il colore della voce in posizione corretta) facile alle smorzature, prorompente negli acuti, anche i primi tipo la bem e la acuti di cui Otello abbonda.

E siccome in quel periodo si ragionava ancora per tipi vocali nonostante la scrittura centrale  (che sarà mi ripeto la causa della contraffazione della parte) da Otello rimasero lontani i tenori centrali che si dedicavano a Wagner ed al nascente verismo. Mi limito a citare della prima generazione verista Borgatti e Giraud e poi Schiavazzi. Con l’avvento del canto e del gusto verista, ovvero con l’affermarsi della seconda generazione di esecutori, il moro di Venezia miete la sua prima illustre vittima e contemporaneamente  trova il suo interprete più completo. Nel primo caso parlo di Enrico Caruso e nel secondo di Leo Slezak. Luogo il Met ovvero il teatro di Caruso che nel 1909 aveva già in repertorio alcuni titoli  del repertorio drammatico pre-Verista, ma rifiuto di cantare Otello, che segnò il trionfale debutto, sotto la guida di Toscanini, del tenore moravo. I due brani lasciati da Slezak in italiano, non perfetto, ma nitido e ben articolato,  testimoniano il vocalista più completo, aiutato da un timbro  dolce e maschile al tempo stesso, e l’interprete composto e vario al tempo stesso. Nessun Otello (forse con l’eccezione del declinante Pertile ) smorza il suono e sfoggia  una suadente mezza voce nella scena della morte e nessuno è uomo offeso, ma sempre eroico condottiero, come Slezak ne “Ora e per sempre addio”. La mancanza del duetto d’amore e del monologo “Dio mi potevi scagliare” sono una delle grandi carenze della discografia di Otello. Se aggiungiamo che Slezak aveva un fisico imponente comprendiamo l’ulteriore motivo della fama del suo Otello e la circostanza che cantò spessimo il ruolo.

Colgo l’occasione per  rilevare  come Slezak, coetaneo di Caruso sia stato il più grande tenore che, ad onte di una notevole comunanza di repertorio con il divo partenopeo, abbia
percorso trent’anni di carriera come se Caruso ed il gusto imposto da Caruso non esistessero, evitando nel contempo gli arbitri musicali e gli arcaismi delle generazioni precedenti (salvo esibire in opere, che stilisticamente lo imponevano come la dame blanche dove sfoggia un fascinoso e sonorissimo falsettone).

Due coetanei, italiani Augusto Scampini (1880-1939) e Bernardo de Muro (1881-1955) hanno lasciato ragguardevoli testimonianza, che esulano da canto ed accento verista. Ma se la cosa è ovvia per Augusto Scampini, che fu uno degli ultimi tenori pre carusiani per gusto e tecnica, la circostanza desta stupore per de Muro, reputano tenore verista e mascagnano in particolare.  Ma entrambi praticavano un’emissione di altri tempi. Quella che ho ricordato poc’anzi e  che nel caso di de Muro, esecutore non solo di Otello, ma del repertorio verdiano, consente controllo del suono, limpidezza e squillo in ogni zona della voce, slancio e nobiltà di accento e smentisce le dicerie su canto e gusto verista, portando a concludere che i cantanti si dividono in due categorie quelli che sanno e quelli che non sanno cantare. De Muro è il vessillifero della prima categoria. Fra i celebrati Otello a 33 giri addirittura in cd Vickers, Domingo, per tacere di Cura, della seconda. Preciso per motivi fisici -la statura limitata- de Muro evitò di portare in scena
Otello.

Più interessante o meglio testimonianza di una tradizione assolutamente antica l’Otello di Augusto Scampini, che incise una  parte del duetto d’amore (con una interessante Baldassarre-Tedeschi se si limitasse a cantare nell’ottava superiore) e che appare forse non esplosivo e personalissimo nell’accento, ma solido e misuratissimo negli assolo del
condottiero della Serenissima. Al modello antico si rifacevano per tecnica vocale sia Francisco Vignas (cantante che partendo da Donizetti approdò a Wagner) che Antonio Paoli il cui repertorio aveva i punti di forza in Otello e Sansone. Il secondo passa per un cantante musicalmente molto arbitrario (assunto condivisibile) e dal gusto discutibile (assunto da vagliare caso per caso), ma  lo slancio e lo squillo  di Paoli, la scansione epica esulano dal gusto verista in senso deteriore. Non è certo un interprete particolarmente vario (se paragonato a Slezak, de Muro, Merli), ma il suo Otello anche nei momenti più impervi  psicologicamente,  quelli che autorizzano ed incentivano il cattivo gusto ed il malcanto, è contenuto e misurato. Gli acuti poi squillantissimo, lo slancio eroico.

Altra pietra miliare e ci stiamo avvicinando alla fine dell’interpretazione pertinente del personaggio verdiamo  è Francesco Merli, che non solo incise tutte le scene in cui Otello  ha parte, ma ha lasciato ampia traccia live sino ad una delle ultime esecuzioni con la debuttante Tebaldi.Fra il 1935 ed il 1945 Merli fu nei teatri italiani l’Otello per antonomasia. Lo fu sotto la guida dei maggior direttori del tempo ( de Sabata in primo luogo che nel live scaligero del 1938 fa di Merli e della Caniglia due interpreti). Si può osservare che a Merli manchi la mezza voce di Slezak o il guizzo interpretativo di Aureliano Pertile, ma il canto era facile e  misurato, anche perche Merli era doato al centro e nei primi acuti di una voce di non comune ampiezza e penetrazione: Un Otello che canta ogni frase, che da senso al personaggio, nza, mai farsi prendere la mano e senza eccessi veristi anzi
(vedi finale o i vari duetti d’amore) dimostrando come una voce grande e poderosa possa cantare piano e piegarsi a smorzature e assottigliamenti senza  scadere nel parlato e nel falsettino.

Azzardo la fama e la popolarità di Merli Otello  discenda oltre che dagli  elementi  personali da un fatto contingente ovvero  dalla circostanza che Aureliano Pertile il maggior tenore spinto e  fraseggiatore unico avesse affrontato il personaggio soltanto a fine carriera.  Ciò nonostante, aggravato da certe cadute di gusto di sapore verista, da certa
enfasi che gli era tipica, ma che era aumentata negli ultimi anni di carriera e  dalla voce non più fermissima nella note di lunga durata Pertile ha sortite  interpretative, che lo mettono  fra  i  grandi.  Anche qui la notazione è quasi oziosa è raro, per non dire impossibile. che Aureliano Pertile venga superato da qualche  collega per risorse espressive e loro realizzazione anche in ruoli affrontati  tardi o che non gli erano congeniali, come accade con Otello. Perché se Pertile  nella prima sezione del monologo “dio mi potevi scagliar” è verista ed enfatico  dal “e rassegnato al voler del cielo” è insuperabile per varietà d’accento,  anche se il fiato non quello di un tempo. E lo stesso stupore coglie
l’ascoltatore di oggi dinnanzi al monologo finale all’attacco “e tu come sei  pallida”. Neppure il raffinato Lauri Volpi, che sosteneva di essere il solo  vero Otello arriva a tanto.

Il corrispondente di Merli nei teatri di lingua   tedesca fu Franz Volker. Volker non era, a differenza di Merli, un tenore  drammatico. Si trovò però a Vienna ad ereditare i  ruoli di Leo Slezak cui si aggiunsero i  protagonisti del Ring e su questi ruoli il tenore austriaco sacrificò o quanto  meno compromise un’organizzazione vocale da lirico robusto sostenuta da una tecnica  ammirevole. Non solo, ma il suo Otello spesso fu sostenuto dalla direzione di  grandi bacchette come accadde nel 1933 con Clemens Krausse ed il risultato è un  raccolto e raffinato monologo “Dio mi potevi scagliare”. Certo un Esultate  dalla voce un poco ingrossata ed ingolata ci dicono, pur dinnanzi ad una grande prestazione che la stagione di Otello, vocalmente tenore da grand-opèra è  finita e che presto il Moro diverrà un antecedente di Canio, inteso in senso negativo.

Ad eccessi  di  accento e cadute di gusto si lasciò andare, invece, nei panni di Otello  Giovanni Martinelli che vestì i panni del condottiero cipriota della  Serenissima repubblica per un periodo breve dal 1936 al 1940, ma con  straordinaria intensità. Come nel caso di Merli, l’Otello di Martinelli è  documentato, oltre che da registrazioni antecedenti il debutto anche da  numerosi live del Met (con un Jago inarrivabile come Tibbet, due Desdemone   vocalmente uniche come la Rethberg e la Caniglia e la direzione di Panizza,
assai di più di un buon maestro accompagnatore di tanta esperienza). Ante  debutto il cantante dimostra di essere nobile nell’accento, squillante nella  gamma medio alta, sorvegliato in quella bassa, che – tenore contraltino in  origine- non era certo quella privilegiata della voce, magniloquente e dotato  di una dizione scolpita. Post debutto le cose cambiano in buona parte perché la  voce era divenuta intubata al centro, per simulare il tenore drammatico di  marca carusiana, che Martinelli non era, stonata e fissa sugli acuti con serie  difficoltà a legare vuoi nel duetto d’amore piuttosto che nel finale (oltre  tutto aggravato nella prima sezione dalla tessitura piuttosto grave).

Ultimo ed a parte il caso Giacomo Lauri Volpi, che  affrontò Otello alla Scala ed a Napoli. A Milano venne anche contestato ed il  tenore romano non trovò di meglio che adducere motivi politici e rivalità fra  cantanti. Premettiamo anche che nel 1941, anno delle incisioni e dell’esecuzione  milanese, per Lauri Volpi era già iniziato il declino, la cui manifestazione  più evidente era la difficoltà di reggere tessiture gravi e di non stonare al  centro. Per essere Otello non bastano lo squillo degli acuti e l’eloquenza  d’accento, tanto è che, persino, Lauri Volpi talvolta (monologo “dio mi potevi  scagliare”) appare enfatico ed in difficoltà con la scrittura vocale bassa  salvo poi prorompere nella fase finale quando la scrittura si alza ed è  richiesto slancio e squillo. Certo è un Otello molto all’antica per via del  colore marcatamente chiaro della voce e dello squillo, che richiama il primo  Otello ed alcuni coevi non documentati dal disco, sono certo, poi si tratti di  un’idea di Otello fascinosa, non completa, però, anche se uscita dalla mente e  dell’ugola di Lauri Volpi.

 

Verdi – Otello

Atto I

Esultate!Augusto Scampini (1911), Bernardo de Muro (1917), Giacomo Lauri Volpi (1941)

Già nella notte densaAugusto Scampini & Giuseppina Baldassare-Tedeschi (1911), Franz Völker e Viorica Ursuleac (1933), Francesco Merli e Claudia Muzio (1935), Giacomo Lauri Volpi e Maria Caniglia (1941)

Atto II

Ora e per sempre addioGiovanni Battista de Negri (1903), Francisco Viñas (1907), Augusto Scampini (1911), Bernardo de Muro (1917), Francesco Merli (1927), Franz Völker (1933), Giacomo Lauri Volpi (1941)

Sì, pel ciel marmoreo giuroGiacomo Lauri Volpi e Mario Basiola (1941)

Atto III

Dio ti giocondi, o sposoClaudia Muzio e Francesco Merli (1935), Gina Cigna e Aureliano Pertile (1942)

Dio, mi potevi scagliar tutti i maliLéon Escalais (1905), Augusto Scampini (1911), Bernardo de Muro (1917), Francesco Merli (1935), Giacomo Lauri Volpi (1941), Aureliano Pertile (1942)

Atto IV

Niun mi temaLeo Slezak (1908), Hermann Jadlowker (1911), Augusto Scampini (1911), Bernardo de Muro (1914), Francesco Merli (1935), Giacomo Lauri Volpi (1941), Aureliano Pertile (1942)

Immagine anteprima YouTube Immagine anteprima YouTube Immagine anteprima YouTube Immagine anteprima YouTube Immagine anteprima YouTube Immagine anteprima YouTube

Un pensiero su “Verdi Edission: Otello a 78 giri

  1. Bellissima carrellata! Vinas forse è un po’ fuori repertorio, ma la sua voce e la sua emissione mi fanno impazzire qualunque cosa canti.
    Un altro famoso Otello italiano prima di Merli, Martinelli ecc. fu Zenatello, deludente in un live tardo credo del ’26, ma molto interessante nei brani (parecchi) incisi in studio anni prima; composto, nobile, squillante, non troppo baritonale nonostante fosse un ex-baritono, un Otello da riascoltare secondo me.

Lascia un commento