Quattro tesi sulle tendenze ideologiche nell’industria operistica odierna

La crisi del canto che viene sistematicamente sottolineata negli articoli del nostro blog non è un problema isolato e deve essere considerata in un contesto molto più ampio che riguarda i modi contemporanei della comprensione e della produzione dell’opera come fenomeno complesso, sintesi di diversi elementi artistici. In una forma forse troppo densa proponiamo qualche tesi circa quelle che si potrebbero chiamare “tendenze ideologiche” in atto, aprendo un orizzonte nella cui luce potrebbero diventare più chiare non solo le ragioni della crisi canora, ma anche le impasse odierne dell’opera lirica nella sua totalità.

 

1.

Un primo elemento ideologico dominante tra i criteri di valutazione di una performance teatrale è la considerazione dell’esecuzione come evento unitario in cui si formi un risultato complessivo positivo che “funzioni” sempre e comunque, malgrado la possibile insufficienza della prestazione da parte di qualcuno dei componenti – canto, orchestra, regia. Si tratta di un tutto che regge grazie ad una logica evidente di compensazioni e sostituzioni, per cui, ad esempio, pessimi risultati canori di un artista vengono sistematicamente compensati dal suo talento scenico. Capita spesso di leggere una recensione eclettica, in cui un cantante viene lodato per le sue capacità vocali, mentre un altro è menzionato solo per il suo talento di attore affinché ne vengano taciute le carenze canore.

Questa ideologia di un tutto che funziona sempre e comunque potrebbe essere vista come deformazione moderna dei principi estetici del progetto wagneriano di opera d’arte totale (Gesamtkunstwerk), che rappresenta il culmine dell’aspirazione, essenzialmente romantico-tedesca, verso l’Opera d’arte assoluta. (NB: ovviamente l’idea e la prassi di una sintesi delle arti erano esistite anche prima del progetto tedesco, cionondimeno quello della Gesamtkunstwerk ha una specificità tedesca di cui parleremo più avanti.) Già Carl Maria von Weber scriveva rispetto alla Undine di E.T.A. Hoffmann come il sogno tedesco fosse la creazione di una sintesi completa in cui le arti separate si dissolvessero, amalgamandosi a dare luogo ad una unità da cui sorgerebbe quasi un nuovo mondo. E’ un sogno che per un uomo come Wagner si articolò successivamente nella visione retrospettiva della tragedia greca come opera d’arte totale esente da ogni separazione organica fra le arti. Della sua epoca Wagner condannò la separazione “egoista” tra le arti, la loro individualizzazione tecnica-artigianale esemplare nella cultura operistica del suo tempo, ovvero nell’opera in generale come era stata creata dal mondo barocco, capace di riunire le varie arti, senza necessariamente amalgamarle alchemicamente in modo da farle sparire nella loro indipendenza. Proprio questa condizione di separazione “egoista” fornì a Wagner la base per la creazione di un’opera totale che, seppur quasi alchemica nella sublimazione delle diverse arti in un tutto unitario, non poteva che ricorrere agli strumenti individualizzati proposti dal suo dispositivo materiale della prassi operistica.

Invece di fenomeni vaghi e dilettanteschi come, ad esempio, le “cantanti-attrici“ del nostro tempo, quello che venne iscritto nel progetto di Wagner fu la richiesta di cantanti capaci non solo di reggere vocalmente la sua scrittura musicale (stra)saturata (per usare un termine di Adorno), ma anche di essere attori di prim’ordine. La logica compensatoria-sostitutiva in Wagner era quasi del tutto esclusa per il semplice fatto che il suo dispositivo musical-teatrale rappresentava un’amplificazione delle risorse delle arti individuali, la cui sintesi rivestiva la forma di una costellazione e non di una confusione dei vari componenti della Gesamtkunstwerk. Per questo, essendo quello di Wagner un progetto di superamento dell’opera nella forma precedente, i suoi drammi musicali non sono forse ancora altro che la sublimazione e la “Restaurazione” dell’opera (Ph. Lacoue-Labarthe, Musica ficta. Figures de Wagner). Onde la disonestà ideologica attuale di una prassi esecutiva che opti apertamente per un’“espressività“ immediata e criteri di giudizio specialmente designati per il teatro wagneriano, che aggirano il valore della mediazione attraverso un lavoro propriamente tecnico-artigianale quale base della detta espressività e di un vero risultato totale che funzioni. Pur provenendo da un fraintendimento dei principi della teoria di Wagner, questa ideologia di un tutto che funziona sempre e comunque domina oggi tutto il repertorio.

La prossima tesi proverà di chiarire questo punto ancora una volta riferendosi all’importanza dell’eredità di Wagner e soprattutto del wagnerismo.

 

2.

Il progetto romantico dell’Opera assoluta ed ancora più esplicitamente la Gesamtkunstwerk wagneriana si basano in fondo sulla volontà della creazione di una nuova mitologia nazionale in cui la figurazione teatrale dei tipi mitici (al posto dei “personaggi”) e l’identificazione della nazione spettatrice di questi attraverso la forza emotiva della musica doveva rivestire, come per Greci dell’epoca delle tragedie, il ruolo politico della formazione di un’identità nazionale attraverso l’Arte come organo assoluto. La mitologizzazione, l’allegorizzazione dei personaggi scenici operata attraverso la saturazione, anzi l’esasperazione wagneriana delle capacità musicali-teatrali del dispositivo operistico ha trovato la sua logica e radicale conseguenza nella finzione politico-estetica del regime nazista di un’identità tedesca in forma di un tipo, di una Gestalt determinata che per se escludeva i suoi antipodi (come il tipo del ebreo, del comunista, etc.). La mitologia dell’opera di Wagner aveva quindi un ruolo chiaramente politico di cui l’Ottocento è stato preparatore, diventandone poi vittima nella prima metà del Novecento.

Dopo la catastrofe politica (di cui l’estetica era stata involontariamente complice) questa mitologizzazione, che metteva sul palcoscenico figure astratte ed allegoriche, ha perso il suo fondamento. Nonostante questo, con la complicità della suddetta ideologia del tutto, si assiste oggi ad un’essenziale wagnerizzazione dell’intero repertorio operistico tradizionale. La mitizzazione o allegorizzazione riguarda ormai non solo un Siegfried, ma anche una Violetta di cui si stabilisce un contenuto astratto, valido di per sè, a cui corrisponde il fenomeno di un lavoro di decostruzione da parte della Regietheater e per cui l’esecuzione concreta, materiale, dinamica sia del personaggio di Violetta che dell’opera La traviata non è più altro che un semplice playback. Anzichè davanti alla tipizzazione nel senso della finzione politica operata dalla cultura tedesca totalitaria, ci si trova ora in presenza di una mera e vile stereotipizzazione generale, che permette di neutralizzare l’importanza dell’esecuzione concreta e, quindi, della stessa qualità artistica e sufficienza tecnica. L’avvento dello stereotipo implica, di fatto, la liquidazione dell’artista non solo nella sua capacità di rendere giustizia ad un personaggio vocale, ma anche di costruirlo, perché la stereotipizzazione e l’ideologia appiattiscono il valore tecnico-materiale di una prestazione anche laddove essa sia di alta qualità. L’ideologia, cercando di mascherare i difetti, non riconosce più i pregi laddove essi si trovano. Così il personaggio realizzato attraverso la voce ed un canto espressivo, ovvero tecnicamente controllato, viene sostituito da un personaggio stereotipato in cui il canto piatto, sbraitato e naturalista di un tenore, ad esempio, diventa la rappresentazione banalizzata di un tenore drammatico, nel caso ideale rafforzato da uno stereotipo visivo.

La conseguenza di questa tendenza ideologica sarebbe quello che sembra essere il sogno di molti sovrintendenti attuali. Joan Matabosch, sovrintendente del Liceu di Barcelona, in un discorso lunghissimo pronunciato durante l’inaugurazione della cinquantesima edizione del concorso di canto Francesco Vinas, ha evocato un pubblico del futuro che non si preoccuperà più se la Violetta sarà cantata dalla Devia, ad esempio, (una sessantenne che ci ha regalato un “Addio del passato” addirittura commovente nel recital dopo il discorso) piuttosto che da una Tretyakova, fresca vincitrice del concorso, che ha trionfalmente strillato “Sempre libera” nella ripresa radiofonica del concerto dei finalisti. Avrà valore solo il contenuto ideale di nome “Violetta”, autentico surrogato dei tipi mitici dell’opera d’arte del futuro, per cui il pubblico un giorno non avrà più bisogno di protestare contro prestazioni canore indecenti o regie assurde. La rappresentazione oppure “l’interpretazione” di questo “senso” che racchiude la figura di nome “Violetta” è ovviamente affare in primo luogo della Regietheater la quale, però, non fa altro che de-mitologizzare qualcosa che la tendenza ideologica di cui la stessa Regietheater fa parte ha stra-mitologizzato e stereotipato in anticipo. La simuazione di lavoro analitico e decostruttivo da parte di un asino che segue la carota.

 

3.

Ad un’epoca in cui l’opera avesse perso ogni rilevanza sociale e politica, una volta wagnerizzato l’intero repertorio, ossia realizzata la stereotipizzazione dei codici estetici dell’opera, corrisponderà da parte del pubblico la tendenza ideologica a percepire l’opera come spazio per l’esperienza di emozioni forti. Molte sovrintendenze di fatto vendono già l’opera quale luogo ove si consumano porzioni copiose di emozioni. Sono benvenuti i “sentimenti forti”, come lo proclama un banner del Teatro alla Scala disegnato per il programma Under 30, mentre non sono affatto benvenuti un ascolto ed un giudizio critico i quali potrebbero additare l’insufficienza della qualità esecutiva reale. Men he meno è benvenuto o ammesso il rifiuto aperto da parte del pubblico insoddisfatto verso la prestazione dei songoli o la produzione, come invece è sempre accaduto nella storia del teatro lirico sin dai suoi albori. La rigida definizione dell’opera come “mondo di sentimenti forti” fa appello ad una confusa sfera di emotività e sentimentalità psico-fisiologica dello spettatore-ascoltatore che è di fatto scaduta nel peggior atteggiamento diffuso di “de gustibus”, senza che si ammetta più il valore di elementari criteri oggettivi per la valutazione di una prestazione.  Il meccanismo per cui l’effettiva alta qualità della prestazione generava l’emozione forte nello spettatore, è stato sostituito da quello moderno per cui l’emozione o la disposizione ad emozionarsi ad ogni costo diventa la causa di un vago apprezzamento che ha preventivamente livellato ogni effettivo valore positivo o negativo della prestazione. E’ un atteggiamento prevalente non solo tra il pubblico, sempre disponibile ad “emozionarsi” ad ogni costo, ma ormai anche tra i critici, per i quali l’ammissione di criteri oggettivi e determinati significherebbe la necessità di criticare in modo severo e sistematico numerose prestazioni che di fatto vengono salvate attraverso la nuova logica sostitutiva-compensatoria del “tutto” di cui ho detto sopra.

Al pari dell’ideologia del “tutto” sempre e comunque funzionante e della mitologizzazione stereotipica del repertorio, anche l’ideologia dell’emozione opera un completo appianamento, anzi piuttosto un’anestesia di qualsiasi dinamismo sia della qualità materiale individuale di ogni esecuzione che di uno spazio polemico o di un ascolto polemico (per dirlo con Peter Szendy) nell’ambito di un teatro. Ed è con l’ideologia dell’emozione che l’opera si trova in una condizione paradossale, se non grottesca, lacerata tra un atteggiamento entusiasta che vuole sempre e comunque affondarsi in un “sentimento forte” di fronte alla prestazione ed un modo di produzione che vuole togliere alla lirica il suo valore di “affezione” (J. Matabosch) e trasformarla in un luogo di interpretazione critica del “senso” di un’opera. Ironicamente, è ancora malgrado il progetto della creazione di un pubblico del futuro disponibile ad internalizzare il modo disaffezionato di andare all’opera che questo, degno erede dei wagneriani della peggior sorte che cercavano di estasiarsi nonostante l’effettiva qualità di un’esecuzione wagneriana, riuscirà ad emozionarsi anche di fronte a certi dei più “freddi” ed analitici prodotti della Regietheater. 

 

4.

L’ideologia dell’emozione ed il procedimento di stereotipizzazione postwagneriana, che trovano il loro strumento di valutazione nell’ideologia del tutto, sono appunto il fondamento poco solido del grande ombrello sotto di cui si rifugia l’opera spaesata, ossia la Cultura. La Cultura, con il suo doppio statuto fiero e mendicante di eredità od attività sovvenzionata dallo Stato (almeno in Europa), è perennemente costretta a procurare le ragioni della propria esistenza, o meglio sopravvivenza, il cui senso non è più sempre evidente. E’ cosi che l’opera come elemento della cultura sovvenzionata preferisce ancora ricorrere a surrogati come l’ideologia delle emozioni od un’imbranata riattivazione dell’eredità operistica in chiave di rilettura decostruttiva, etc., invece di mettersi sotto la protezione di asserzioni vaghe e quasi tautologiche come “la culture pour la culture” o “non di solo pane vive l’uomo”. La Cultura dichiara di avere valore di conservazione e di educazione (o di rieducazione). Eppure, con la sua problematica struttura economica per questi tempi di crisi la lirica come parte della Cultura porta a termine la tendenza alla livellazione del valore dinamico dell’esecuzione materiale. La posizione della lirica sotto la tutela della politica culturale toglie l’ultima possibilità di decidere liberamente se un’attività sovvenzionata dalla politica culturale abbia un valore o meno, se una prestazione sia in effetti riuscita o no. La possibilità di decidere sul suo valore effettivo significherebbe mettere in questione la necessità del suo sovvenzionamento.

Il valore didattico perde, poi, ogni fondamento da un lato con la neutralizzazione ideologica del necessario dinamismo materiale-tecnico di una prestazione e dall’altro grazie alla diffusione dei suddetti stereotipi universali attraverso i mass-media – un vero e proprio esercizio di pseudo-cultura, che ormai deve aiutare ad organizzare un consenso senza cui l’opera non potrebbe sopravvivere in quanto bene da tutelare grazie alla politica culturale statale. L’opera si trova sommersa in un circolo vizioso di divulgazione mediatica-tecnologica stereotipata, che in virtù della sua capacità di organizzazione del consenso, aggrava il livellamento ideologico di qualsiasi dinamismo della prassi esecutiva e recettiva. Questo livellamento aiuta la lirica ad essere mantenuta e sovvenzionata e le toglie al contempo quel più elementare dinamismo materiale che è fonte e senso della sua esistenza quale teatro vivo.

 

43 pensieri su “Quattro tesi sulle tendenze ideologiche nell’industria operistica odierna

  1. Sono perfettamente d’ accordo con la lucidissima ed esauriente disamina di Giuditta. Posso aggiungere che nel mondo operistico, a mio avviso, negli ultimi dieci anni si è assistito a un’ operazione capillare e quanto mai invasiva mirante a costruire e imporre prodotti tramite un lavoro di marketing i cui criteri sono desunti dal mondo del pop anglosassone, nel quale le star si creano dalla mattina alla sera. Il consenso tributato a cantanti come la Netrebko, la Garanca, la Bartoli, Kaufmann o Villazon è il risultato di un lavoro condotto da veri esperti di queste tecniche, studiato e condotto nei minimi particolari. Tali criteri si applicano anche ai giovani direttori e solisti, ma qui l’ operazione funziona in modo meno subdolo perchè un pianista o un violinista deve necessariamente possedere una preparazione tecnica completa, altrimenti non può esibirsi in pubblico. Si può arricciare il naso di fronte al successo di Alice Sara Ott o Yuja Wang, tanto per fare due esempi, ma non si può negare che tecnicamente queste due ragazze suonino benissimo.
    Che dire ancora? Nel mondo del rock, una parziale ancora di salvezza è assicurata dalle etichette indipendenti. Per quanto riguarda l’ opera, forse aveva ragione Gavazzeni il quale in una delle sue ultime interviste dichiarò che il futuro dell’ opera era nei piccoli centri… certo che di questo passo, o cambiano drasticamente le cose o tra meno di dieci anni sarà obbligatorio l’ uso dell’ amplificazione, poco da discutere.
    Saluti

    • Quello che dici tu sarebbe sicuramente da includere nella quarta tesi circa la diffusione mediatica-tecnologica degli stereotipi.

      Vorrei dare ragione a Gavazzeni. Però anche per quel futuro ci vuole gente che sarebbe capace di riunirsi in un “piccolo centro” (un teatro di media grandezza, un festival specializzato, magari), trovare risorse umane adeguate (voci che sanno cantare!) e fare produzioni con una visione realista delle cose. Un luogo come Martina Franca, Bergamo o certi altri “Geheimtips” potrebbero rivestire questo ruolo di “piccolo centro”, però anche li mancano volontà e competenza. Ci sono tanti professionisti corretti, come una Claudia Mahnke o Mukeria che circolano in provincia, che non costano neanche molto e la cui riunione in un ensemble (almeno per qualche produzione ogni anno) garantirebbe una certa qualità.

  2. la competenza e il saper fare il suo mestiere – è quello che manca oggi quasi dappertutto nel mondo della lirica. dilettanti e gente che non sa fare il suo mestiere ma che si da l´aria dell´artista: registi, cantanti, direttori d´orchestra, general managers, etc. mi viene male……

  3. Non é un gran momento per noi appassionati d’opera é vero, ma con riferimento agli artisti coinvolti nelle produzioni italiane (cantanti, registi e direttori) ritengo che la situzione sia in primo luogo proporzionata allo scarso interesse dimostrato dai giovani per questa arte: giovani che non risultano particolarmente motivati a parteciparvi sia come interpreti che come ascoltatori e che le direzioni artistiche di mezzo mondo cercano di coinvolgere con ogni mezzo. Limitandomi comunque al panorama canoro credo che anche in questo momento vi siano cantanti straordinari che colmano vuoti riiscontrati nei decenni precedenti. Ritengo per esempio che un cantante come Florez (apparso quando la brevissima carriera del Matteuzzi maturato volgeva al termine) abbia dato un contributo fondamentale alla “belcanto reneissance”. Stanno affermandosi cantanti come Maria Agresta che ha cantato Masnadieri a livello di come la cantò la Cedolins nel 2003 e meglio della Theodossiu nel 2001 e della Maliponte nel 1977. Ci sono direttori d’orchestra assai promettenti e anche sul fronte dei registi qualcosa finalmente si muove. Il problema é proprio nei giovani che come quantità non sono coinvolti nemmeno indirettamente nel mondo della lirica. Trenta quaranta anni fa la televisione con soli due canali di stato ti obbligava ad avvicinarti a questo mondo, in ogni paese di provincia si allestiva un pullman per l’Arena di Verona, in tutte le famiglie vi era l’appassionato che decantava quasi ossessivamente questa arte. Inoltre le operazioni di marketing e pubblicitarie su certi cantanti non erano meno invasive di adesso. L’offerta peraltro dagli anni 80 é comunque maggiore (cioé le stagioni sono sempre più lunghe) ed é ovvio che assicurarsi i pochi grandi cantanti per i teatri italiani é diventato sempre
    più difficile. Questa offerta fin troppo ampia é poi stata indirettamente causa del precoce declino di cantanti assai promettenti che effettivamente in mano ad agenti senza scrupoli (ma tutti dovrebbero conoscere che contratti capestro firmano) cantano tutto e troppo.

  4. caro alberto emme
    rispondo alla prima frase che mi ha colpito. come possono i giovani appassionarsi all’opera. entrano in un loggione come quello scaligero e trovano flamini e vestali di esemplare impreparazione che intimano l’applauso per amor della scala, vanno in loggione a parma ed assitono a spettacoli indegni applauditi in nome della parmigianità ( che non è purtroppo la ricetta del risotto o degli asparagi), leggono riviste ed ascoltano trasmissioni dove, conditi di strafalcioni che la lettura della mitica garzantina fugherebbe, si dimenticano quei principi fondamentali che avevano formato e sostenuto generazioni di ascoltatori, magari di non alta levatura culturale. E che gli resta solo il peregrinare sul tubo dove si aprono, grazie ai benemeriti che caricano orizzonti che alla nostra generazione per ovvi motivi erano preclusi. Ed allora incontri persone, che parlano di battistin, scampini o della hermolenko piuttosto che della yudina o della nikolaievna come se li avessero sentiti ed è ovvio che non possano digerire l’altro pubblico, la critica e coloro che organizzano gli spettacoli. Ovvio che per quest’ultima categoria è assai meglio allestire spettacoli per turisti e farsi sostenere da flamini, vestali e pensionati, che trascorrono le giornate nelle bocciofile liriche della pianura padana.
    ciao dd

  5. Cara Giuditta, chapeau! Il tuo articolo spiega molte delle cose che sfortunatamente vediamo ogni giorno sul palcoscenico. La quarta tesi mi sembra fondamentale, perché una gestione privata o semi-privata (o se si vuol una gestione publica con mentalità empresariale) non avrebbe sponsorizzato tanta sciocchezza, tanta “intellettualizzazione” e tanta astrazione. Certamente in nome della “libertà artistica e creativa” e della “cultura”, pure per ignoranza, le instituzione hanno tolerato e finanziato bazofia.

  6. Tutto giusto, tutto vero. Però non nascondiamoci dietro un dito. La grave crisi che affligge il teatro dell’opera è la mancanza di voci davvero eccezionali e carismatiche.Credete davvero che se nascesse una nuova Sutherland o un nuovo Pavarotti quattro mestieranti delle varie direzioni artsistiche o dieci registi cazzoni riuscirebbero a farli fuori? a disinnescarne il potere canoro?

    • Ciao Billy, nessuno vuole nascondere il problema della mancanza delle voci. Pensi che in questo blog, proprio qui, qualcuno lo nasconderebbe? 😀 Quello che volevo elaborare attraverso queste tesi è proprio la visione di uno stato culturale, intelettuale, ideologica, estetica della lirica che IMPEDISCE che si faccia teatro d’opera attraverso il canto e quindi che si sviluppino talenti in questo senso.

      • Ma la tesi secondo la quale è la natura a non produrre più voci eccezionali ti convince o no? (mi par di ricordare che già vent’anni fa Celletti dicesse qualcosa del genere, chiedendosi se non fosse anche colpa dll’inquinamento e di stili di vita poco”naturali”)

        • Hm… tendo a non crederci. Ho sentito tante voci, bellissime, enormi, però completamente prive di educazione o di motivazione di entraprendere uno studio ed una carriera serie. Poi ci sono le voci “importanti” che vengono usurati molto presto, già quasi durante lo studio, perché studiano in modo scorretto.
          Secondo me il “materiale” c’è. Anche se non ci fossero più voci dotatissime, cosa facciamo delle voci “modeste” che ci sono? Perché non abbiamo UN cantante dal livello di una Berganza?
          Non so quanto può essere colpevole l’inquinamento. Penserei piuttosto ad una mancanza di allenamento puramente fisico dovuto alla pigrizia dei cantanti di fare esercizi non sempre piacevoli di respirazione.

  7. mancanza di voci davvero eccezionali e carismatiche – non so… i miracoli vocali e gli interpreti veramente carismatici sono sempre stati pochi anche se più numerosi una volta – parlando su un livello alto. Quello che manca è un certo livello di professionalità e di SAPER CANTARE. Non servono le grandi e belli voci se non sanno cantare. Le voci belle ci sono in giro – ma non sanno cantare e dopo pochi anni spariscono nel nirvana. Io ci credo nel “orecchio naturale” del pubblico – ma se si legge tutti questi superlativi scritto di cantanti che poi in teatro non si sentono neanche – cos´è il messaggio per i giovani??

    • Cara Selma ma quali sarebbero ste’ belle voci? La Pratt? cantate che stimo molto e pure umanamente molto simpatica, ma che all’epoca d’oro della Sutherland, della Horne (e pure della Verrett, della Gruberova…) sarebbe stata “relegata” al secondo cast?
      Bella voce Mukeria? (bravino certo, ma hai presente un Corelli, un Bergonzi e pure un Kraus?). Insisto: secondo me un’epoca si è chiusa IRRIMEDIABILMENTE.

      • Billy, Alvarez è una voce! anzi, una stravoce.una supervoce….La Borodina non è una voce? cavolo!!!!!!!! Licitra non era una voce??? potrei andare avanti…le voci ci sono, ma non sono correttamente educate….
        La D’Intino non era una voce? cavolo,non certo da Verdi. La Barcellona non è una voce??è un vagone di voce che cammina ma che canta male….Hvorostovoscky non è una voce? sono vocioni!

  8. Alvarez, Licitra, la Rodvanovsky, Hvorostovsky, Kaufmann, Villazon, la Harteros, anche Cura – tutti dotati ma manca raffinatezza ed al mio parere in molti casi sono o erano malconsigliati e manca la coscienza dei propri mezzi vocali ed anche dei loro limiti. E quanto riguarda Corelli: voce si, ma cantante agli inizii… ascolta le registrazioni fino a 1954/55… un casino. Poi con lavoro assiduo sapeva domare wuesta voce ribelle. Cantante si – artista… Ma poi – tutto è relativo, vero?

  9. io conto almeno una trentina d cantanti che non m fanno perdere la passione per l opera perche’ altrimenti me ne starei a casa. d alcuni d questi s sentiva la mancanza anche all epoca d berganza e pavarotti x cui non sarei cosi disfattista sul presente

  10. Daccordo su tutta la linea,aggiungo che oggi molto spesso il grottesco e il volgare prende il sopravvento per giustificare interpretazioni vocalmente misere.Bisognerebbe forse ricrere il concetto che all’opera si va per essere travolti dall emozione di una voce capace di emozionare,coaudivado ed essendo coaudiuvata dalle scritture dei piu’ grandi maestri,o meglio una voce che li esalti e ci esalti. Oggi non tutti la pensano piu’ così,fra poco giustificheranno un opera quasi del tutto parlata e con due vaggiti come acuti facedoti intendere tutta una retorica piscicologica del personaggio o giustificandosi dicendosi unico vero interprete di cio’ che voleva il compositore…Pero’ pultroppo come leggevo qualcuno, la lirica è ad un punto decadente,non per le vendite,ma proprio per tutti questi pseudo cantanti, cantanti che non hanno piu’ o non hanno mai avuto voce e capacità, aggiungiamoci nuovi barocchisti(e le loro teorie),i falsettisti che si spacciano per i nuovi castrati e come se non bastasse questa prima cosa (assurdo far cantare ai falsettisti opera)cantano anche cose scritte per soprani ??? Tendenze ideologiche che stanno portando sempre più giù il mondo della lirica

  11. Chiedo scusa se mi intrometto, sono arrivato adesso.
    Tutto ciò che ho letto qui sopra contiene, a mio parere, una parte di verità.
    Non so se quel che dico ora possa servire, però ci provo.
    Il primo punto che mi viene in mente è che cantare seriamente -cioè studiando – costa fatica, giornaliera (e persino i cantanit di musica leggera, se vogliono fare sul serio, studiano), voci ce ne sarebbero, il guaio è che, come diceva il proverbio degli sfaticati “lavorando si suda, il sudore è umido e l’ umidità fa male”, mi spiego, credo.
    I nomi citati qui sopra li prendo per buoni, poi, ad esempio :
    -Cura non studia perchè ha fatto l’ Otello e gli hanno detto che era bravo, bontà loro, perciò canta come sa e non come potrebbe.
    -Licitra l’ ho visto nel Ballo, a Como, anni fa’, e se la cavava, l’ aveva appena cantato al Piermarini, però sperare che la voce accompagnasse la frase – mi capite ?! – sarebbe stato meglio, tutto era tronco, a finale secca, come se viaggiassse al risparmio.
    Le altre voci, quelle che conosco, devono alzarsi la mattina e lavorare. Kaufmann invece anche se lavora…
    E qui mi fermo perchè passo al marketing, di cui so fin troppo per fatto personale, anche se non musicale.
    E’ vero, concordo con chi dice che queste voci, anche le migliori, rischiano di essere “fregate” dal loro asservimento ai princìpi del mercato : oggi si canta troppo, si prova poco e probabilmente in fretta, di conseguenza si studia meno, per mancanza di voglia e di tempo, la voce è perciò soprattutto sfruttata e non coltivata (sposo il post di Giulia Grisi), senti cantare (sic !) in un modo che ti fa rimpiangere i difetti dei cantanti passati.
    “Miei signori, perdono, pietade”, temo per il futuro del nostro patrimonio operistico, e credo di non essere il solo.
    Ho scritto altrove che la prima musica che ho sentito era Opera – Gigli in Celeste Aida, e Rossini, e … lista troppo lunga – ho anche un po’ cantato, e sudavo accidenti.
    Continuerò ad ascoltare chi ci prova oggi, perchè senza questa musica starei male, sperando di sentire prima o poi chi mi riconcilii con l’ arte per me la più nobile ma, nell’ attesa, medicherò le mie ferite nuove con “unguenti” d’ annata.
    Non so che altro rimedio ci possa essere.
    Auguri a tutti.

  12. Intanto ti saluto, collega Giuditta. E’ il primo post con impostazione filosofica che leggo su questo blog; e questo non può che farmi piacere. Chi ti ha risposto questo aspetto l’ha completamente trascurato; ma secondo me non lo si può assolutamente fare, altrimenti il senso dello scritto si perde. Intanto ti faccio i miei migliori e più affettuosi auguri per la carriera futura; il tuo talento mi sembra notevole e merita ogni bene. Ciò che scrivi ha un attraente, ma non pedissequo, sapore adorniano. In un tempo in cui si predica la morte delle ideologie e che secondo me è ideologico come nessun tempo è mai stato, fa molto bene sentirsi ricordare Adorno e la sua lotta contro l’ideologia e la falsa coscienza. E’ anche molto interessante la tua critica del concetto ideologico di totalità, inteso come velo di uniformità o volontà di fusione, senza che sia lasciato alcuno spazio agli elementi concreti di cui l’arte, qualsiasi arte, si sostanzia. E l’espressione “cultura sovvenzionata” ricorda molto, si tratta di una ripresa con la quakle non posso che essere completamente d’accordo, la “cultura amministrata” della “Dialettica dell’illuminismo”. Io tuttavia, come ti ricorderai, molto spesso ho lasciato spazio al concetto di totalità per valutare positivamente alcune serate che qui erano state stroncate. Per esempio, il celebre “Simon Boccanegra” di Abbado e Strehler. Alcuni dei cantanti che partecipavano a quell’esecuzione potevano essere considerati discutibili, se non pessimi. Eppure tali erano la coerenza e la novità dell’impostazione generale che i difetti particolari passavano in secondo piano, scomparivano. Lo stesso, a mio parere, si può dire per certe esecuzioni operistiche lasciateci in disco da Toscanini. Ed è vero anche l’inverso. Serate, cui partecipavano grandi cantanti, che si erano risolte nel nulla proprio per la mancanza di impostazione generale; in misura massima una “Semiramide” fiorentina con Joan Sutherland. Perché la totalità può essere annullamento e forzatura, volendo imporre il “positivo” a tutti i costi. Ma può essere anche salvezza, redenzione, creazione di senso e conservazione dell’autentico. E’ vero che c’è una creazione delle stereotipo, nel quale scompare e affoga il personaggio vero, con tutte le sue esigenze; da qui la passività del pubblico, il suo inseguire un’idea, creata ad arte, più che le circostanze di una realizzazione credibile. Ma siamo proprio sicuri che la reattività dello stesso pubblico trenta, quaranta anni fa fosse dettata dall’esigenza di ritrovare l’autenticità e non dal bisogno di sfogare frustrazioni personali? Io stesso ho assistito ad una penosa esibizione fiorentina di loggionisti milanesi, una razza che non è mai stata un granché (hanno fischiato perfino Herbert von Karajan, Dimitri Mitropoulos e Carlos Kleiber), che erano venuti a Firenze per fischiare Renata Scotto, rea di aver rilasciato poco prima alcune dichiarazioni acidule sulla Callas. Facevano pena, la loro reattività faceva pena; e soprattutto nulla aveva a che vedere con la musica. Non saranno stati diretti dall’alto, non avranno ricevuto suggerimenti dalla cultura sovvenzionata e amministrata; continuo però a credere che sarebbe stato meglio che quei suggerimenti li avessero avuti e, soprattutto, li avessero seguiti. E per quanto riguarda il consenso. E’ vero, c’è qualcosa di preordinato. Non ci dobbiamo però dimenticare di quanto diceva Adorno in un suo indimenticabile e proprio per questo dimenticato saggio: che l’appassionato che comprava il bilgietto per il concerto di Toscanini apprezzava l’acquisto ma non la musica che andava ad ascoltare, la quale gli rimaneve chiusa con sette sigilli. Ceme vedi, Giuditta, la cosa èp cominciata molto tempo fa. Molto raramente l’apprezzamento è consapevole e altrettanto raramente la riprovazione lo è. Questo in tutti i tempi.
    Ciao e ancora complimenti
    Marco Ninci

    • sante parole Ninci, le cose negli anni settanta andavano (almeno per mia esperienza) esattamente come dici tu e la tua interpretazione di certi atteggiamenti calza eccome. Volevo dire alla Kurz che anch’io amo molto Corelli, che purtroppo non ho ascoltato dal vivo perché ho iniziato a frequentare qualche tempo dopo la sua ultima apparizione areniana, e che quindi ascolto solo in registrazioni.-
      Ritengo che sia stato uno dei cantanti più penalizzati dal riversamento dei suoi dischi dal vinile al CD. All’epoca ritenevo che Del Monaco quando lo chiamava PE-CORELLI fosse roso dall’invidia, ora devo ammettere che qualche ragione ce l’aveva. Inoltre le sue esse che diventavano effe (che alcuni rimarcavano come molto evidenti dal vivo) nei CD si sentono parecchio. Beneficiava inoltre nelle sue esibizioni del fatto che non fosse prassi (come lo é da trent’anni) di eseguire i da capo con risparmio quindi di complicate variazioni dalle quali si é sempre astenuto. Con questo non voglio assolutamente contribuire a revisionare il mito ma solo fare una piccola puntualizzazione su un cantante che, come appunto la Kurz notava, con ossessiva costanza cercò sempre di migliorarsi ed ebbe addirittura il coraggio di ritirarsi ancora in ottime condizioni.

    • Ciao Marco, mille grazie per gli auguri. Sono felice che ti sia piaciuto il testo.
      Su Adorno hai ragione e devo ammettere che il capitolo sulla “Kulturindustrie” nella “Dialettica” è uno dei miei testi preferiti.

      Circa la totalità: Anche a me è capitato di apprezzare una recita in cui magari non tutto era perfetto, ma che “funzionava” più o meno, però sempre ritenendo in mente le carenze che facevano parte di questa totalità. Quello che chiamo disonestà ideologica sta proprio nel fatto che oggi soprattutto i critici usano una prospettiva ecletticissima per costruire un tutto funzionante che in realtà non c’è o il quale non c’è nel modo in cui lo vogliono vendere. Potrei capire che sia giustificato un approccio “totalizzante” di fronte ad una W. Meier che è cantante mediocrissima, ma attrice di prim’ordine e che quando la VEDI almeno percepisci uno vero stile e talento attoriali. Però questo non dovrebbe impedire di sottolineare le carenze che ha questa artista. E’ proprio questa tendenza di riempire le lacune taciandole o rivalutandole che mi dà fastidio e che sta acquistando un carattere ideologico. Se leggi le recensioni degli anni 60 o 70 al Met – stroncano una Gwyneth Jones per le durezze del suo canto, dicendo che questo penalizzava la realizzazione del personaggio. Quando leggi le recensioni ottocentesche, a nessuno viene l’idea di “mascherare” i difetti canori della Colbran in declino con il suo talento scenico. Idem per la Pasta. Non si tratta mai di un Ersatz del talento vocale con il talento scenico, si analizza tutto, tutto riceve la valutazione che merita.
      Quello che dai tempi di un Strehler, Chereau od altri registi d’opera innovativi è successo è sicuramente lo spostamento del centro di “totalità” dal cantante verso la concezione registica globale nel cui contesto si poteva “riciclare” certi difetti canori, considerando che, tanto, il SENSO della recita sta altrove, ossia nella concezione registica. E’ questa tendenza che oggi ha ricevuto una forma assoluta.

      Per quanto riguarda i cattivi loggionisti che hanno fischiato la Scotto, quello mi sembra sia un fatto individuale. Non farei una generalizzazione sulla base di quel incidente. C’era sicuramente un fattore “troppo umano” nel modo di andare a teatro in quegli anni, ma c’era anche un certo numero di persone che avevano un orecchio più attento e più allenato del generale pubblico odierno. E se non il pubblico, almeno c’era una critica molto più preparata e “critica” nel senso che sapevano differenziare senza produrre false totalità.

      A presto,
      GP

      • Posso farti, Giuditta mia, un complimento grandissimo per questo tuo ultimo intervento di rarissimo equilibrio e di verita’, secondo me , assoluta? Brava. Senza offender nessuno e dire comunque le cose stanno. Brava.

  13. Complimenti da parte mia per il bellissimo articolo, che merita una lettura molto attenta e approfondita, direi anche ripetuta…per poter cogliere il messaggio notevole che contiene.
    E’ verissimo quello che afferma Ninci: c’è Adorno e c’è soprattutto la sconfitta di Adorno. Invano aveva ammonito, preconizzato e avvertito tutti, contestando persino la musica riprodotta meccanicamente e quindi i nostri beneamati dischi.
    Non poteva spuntarla perchè il mondo va avanti, e procede secondo leggi e modalità spesso incontrollabili, ineluttabili.
    Siamo allo stato in cui siamo: lo verifichiamo ogni giorno, da ascoltatori e da “facitori” di spettacoli. Non è facile. A volte resta la sola passione, nuda e cruda. Mi rendo conto di come molti acquirenti di biglietto a volte si sentano umiliati, quasi al punto di doversi sputare in faccia per essersi muniti di QUEL biglietto e aver assistito…a QUELLO spettacolo.

  14. Il limite di questo tuo contributo è, a mio modesto avviso, l’incapacità di cogliere le istanze utopiche presenti nel male che ti limiti a criticare e deprecare e che quindi forse non comprendi (nei due significati del termine).

    Per me, rispetto a quanto viene offerto dalla televisione, una serata all’opera è sempre(quasi sempree) ‘teatro vivo’. Quando sui mezzi pubblici vedo persone che leggono libri che io ritengo di infima qualità, faccio presente a me stesso come sia comunque un bene che stiano leggendo un libro invece che fissare lo schermo dell’iphone.

    Quanto alla cultura sovvenzionata, che, tra parentesi, consente anche agli studenti non facoltosi di fare esperienze di studio in questa o quella università europea, teniamocela stretta finché possiamo!

    Ulisse

        • sai che a volte mi piace dirla..piatta. non vedo come si possa chiamare utopia qualcosa che è oramai universale, potente per non dire dittatoriale, dominante e terribilmente dispensioso, anzi, strapagato. Una vera vergogna in rapporto al riciclo continuo di banalità, tritume,roba già vista, sempre ugialmente brutta ad ogni latitudine. E i cantanti sono schiavi di questi signori del regietheater che davanti alla Callas giovane direbbero solo: E’ grassa!
          intanto grazie a questo surrogato di Kultura abbiamo perso la nozione del canto, e quando dico perso, intendo dire che l’educazione sonora che serve per costruire cantanti e riconoscerli è del tutto perduta.

  15. Io vorrei aggiungere una cosa, che poi non è nuova, ma soltanto un modo diverso di dire quanto è già stato detto qui.

    Avete notato che di voci fresche, belle, anche estese e voluminose, ce ne sono, ma nel 99 per cento dei casi sono in mano a “cervellini”, cioè a bruti che non sanno cantare, fraseggiare, pronunciare, recitare?

    E avete notato, per contro, che il 99 per cento dei cantanti in carriera anche se non sanno cantare neanche loro, però sono musicalissimi, giovanissimi, bellissimi, bravi attori, magari anche stilisti e perfino un po’ fraseggiatori, pero di voce scarsa o nulla?

    Come mai chi si trova un vocione quasi sempre finisce col non combinare nulla e invece tanti che non dovrebbe neanche pensare a fare il mestiere del cantante solista – tant’è piccina e volgare la loro voce – invece con cervello, studio e marketing ce la fanno?

    Poi vorrei avere la vostra opinione su questi due video:

    Sam Ramey cantando, nel pieno fulgore dei suoi mezzi, l’aria di Argante dal “Rinaldo” di Haendel. Impossibile eseguirla meglio, credo. C’è proprio tutto: musicalità, vocalità, stile, dizione:

    http://www.youtube.com/watch?v=nepYa_0e–g

    Poi sentite un “basso” (basso?) odierno, uno di quei ragazzi intelligenti, giovani e belli che le agenzie ci fanno sentire dovunque, tale Luca Pisaroni:

    http://www.youtube.com/watch?v=dbBnAppZCos

    A essere sinceri, il Pisaroni qui ha tante qualità: presenza scenica, fraseggio elettrizzante, buona dizione, coloratura persino migliore di Ramey… ma la voce è piccola, baritonale, opaca, grigia, l’emissione magari non sbagliatissima ma comunque insufficiente. A risentire Ramey, sembra di essere in un altro pianeta.

    Ecco, non so voi, ma a me succede spesso proprio questo. Sento un cantante e penso magari “beh, bravo, guarda quante cose difficili fa con una certa souplesse”, eppure poi paragoni a Ramey e ti rendi conto che qualcosa non va.

    Mi spiego?

  16. Nel mio post precedente ho volutamente tralasciato di fare riferimento alla parte più storico-filosofico-didattica dello scritto di Giuditta perchè, scusate, non mi piace addentrarmi in argomenti che meriterebbero, secondo il mio punto di vista, serate intere a disposizione, poltrone, la possibilità di guardarsi in viso mentre si discetta di interessi e amori (si !) comuni, e magari qualcosa di adeguato nel bicchiere.
    Però, visto che leggo cose interessanti…
    L’ escursus su Wagner, la wagnerizzazione dell’ opera, il suo tentativo di sopravvivere a forme e metodologie imposte o dedotte – quasi l’ adattarsi ai tempi sia la via di sopravvivenza – è interessante ma si inscrive nel millenario caotico divenire delle forme artistiche che ci ha condotto fino a ciò che abbiamo di fronte oggi.
    Bella anche la citazione del saggio di Adorno di MarcoNinci e i commenti seguenti che lo riguardano.
    Trovo che tutto possa essere parte di un ragionamento complessivo sull’ arte, che contiene tutte le tematiche e le opinioni fin qui esposte.
    Il problema dell’ arte – in tutte le sue forme, non solo la musica – indirizzata, spinta, e/o persino asservita al potere delle mode imperanti, se non quello politico – che poi è lo stesso, beato chi non se ne accorge – attraversa tutta la storia umana : dall’ arte imposta dalla classe o parte dominante, (il V° secolo a.c ateniese, o l’ arte della Roma del primo impero – i Giulio Claudi – possono bastare), a quella commissionata, religiosa o laica, cui dobbiamo meraviglie di cui oggi andiamo fieri e che rendono soprattutto questo nostro paese così ricco, all’ arte “contro”, figlia di una laicizzazione progressiva che dopo il 1789 ha accelerato il la sua faticosa emancipazione, con risultati almeno controversi, per non dire che, forse, il processo in corso è autodistruttivo : nella musica, ad esempio, tra dodecafonica, sperimentale, e perchè no, il free jazz e altri generi vari, c’ è di che sbizzarrirsi.
    Dai tempi di Roma o dei Papi, o dei Re, dovunque, l’ evolversi del tessuto sociale è sempre figlio dell’ ideologia dominante e porta con se evoluzioni o involuzioni, a seconda del momento storico-politico-socale.
    Nel clima – a mio modo di vedere – crepuscolare di questa nostra civiltà occidentale, non c’è da meravigliarsi se anche l’ Opera stia soffendo di problemi comuni a tutti gli altri ambiti culturali, quelli che non ne soffrono sono immuni perche di culturale hanno solo il nome.
    Sostentarsi autonomamente, promuovere lo studio, creare occasioni perchè i cantanti emergano – i compositori ormai sono estinti -, è oggi una chimera.
    Il risultato è un bel gatto che si morde la coda : mercato imperante, pochi soldi, poco tempo, poco studio, molta attività (ogni occasione deve rendere, devi piacere) per stare sul mercato.
    Quello che si ascolta è il frutto di questa logica, a molti in platea piace, ad altri in loggione piace meno (fischiate stizzite a parte), e spesso la delusione è forte.
    A me resta la passione, che mi fa digerire anche la merda, come dice Giulia Grisi, e la speranza di un colpo di fortuna : una bella voce, educata, guidata da una testa che si preoccupa di ciò che canta e non del proprio ego – o del cachet – e il piacere, spero un giorno, di ascoltarla.
    Omaggi a tutti.

    • caro akonkagua, come avrai ben capito il post di giuditta voleva essere un assaggio per intavolare discussioni su certi temi. La premessa è che si tratta di un parziale liofilizzato forse anche troppo denso per una piacevole e facile lettura da blog. Ci interessava capire se ci sono margini per discutere come pure per trasferire il piano del dibattito sul canto dall’evento singolo recensito ad un quadro generale. La pasta ha formalizzato di fatto i discorsi di mancini, ne più né meno. Il focus per noi non è poi strettamente adorniano, perchè vi sono specificità che appartengono all’opera lirica, in primis il fatto che gli argomenti tecnici, a differenza delle altre arti, non compaiano con lo spazio dovuto nella storia della produzione lirica. Il fatto che il canto e come si canta non sia centrale nè nella critica nè nella storia lo paghiamo oggi con l’oggettiva estinzione dei cantanti e la loro sostituzione con surrogati dalle qualità extravocali. Circa poi il nostro passatismo, di cui verremno tacciati, inviterei la stampa filoscaligera alla lettura di Le rovine di Milano, di G Agosti, che inun pamphlet sintetico traccia il quadro dell’ambiente delle arti figurative a milano. Non perchè in mal comune vi sia mezzo gaudio, ma per mostrare come forse la capitale culturale italiana viva anche con la scala un fenomeno di declino generale di cui però nella stampa nazionale non si parla, men che meno nelle sedi ufficiali accademiche.

    • “Nel clima – a mio modo di vedere – crepuscolare di questa nostra civiltà occidentale, non c’è da meravigliarsi se anche l’ Opera stia soffendo di problemi comuni a tutti gli altri ambiti culturali, quelli che non ne soffrono sono immuni perche di culturale hanno solo il nome”
      Non sono del tutto d’accordo. Non mi pare, ad esempio, che il cinema stai soffrendo dello stesso declino che sta spegnendo il teatro d’Opera. ( E spero bene che nessuno varrà negare al cinema dignità artistica). Alcuni registi, alcuni attori e attrici di oggi, siano essi americani, europei o asiatici, riescono a non farmi rimpiangere le grandi star del passato. Ma nel melodramma…. E poi: da quando tempo non assistiamo alla nascita di un’Opera che abbia la possibiltà di porsi sullo stesso piano dei capolavori del passato? L’ultimo vero compositore , forse, è stato Britten. E’ inutile negarlo, l’ora è fuggita….

        • Appunto. Quindi, quando un’arte non ha modo di rinnovarsi, non resta altro che il museo. Per ora effettivo. Poi si arriverà pure a quello virtuale, ammesso che non ci siamo già (cantanti microfonati e via discorrendo)

          • uhmmm….non sono del tutto d’accordo. Tra stravolgere e musealizzare c’è grande differenza….cioè ci sono molte vie intermedie. Certo, occorrerebbe ricordarsi quando si va in scena che si ha a che fare con opere d’arte di altri tempi e non con produzioni contemporenee o forme artististiche del nostro tempo. Certo che se la via è solo ùpattualizzazione spinta alla matabosch, addio storia, a ddio tradizione, addio musica di un altro tempo. Ripeto, l’uso è ciò che la tiene viva, ma l’uso consapevole, governato dalla conoscenza di ciò che si ha per le mani. L’opera è ormai in mano ai registi che ne hanno fatto il pretesto per lo sfogo dei propri IO incontrollati e spesso ignoranti. Servire l’autore, con competeza, cultura e buon gusto. Che è cosa diversa dall’andare in scena con le tavole pittate come alcuni pretendono di farci dire.

  17. Cara Giula Grisi, concordo con te.
    Se la musealizzazione fosse ciò che resta per opere d’arte del passato, nessuno leggerebbe più Dante, reciterebbe più Shakespeare, nè suonerebbe Bach o Vivaldi, il che non impedisce a qualcuno di leggere, recitare o suonare male le opere di questi signori.
    Per fortuna ci sono interpreti, in tutti qusti campi che vale ancora la pena di ascoltare.
    Gli eccessi registici a volte sono decisamente insopportabili, e questo accade non solo per l’opera ma anche per la prosa, ho visto messe in scena shakespeariane da groviglio intestinale e altre invece estremamente rispettose dello spirito del lavoro in scena.
    E’ sempre necessario un buon mix di cultura e intelligenza per evitare stravolgimenti distruttivi, ed è una condizione che si verifica purtroppo solo ogni tanto.
    Quanto alla generale “penuria dei tempi” : sopra Bllly Budd cita il cinema come arte non in declino, ma non tutto , per fortuna, deve declinare alla stessa velocità, stiamo a vedere quanto reggiamo ancora…

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