Norma di Cecilia Bartoli: una caso di “novità” discografica.

Ogni volta che sopraggiunge un cosiddetto “evento” discografico,  ci vengono proposte le parole ancor prima della musica. Le riviste, con spirito di collaborazione proporzionale al loro azzeramento culturale e critico, stanno da giorni promuovendo l’ultima nata della linea top class, quella intellettual chic di Decca ove militarono Sutherland, Horne, Solti e Nilsson, riempendo pagine pagine di pseudo disamine storiche e di interviste promozionali.
Il confine tra promozione e cultura ormai non ha più distinzione di sorta, come, poi, inesorata conferma la qualità dei prodotti. Le parole volano e rimbalzano per ogni dove, parole, parole, parole, e nella canzone di Mina, e confondono un pubblico già di per sé distratto e imbambolato da decenni di “disinformatia” scritta e mal canto ascoltato nei teatri.
Questo parlare, questo inondare di parole, ormai ha esaurito il proprio effetto, al pari del teatro di regia, portatore solo di una confusione terminologica e contenutistica. Risultato: sempre maggiore allontanamento del pubblico dal teatro. Le parole stancano, fiaccano la genuinità dell’interesse del pubblico, ammorbano e, soprattutto, distruggono anche il rapporto con quello che di buono c’è stato sino a ieri.
Le parole d’ordine intorno a questa Norma di Cecilia Bartoli sono “restauro”, “autentico”, “vera accezione preromantica”,“realismo” e “classicismo” ( evidente la dicotomia tra questi due termini ), oltre che nomi leggendari come Pasta e Malibran. Un minestrone alcoolico, che può sedurre il neofita, ma la cui opportunistica quanto superficiale eterogeneità ed improprietà non può che far sorridere chi dilettante non audioleso e di normale cultura, abbia avuto modo di incontrare le teorie sull’arte e sul restauro.
Le parole su questa Norma sono le tipiche della koinè baroccara avvezza al gioco di parole appunto, alla speculazione sull’arcaica terminologia delle fonti, alla forzatura per induzione nell’approccio al passato allo scopo di legittimare qualcosa che legittimo nel canto non è mai stato e non potrà essere. Falsettisti = castrati; vocette asfittiche e meccaniche, perché non impostate = canto barocco. L’assenza di argini da parte della critica alla diffusione, nel repertorio barocco, di un malcanto fatto di voci senza appoggio, fisse e falsettanti, talora anche stonate, in nome di una filologia che sul piano del canto non ha saputo dimostrare nulla per legittimare se stessa ( fuor dalla legge  del commercio ), ha avvallato, in nome dell’adeguatezza stilistica, il dissesto delle basi tecniche del canto, ossia la voce priva di risonanza e capacità di espansione nello spazio, conducendoci a questo nuovo step mostruoso, ossia alla pretesa di affermare che Norma possa essere abbordata da una voce priva dei requisiti fondamentali naturali, tecnici e delle connesse capacità di fraseggio. Il tutto confezionato in nome della modernità, della soggettiva visione del passato, di una libertà artistica ed espressiva contraria sia alla natura del testo, alla storia oltre che alla legittimità della tradizione vocale, che ci siamo sentiti in obbligo di documentare nella giornata di ieri.
L’eclettismo terminologico abbaglia il lettore distratto. Non convince però. Questa Norma opererebbe prima di tutto il “restauro” della veste “preromantica” e “classica”, ci restituirebbe l’“autentico” di Norma che avremmo perduto, ma al tempo stesso porterebbe sulla scena il “realismo” della donna innamorata, l’altra accezione secondo cui la signora Bartoli intende il personaggio, resa al pari di Anna Magnani (!), dunque portata sulla scena salisburghese in un allestimento che fa della protagonista una partigiana ( idea tanto nuova che fu usata in quel di Bonn, se non vado errata, circa una trentina d’anni fa ).
E tanto per certificare questo abuso, assolutamente strumentale ai prodotti che vengono distribuiti, chiariamo: a) “restauro”è oggi un concetto superato. Sopravvive solo nel meno informato giornalismo. Il rapporto con il passato oggi si esprime intermini di “conservazione” dell’opera d’arte nella sua completa e stratificata accezione. Concetto che diviene problematico nel melodramma che si affida all’irrinunciabile mediazione dell’esecutore, donde l’utilizzo di termini come “autentico” ( che nelle arti figurative è la velleitaria frase” riportato al suo antico splendore” ed in musica “abbiamo riproposto la prima esecuzione” ), ovvero “originario” od “originale” è connesso a quello di “falso” e di “copia”. Nei teatri infatti non ci sono più Pasta Grisi Sanquirico e castrati, ma sopravvivono ad essi concetti generali quali “tragico”, “nobile”, “sublime” ed un sapere tecnico di cui Pasta Grisi etc erano gli storici portatori.
La spasmodica ricerca di una “restaurazione” dell’originalità passa regolarmente per la formula della miniaturizzazione dell’opera musicale, figlia di una lettura positivista, all’indietro nel tempo, che ritiene il progresso tecnico del canto figlio del post Garcia. Una panzana storiografica bella e buona, che non tiene conto delle testimonianze storiche, della descrizione delle voci fatta dai contemporanei, della capacità dei teatri a partire dalla fine del XVII secolo ( i 2000 posti del teatro di Dresda di Poppelmann o i sette ordini del teatro San Carlo di Napoli, i 1500 posti dell’Heymarket di Heandel sono solo due tra i tanti esempi possibili per dimostrare che le voci delle compagnie barocche fossero ampie e sonorissime, in grado di superare il documentato chiasso della sala di cui i viaggiatori stranieri hanno lasciato ampie testimonianze letterarie. Voci, quindi, ben diversamente  educate da quelle inudibili che oggi si ammantano della veste di specialisti del barocco..), degli spartiti composti per cantanti, castrati e non, capaci di prodursi in fantasmagoriche esibizioni vocali al limite delle possibilità umane, del…senso del canto.
Invocare il classicismo come contraltare ad un romanticismo fatto di voci troppo importanti e, quindi, come cifra negativa delle grandi interpretazioni di Norma che ne hanno fatto la storia, è un terreno sdrucciolevole su cui la signora Bartoli ed i suoi consortes scivolano malamente, essendo proprio quello classico il teatro di voci capaci di frasi spianate ed ampie, di accenti tragici, di un patetismo sempre e comunque aulico, che il romanticismo agiterà di passioni, magari meno contenute e cifrate, ma non per questo meno solenni. Il dramma classico non è quello di una damina cui il cicisbeo rompe un cristallo prezioso, o di una servetta che ha perduto la lista del bucato. E’ quello delle strutture architettoniche in cui Calbo e Semiramide scendono dopo che Piranesi le aveva disegnate per celebrare la potenza dell’architettura romana e lo smarrimento dell’uomo di fronte al gigantismo degli antichi. Il romanticismo non inventerà le passioni, piuttosto ne cambierà i codici espressivi e le concentrerà sull’individuo, piuttosto che sull’universalità e l’idealità del classicismo. Si passerà dal gigantismo visionario di Boulleé a quello dei neogotici spaventati davanti alla “potenza” del gotico.
Nel suo eclettismo verbale la Bartoli non va oltre l’etichetta dell’originalità degli strumenti, della certificazione delle corde di budello e del suono poco vibrato, ma esula ( e non è un caso ) dal canto, dal problema degli accenti, del carattere dei personaggi e delle situazioni drammatiche.
Se quanto propone per ampiezza, volume ed accento Cecilia Bartoli e la squadra che si è impossessata di Norma dovesse essere il tragico, allora che cosa diventerebbero mezzo carattere e comico? E quali equilibri si andrebbero a riscrivere per l’opera lirica del tempo?
Resta poi la contraddizione tra una filologia che vorrebbe essere garante della scientificità dell’operazione e il richiamo, popolare e retorico, alla libertà espressiva dell’artista ed al realismo cinematografico della sua produzione. E’ fin troppo facile smascherare il compiacente ed opportunistico ricorso al teatro di regia, garanzia inossidabile della nostra modernità progressiva, l’adeguamento alla prassi dell’attualizzazione del soggetto lirico, perché antiquato ed estraneo alla nostra sensibilità moderna, per questo bisognoso di una rifondazione attualizzante. Ammiccare al realismo cinematografico per un arte che persino nel verismo non ha mai confuso la realtà con la rappresentazione e descrizione, la fotografia (poi il cinema) con il teatro, è segno della profonda illiceità dell’operazione e ne rivela il carattere smaccatamente commerciale. La novità intacca e corrode ormai anche l’ambizione filologica, ammesso che questa esista !

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45 pensieri su “Norma di Cecilia Bartoli: una caso di “novità” discografica.

  1. Un amico melomane mi ha fatto avere oggi ( senza alcuna mia richiesta in tal senso) la registrazione del cd scaricata da Todopera. Orbene. Per ora ho ascoltato solo la cabaletta di Poliione ( nulla di che, variazioni parche, e non proprio belle) , il coro “Norma viene” senza energia. Il direttore mi sembra finora solo preoccupato di andare veloce. L’orchestra… mah.. a volte sembra il suono di un sintetizzatore anni ’80….Entra Norma/Cecilia: mi spiace, ma ..avrà anche qualche intenzione di interpretare, ma.. a me proprio il colore della voce non convince. A parte il fatto che la trovo molto “aperta” a livello di suono. Ma poi il timbro è bamboleggiante, e questo voler sempre “dire” esageratamente. e poi perchè anche i recitativi di corsa? Figlia mia…. pensa a ciò che dici. Va beh. Casta diva, che dire?solo una parola: noia. Cabaletta: meglio che mi astenga dal commentare, diventerei davvero offensivo. Per oggi basta. non ascolterò oltre. Non ho voglia di intossicarmi.

  2. dici…invece avevi fiutato giusto. Ieri la Bartoli ha fatto la diva e non si é fatta vedere x gli autografi. Ho parlato con Osborne farà Otello l’anno prossimo a Salisburgo. Sonnambula a salrno mi pare e Tell in Italiano a Torino

  3. è interessante solo a un livello socio(culturale) – che, essendo un livello non immediatamente percepibile né richiesto da un’esecuzione operistica (…), non fa che accentuarne la pericolosità, soprattutto presso un pubblico per forza di cose più indifeso di altri (giovani, poco esperti ecc.) – perché mostra l’estrema stortura cui è giunto il barocchismo spacciato per autentico e filologico quanto più è stato grottesco. Così sentiamo una Bartoli-Norma che fa il verso ai controtenori (i quali a loro volta camuffano i loro limiti con un canto caricaturale che getta fumo negli occhi spacciandosi per “autentico” ecc.) cercando di far credere che così cantava la Pasta. Il realismo romantico viene inoltre assimilato a, e reso con, un finto pathos contemporaneo, che guarda però anche al cinema neorealista (la madre, le corna, i Romani ecc.), ricreato per l’appunto da registi post, tipo Almodovar (la copertina)

    • non credo Fabrizio che nella sostanza il senso dell’operazione della Bartoli (visto che é sua la responsabilità del Festival di pentecoste) sia quello da te descritto e soprattutto non credo proprio che volesse far credere che così cantava la Pasta. In primis ha cercato di fare “teatro” affidando ai suoi fidi registi una produzione tutt’altro che banale, densa di dettagli e compatibile con il libretto come raramente accade. Infine ti dico in tutta franchezza che penso che ai giovani e ai poco esperti faccia più bene un approccio all’opera sperimentale e gioioso rispetto ad un approccio oltranzista, rancoroso, passatista.-
      Atteggiamento minoritario che, peraltro, nel mondo dell’opera é sempre (dico sempre) esistito e che, a prescindere dalle toppate talvolta constatate a distanza di anni, si é sempre tradotto in un atteggiamento elitario in pratica disfattista.-

      • mi domando se sei così sinceramente ingenuo davvero…..la norma partigiana di mara zampieri…la pasta e la malibran, il restauro della veste preromantica……aspettavamo prorpio lei! Ma per favore…

      • “Infine ti dico in tutta franchezza che penso che ai giovani e ai poco esperti faccia più bene un approccio all’opera sperimentale e gioioso rispetto ad un approccio oltranzista, rancoroso, passatista.”

        Ma si! Prendiamo in giro il pubblico “inesperto, lusingato” e facciamogli credere che “questa roba” è Norma, ma non di Bellini, della Bartoli.
        Quindi la Sutherland, la Callas, la Caballé etc. erano oltranziste e rancorose mentre portavano in scena Bellini? 😀

        “e soprattutto non credo proprio che volesse far credere che così cantava la Pasta.”

        Però ha detto che la Malibran cantava come lei e, se non sbaglio, che la voce della Pasta era quella di Zerlina, o una cosa del genere.
        Vorrei sentire (parola grossa) la Bartoli cimentarsi dal vivo, come facevano loro, nel repertorio integrale della Malibran e della Pasta 😉

  4. io lascerei da parte i giudizi sulla Bartoli (io per primo visto che sono ospite qui). Piuttosto per valutare la misura della “produzione” partirei dalla direzione di Antonini -che dal vivo risalta meglio nelle dinamiche, nei tempi e nell’intonazione (visto che si sono utilizzati strumenti d’epoca) rispetto al disco inciso tra il 2010 e il 2013-, poi se questo costa fatica ed é più comodo correre dietro a teoremi vuol dire che qualcuno soffre di sindrome da P (Pubblico) M (Ministero) .-

  5. Alberto, ma che competenza può vantare Antonini nel repertorio ottocentesco? E’ un direttore formatosi con il barocco più spinto e con un orizzonte estetico che arriva all’opera seria. Ora capisco che il “giochino” all’inizio può divertire, ma il “sentiamo come suona” e “famolo strano” sempre e comunque, deve avere un limite…dettato almeno dal buon gusto, e se difetta, dall’intelligenza. Una Norma preromantica è già una forzatura concettuale, dato che è stata scritta negli anni ’30 dell XIX secolo e non nel ‘700. Se poi questo si traduce in una dinamica arida e in un suono secco e appuntito – e, bada bene, non è un portato necessario degli strumenti originali, dato che esistono complessi che dai medesimi strumenti estraggono suoni diversi e assai più piacevoli – mi chiedo che cosa possano significare per Antonini i 100 e più anni che separano Hasse da Bellini (e l’evoluzione musicale che nel frattempo si è avuta) se le loro orchestre “suonano” nel medesimo modo. Il grande inganno di certi professionisti del barocco è la specializzazione fittizia che nega sé stessa: uno specialista di Vivaldi non può esserlo, vantando i medesimi titoli, anche per Bellini…non ha senso. Non basta riportare il diapason a 430, usare le corde di budello e rivedere il rapporto archi/fiati per diventare “specialista” belliniano. La specializzazione impone serietà ed onestà. Se Bellini suona come Telemann e Beethoven (altro abortito esperimento di Antonini) suona come Heinichen, significa che qualcosa è sfuggito di mano e non ci si può prendere in giro con una specializzazione che diventa sempre più generica e buona per tutto, come se la patente di “specialista” fosse un lasciapassare per esserlo sempre: specialista, va bene, ma in cosa e perché? Quali titoli? Quali studi? Quali ricerche? Quale filologia?

  6. troppo Duprez presumi…le cose sono andate diversamente e anche sul diapason non mi pare che ci siano state modifiche. Osborne ha eseguito un finale della cabaletta diverso rispetto al disco e il suo Re Bemolle mi pareci sia tutto. Forse se ti interessa approfondire potrei mandarti qualcosa di oggettivo (semmai fammi avere una mail). Piuttosto per non andare fuori tema, ho trovato il disco che é stato prodotto in tre sessioni (due nel 2010 e una nel 2013) ha il difetto che Celletti riscontrava alle ultime produzioni di Karajan: incidere in studio prima delle recite in teatro e non viceversa sarà più utile per i magri profitti delle case che si cimentano con la musica colta, ma penalizza la resa complessiva.
    Ti faccio poi notare che le orchestre sono diverse e credo che in tre anni Antonini abbia avuto modo di riflettere sulla sua interpretazione che non mi pare possa essere ricondotta tout court alle categorie che ormai puzzano un po’ di reorica di classico, protoromantico, romantico. Mi pare che abbia studiato e letto lo spartito senza mettere il carro davanti ai buoi.-
    Al grande Mozart voglio dire che non ero a conoscenza di questo allestimento di Stoccarda (la Germania la frequento q.b.) e comunque parlando di prodotti trasformati anche la Torta Sacher é in repertorio da tempo immemore ma il pasticcere Muller piuttosto che Gruber può farla meglio.-
    Vorrei dire di più, passando ai prodotti naturali, cara Signora Brandt che anche in materia di limoni o di aceti si può fare sempre di meglio 😉

  7. Mi permetto di fare un parallelismo che secondo me è assolutamente calzante (e sintomo di come certi meccanisimi si ripeteranno sempre).

    In una intervista rilasciata il 26 Aprile 1992 al Sunday Telegraph, ad Alfredo Kraus venne chiesto: “Cosa ne pensa del concerto del secolo?”. Il buon Kraus rispose: “Quale concerto? Quale secolo?”. Lo sbadato giornalista si riferiva al concerto di Caracalla dei Tre Tenori (in realtà due: 1 Pavarotti, 0.5 Domingo e 0.5 Carreras).
    Svelato l’arcano, Kraus rispose che era stato un bello e felice show, un concerto semplice per della gente semplice e che il concerto del secolo sarebbe dovuto essere di altro livello, musica ed interpretazione. L’ancor più sbadato giornalista disse che era un tentativo di “fare opera per le persone” e Kraus rispose: “Non credo in questo tipo di popolarità. Se si vuole far conoscere l’opera alla gente, non c’è bisogno che tre tenori cantino un’aria scritta da Puccini per un tenore. QUESTO NON E’ POPOLARIZZARE L’OPERA: E’ VOLGARIZZARLA”.
    Pavarotti rispose stizzito a riguardo di “gente stupida” che criticava il concerto (salvo dire in futuro la celebre frase “Vorrei essere ricordato come un tenore d’Opera” forse con quale rimorso per i concerti pop spacciati per opera? Chissà!).
    Si sa poi come andò a finire tra Kraus e Carreras/Domingo, i quali cercarono di boicottare Kraus per certi eventi pubblici in cui Carreras/Domingo erano direttori artistici – peraltro nella programmazione dell’Expo 92, Domingo programmò 10 opere, in 5 delle quali cantava lui.
    Kraus asserì inoltre a metà intervista: “Tanti anni fa nessuno usava la parola popolarità a riguardo dell’opera. Questa è una folie de grandeur della democrazia. Questo è un ragionamento politico: se dai tutto alla gente, perché non anche la cultura? Io dico ok, ma stiamo attenti. Volgarizzandola non la rende più popolare. Il problema è che le persone vanno a Caracalla e dicono . La Cultura ha bisogno di educazione”.
    Alla fine dell’intervista, Kraus lanciò l’amara profezia: “PENSO CHE NEL GIRO DI POCHI ANNI L’OPERA NEI TEATRI SARA’ FINITA E CI RITROVEREMO A CANTARE OPERA NEI CONCERTI E NEI RECITALS, […] PROPRIO COME NEL CONCERTO DEI TRE TENORI. QUESTO E’ IL VERO PERICOLO.”

      • Si vede che non hai capito niente dell’intervento.
        La Bartoli sta volgarizzando il mondo dell’opera con queste sue porcate discografiche, e Kraus aveva già previsto tutto questo: chi è che al giorno d’oggi va in giro a cantare maggiormente in recital e concerti se non la tua cara Cecilia?

        Inoltre fa contenti e fessi molti pensando che andando a sentirla sentono appunto la Malibran o la Pasta rediviva, tutto per merito della macchina dell’immagine montata dalla sua casa discografica.

        Ora tocca a me la battuta, caro emme: non perdi mai un’occasione per fare bella figura, leggere e stare zitto senza commentare, peraltro senza dir niente 😉 non vorrai mica rubare il posto al maestro del “nullo dire”?

    • sappiamo bene il carattere, l’orientamento politico di kraus, forse anche la stizza per non essere mai stato da “concerto dei tre tenori” (anche perchè se doveva farlo i suoi compagni potevano chiamarsi carlo bergonzi ed alain vanzo) ma aveva ragione da vendere. Davanti al concerto dei tre tenori la vera cultura, intesa come veicolo e stimolo sono i concerti popular di gigli , che alla fine chiedeva al pubblico che cosa volessero sentire e lui cantava e poi cantava al ristorante. Almeno il pubblico si costruiva l’orecchio e davanti ad i stefano diceva “un po’ sguaiato, quegli acuti gridati” e così si educavano le generazioni successive. Sto facendo assoluta autobiografia.

  8. Alberto, non ci capiamo:
    1) non sto parlando di differenze tra rappresentazioni e incisioni in studio;
    2) la questione del Re bemolle di Osborn non mi interessa neppure (non ho mai avuto la sindrome da acuto);
    3) non ho parlato di scarsa amalgama dovuto a tre sessioni di incisione;
    4) la questione diapason è posta in altri termini: sono il primo a sostenere che i 440 attuali siano una forzatura e, soprattutto nell’opera, andrebbe riconsiderato e modificato a seconda del repertorio…però non basta usare quello a 430 per essere “specialisti”;
    5) quel che dico di Antonini, fidati, non è una presunzione: Antonini ha una sua formazione barocca e chi lo conosce bene si chiede quale competenza possa avere nell’opera ottocentesca;
    6) la questione dello “specialismo” è l’oggetto del mio commento: specializzazione impone serietà e definizione dei confini di interesse…non è un lasciapassare per essere “specialista” tout court. In questo modo, anzi, si nega lo stesso specialismo. Un direttore o un’orchestra specializzati e formati sulla musica barocca di quella sono specialisti e possono essere esecutori attendibili, non necessariamente lo sono in altri generi. Oggi, invece, accade che un direttore “specialista” di barocco (Bach, Vivaldi, Handel) laddove si picchi di affrontare Beethoven o Bellini diventa automaticamente “specialista” anche in quel genere. Accade con Antonini, con la Scintilla, con Hogwood, con Gardiner etc… La trovo un’operazione disonesta o poco chiara.
    RIPETO: abbassare il diapason, usare corde di budello o timpani naturali, ripensare al rapporto fiati/archi…non basta a ricreare autenticità. Quale autenticità poi?

  9. Certo, l’Orfeo Sardo pensa sempre a me e non tralascia occasione di ricordarmi. Io, per la verità, mi ero quasi dimenticato di lui; mi fa piacere però essere sempre nei suoi pensieri, come la Madonna di Pompei nella mente di una beghina. Immagino non sarò pubblicato. Ma mi ha divertito lo stesso scrivere di queste piacevolezze. Ciao a tutti
    Marco Ninci (o forse, per conformarmi agli usi del mio illustre interlocutore, “Plato tuscanus”).

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