Wagner Edition – Der fliegende Holländer

Nel ricostruire a posteriori la propria biografia per renderla più coerente ai presupposti ideali maturati nell’arco della sua carriera, Wagner indicò nel giovanile Der fliegende Holländer, la prima realizzazione delle proprie teorie musicali: in esso l’autore e i suoi esegeti hanno voluto trovare i primi embrioni di dramma musicale, inserendolo in quel “canone” che intende porsi come cesura tra il “vero” Wagner e quello ancora inconsapevole e contaminato dall’opera del suo tempo. Le cose sono più complesse: solo poche frange di estremisti (anche nella critica) credono ancora che Wagner fosse un’entità comparsa dal nulla e che dal nulla – salvo il precedente di Gluck che ne avrebbe intuito l’avvento, come i profeti vetero testamentari – avesse potuto trarre la “musica dell’avvenire”. La parabola wagneriana, invece, si inserisce pienamente nel suo tempo, nelle suggestioni dell’opera romantica (Weber innanzitutto, ma anche i poco apprezzati Mendelssohn e Marschner), nelle influenze del grand-opéra francese, nella lezione di Spontini e Cherubini, persino nella tanta detestata opera italiana (quando Wagner iniziò a scrivere l’Olandese, viveva in povertà estrema a Parigi, e per sbarcare il lunario era costretto, tra i vari mestieri svolti, a trascrivere per gli organici più disparati i più celebri brani delle opere di Donizetti, che allora stava conquistando la capitale francese: non stupisce, dunque, ritrovare nel coro delle filatrici dell’atto II una vera e propria citazione donizettiana). La scrittura dell’opera fu molto travagliata, a partire dalla fonte letteraria: l’idea poetica nacque probabilmente dalla lettura di diverso materiale, da Coleridge a Heine, passando per il Poe di Gordon Pym sino a certe suggestioni hoffmanniane (penso a Undine), senza dimenticare la letteratura bassa e di consumo che allora, come adesso, invadeva giornali e librerie. Una prima versione venne ultimata a Parigi nel 1841: si tratta di una stesura certamente non compiuta – e rimasta pressoché ignota sino ai nostri giorni – ma che contiene più di uno spunto interessante (e che, in qualche modo, smentisce la vulgata di un Holländer quale “primo” dramma musicale del Wagner autentico). L’ambientazione, innanzitutto, non è scandinava, ma scozzese (come nel racconto di Heine), così come i nomi dei personaggi rivelano un’origine celtica invece che norvegese: Donald invece di Daland, Anna (o Minna) invece di Senta, Georg invece di Erik. L’atmosfera è più cupa, grigia, il colore musicale è più tetro, gotico, riportandosi idealmente alla ballata romantica. Proprio in questo aspetto, più che alle intuizioni di un dramma musicale ante litteram, vanno ricercate le ragioni della forma in atto unico: in Wagner vive ancora l’idea del racconto misterioso, della storia di fantasmi cara alla cultura popolare (e abusata dalle mode letterarie del tempo), non certo la consapevolezza di un flusso ininterrotto di musica che abolisse le forme chiuse (ancora ravvisabili, invece, nella struttura dell’opera). Questa prima versione rimase nel cassetto per più di due anni. Nel frattempo l’autore, per sopravvivere, fu costretto a svendere il soggetto al sovrintendente dell’Opéra che incaricò un paio di mestieranti per stendere un libretto vero e proprio e un mediocre musicista per farne un’opera (Pierre-Louis Dietsch, responsabile – in qualità di direttore d’orchestra – della disastrosa riuscita del Tannhäuser parigino nel ’61). Nel 1843, a Dresda, Wagner riprese in mano la sua creatura: cambiò l’ambientazione, portandola nella Norvegia della sua versione definitiva, e i nomi dei personaggi, suddivise l’opera in tre atti, completò l’orchestrazione e modificò alcuni brani. In particolare trasportò un tono sotto, da La minore a Sol minore, la ballata della protagonista nell’atto II – per adattarla alla ormai declinante tessitura della Schröder-Devrient, la prima Senta – e ne rivide la scena introduttiva. Anche questa versione tradisce un carattere romantico e gotico, con effetti sonori di particolare violenza nei momenti più drammatici (molto fitta l’orchestrazione ad elevato impiego di ottoni). Wagner tornò altre due volte sull’opera: nel 1853 (quando viveva a Zurigo)  si limitò a lievi dettagli e a scarse modifiche nella linea vocale della ballata (vero snodo musicale del lavoro, visto che rimarrà sempre al centro di ogni successiva elaborazione e revisione), ma nel 1860, in vista delle rappresentazioni parigine, intervenne in modo più sostanzioso, rivoluzionandone il significato. In quell’occasione Wagner scrisse una nuova conclusione dell’ouverture, aggiungendo 21 battute armonizzate in uno stile assai prossimo a quello del Tristan un Isolde, dove arpa e legni suonano il motivo della redenzione che ricomparirà, anch’esso aggiunto nella revisione, nel finale dell’opera ove si compie la trasfigurazione di Senta e Erik, in luogo dei bruschi accordi della versione del 1843. Ma ancora nel 1878 Wagner progettava di rivedere il suo Holländer, in particolare pensò di riscrivere totalmente la ballata che gli appariva troppo “vivace” e “popolare” e quindi stridente con la nuova visione che aveva dell’opera: non più racconto gotico, ma storia di redenzione e presenze sovrannaturali. Spostandoci dalla storia compositiva alla struttura musicale, si nota come l’Holländer, aldilà della presunta funzione anticipatrice del Wort-Ton-Drama, si presenti come la più italiana delle opere di Wagner (non solo più di Lohengrin che, per varie ragioni fu il suo titolo più frequentato dai cantanti della penisola, ma anche del precedente Rienzi e dei primi due e più acerbi lavori). Soprattutto per quanto riguarda il trattamento vocale e la forma. Ancora ben presente, infatti,  la suddivisione per numeri e l’alternarsi di pezzi sostanzialmente chiusi e recitativi (seppur trattati con grande libertà ed ampiezza). La stessa presenza dei cosiddetti temi conduttori tradisce una maggior vicinanza alla tradizione romantica e melodrammatica, piuttosto del più complesso sistema dei leitmotive: la stessa ouverture è strutturata come un centone di motivi che ricorreranno nell’opera, con un procedimento simile a quello del melodramma (ovviamente con una visione sinfonica superiore ed un trattamento orchestrale che – affondando le radici nella tradizione romantica tedesca – non è paragonabile alle più semplici costruzioni dell’opera italiana). Sono già presenti, tuttavia, alcuni dei temi ricorrenti dell’estetica wagneriana, poi sviluppati nelle opere successive con maggior ampiezza e consapevolezza: il sentimento impossibile, il tormento del vagabondare, l’amore che può vivere soltanto oltre la vita, l’annientamento desiderato e redentore. In queste tematiche si coglie il Wagner che verrà, non nel tentativo – piuttosto maldestro – di ritrovare nel tessuto musicale dell’opera sviluppi che ancora non erano immaginabili. Il clima di ballata romantica, l’atmosfera gotica, la vocalità più generosa e mediterranea, senza dimenticare una dimensione più fruibile ed agile (rispetto a tutto il resto del suo repertorio), hanno arricchito la storia interpretativa dell’opera di numerose edizioni discografiche ed esecuzioni teatrali, così da poterla ascoltare in tutte le sue diverse versioni (persino nell’Urfassung parigina). Non mancano le edizioni collage (come per Tannhäuser), soprattutto di matrice bayreuthiana, nel tentativo fortissimamente perseguito – secondo i dettami di Cosima – di stabilire rigidamente il canone del Wagner ammesso sulla Collina. La nostra scelta è necessariamente parziale e incompleta, anche se non possono mancare Klemperer, Furtwängler e Kraus, snodi inevitabili della storia interpretativa dell’Holländer.

Richard Wagner

Der fliegende Holländer

OuvertureBayerisches Staatsorchester, dir. Clemens Krauss (1944), Orchestra del Festival di Bayreuth, dir. Wolfgang Sawallisch (1961), New Philarmonia Orchestra, dir. Otto Klemperer (1968)

Atto I

Hojohe! Hallojo!…Mit Gewitter und SturmGottlob Frick, Fritz Wunderlich, dir. Franz Konwitschny (1959)

Die Frist ist um…Wie oft in Meeres tiefsten SchundHans Hermann Nissen, dir. Carl Leonhardt (1936), Herbert Janssen, dir. Fritz Reiner (1937)

He! Holla! Steuermann!…Durch Sturm und bösen Wind verschlagenAlexander Kipnis & Fred Destal, dir. Fritz Busch (1936), Ludwig Weber & Hans Hermann Nissen, dir. Carl Leonhardt (1936), Martti Talvela & Theo Adam, dir. Otto Klemperer (1968)

Atto II

Summ und brummHertha Glaz, Astrid Varnay, Coro del Metropolitan Opera, dir. Fritz Reiner (1950)

Johohoe! Johohohoe! Marjorie Lawrence, dir. Fritz Busch (1936), Margarethe Teschemacher, dir. Carl Leonhardt (1936), Kirsten Flagstad, dir. Fritz Reiner (1937), Maria Müller, dir. Richard Kraus (1942) Astrid Varnay, dir. Fritz Reiner (1950)

Senta! Willst du mich verderben?…Bleib, Senta!Franz Völker & Maria Müller, dir. Richard Kraus (1942)

Mein Kind, du siehst mich auf der Schwelle…Mögst du, mein Kind Martti Talvela, Anja Silja, dir. Otto Klemperer (1968), Karl Ridderbusch, Ingrid Bjoner, dir. Wolfgang Sawallisch (1969)

Wie aus der Ferne längst vergangner Zeiten..Wirst du des Vaters Wahl nicht schelten?Fred Destal & Marjorie Lawrence, dir. Fritz Busch (1936), Hans Hermann Nissen & Margarethe Teschemacher, dir. Carl Leonhardt (1936), Herbert Janssen & Kirsten Flagstad, dir Fritz Reiner (1937), Rudolf Bockelmann & Maria Müller, dir Karl Elmendorff (1939)

Atto III

Steuermann! Lass die Wacht!…Johohoe! Johohohoe!BBC Chorus, dir. Otto Klemperer (1968)

Was musst’ ich hören!…Willst jenes TagsTorsten Ralf, Margarethe Teschemacher, dir. Carl Leonhardt (1936), Max Lorenz, Kirsten Flagstad, dir. Fritz Reiner (1937)

Verloren! Ach! Verloren!…Erfahre das GeschickFred Destal, Marjorie Lawrence, René Maison, Alexander Kipnis, dir. Fritz Busch (1936), Hans Hermann Nissen, Margerethe Teschemacher, Torsten Ralf, Ludwig Weber, dir. Carl Leonhardt (1936), Herbert Janssen, Kirsten Flagstad, Max Lorenz, Ludwig Weber, dir. Fritz Reiner (1937)

2 pensieri su “Wagner Edition – Der fliegende Holländer

  1. diciamo che questo impasto di meyerbeer e donizetti piace moltissimo a chi non ami wagner. se poi fosse in italiano o in francese con balli ed una parte di agilità per una cugina di senta sarebbe un CAPOLAVORO.

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