ARNOLD XXXII: CHRIS MERRITT

Immagine anteprima YouTube

Con Merritt il personaggio di Arnold cambia di prospettiva: per la prima volta, infatti, al cosiddetto “modello Duprez” si sostituisce quello di Nourrit, nel recupero della vocalità originaria, così cara a Rossini (l’aneddotica a riguardo – circa la sua insofferenza per l’ut de poitrine – è particolarmente ricca e gustosa). L’ascolto è tratto dall’esecuzione scaligera – uno dei vertice della passata gestione del teatro milanese e, in assoluto, il capolavoro di Muti – che proponeva il testo integrale secondo la nuova edizione critica, pur nella discutibile versione ritmica del Bassi (ma rivista per l’occasione, in modo da correggere i principali errori e rimediare alle arbitrarie modifiche nel tessuto musicale). L’apertura del IV atto è straordinaria, innanzitutto, per la direzione che immerge la scena in un’aura brumosa ed evocativa, ove la natura emerge ad ogni frase anche se trattenuta in una compostezza neoclassica che è cifra interpretativa privilegiata nella lettura mutiana. Il recitativo è ricco di sfumature e la drammaticità è resa senza espansioni volgari o stilisticamente inappropriate. Merritt è impressionante: la voce così brunita e corposa al centro, sale con imbarazzante facilità nella stratosfera degli acuti (emessi con tecnica mista e di testa), senza mai perdere appoggio. Stupisce – fino ad un certo punto – che non venga oggi citato da nessuno (al ROF) come Arnold modello…troppo imbarazzante il paragone in effetti. Purtroppo l’ascolto non rende appieno la sensazione di pienezza che si percepiva a teatro, dove la voce correva con estrema facilità sopra coro ed orchestra. L’andante è elegante e malinconico (non in accezione romantica, tuttavia, ma mantenendo una compostezza “canoviana”), si espande liricamente sul velluto di un’orchestra dal suono semplicemente perfetto, sino alla cadenza finale. La cabaletta è trascinante, spedita, frenetica, senza essere mai pesante (Muti è il solo a rendere piena giustizia all’orchestra di Rossini): un crescendo emozionante e coinvolgente in cui gli acuti non sono note puramente decorative (o ginnastica vocale), ma assumono precise funzioni espressive – impressionanti le scalate al DO “per noi Guglielmo non morrà” – chiudendo il brano non con il solito acuto interpolato, ma in modo impeccabile, risolvendo e chiudendo in basso. Un vero modello, troppo scomodo per i cantori delle odierne “magnifiche sorti e progressive”

77 pensieri su “ARNOLD XXXII: CHRIS MERRITT

  1. Proprio l’altro giorno ho visto il dvd di questa produzione scaligera, e devo confessare di aver trovato i primi due atti abbastanza noiosetti; tutt’altro discorso, invece, per il terzo e quarto atto che mi hanno coinvolto molto di più (soprattutto il terzo).
    Quanto a Merritt, riconosco tutti i meriti vocali che gli attribuisci, e proprio per tali meriti la sua esibizione mi ha particolarmente toccato. Ma che inerzia espressiva, e poi canta tutto forte, non ci sono sfumature nel suo canto! Siamo proprio sicuri che neoclassicismo equivalga a glaciale freddezza?

    • ma c’eri tu nel 88? Non m pare visto che dentivi Guglielmo non morra’ a me pare dicesse ilijalmanamaaaa iljaelmo nooon morra’. Poi sbagliero’ ma il primo Tell che ha fatto intendere cosa potesse essere il falsettone d Nourrit e’ stato Osborne a S.Cecilia la prima volta. Ammetto che il do nella cabaletta di Merrit si possa qualificare come falsettone ma lo emette sullo vocale O e lo tiene un attimo in ossequio alle indicazioni d Muti. Era come rileva Pauline Viardot piuttosto inespressivi tuttavia non frigido come lo fu Gedda

      • Non so cosa DENTIVI tu, ma io sentivo benissimo tutto quanto (a teatro e in disco)… Detto ciò DENTITI pure Osborn, la sua pseudo intonazione e l’emissione malferma e schiacciata, io preferisco sentire un Arnold con la voce di Arnoldo

        • ma si Cortecci ha ragione in pratica quel Guglielmo Tell nasceva con tante buone intenzioni ma in pratica e’ assimilabile a un coitus interructus Muti che faceva i primi tre finali d atto in maniera suntuosa (il disco non rende giustizia d quei crescendi esplosivi) a Merrit tarpo’ molto le ali e solo nel 92 diretto da Pido’ a Verona potei goderne appieno. Peccato che da quella volta il suo stato vocale precipito’ inaspettatamente privandoci d un cantante molto ma molto simpatico

          • Ma per cortesia!!!!!! Vinci il premio per la fesseria del giorno…

  2. Francamente non trovo alcuna freddezza nel neoclassicismo mutiano, anzi: basta ascoltare la sinfonia (straordinaria e per nulla esteriore o chiassosa come spesso capita di ascoltare anche da bacchette eccellenti). Trovo che la cifra di Muti sia ideale per il Rossini serio che – è bene ricordarlo – ha nulla da spartire con i turgori romantici e le turbolenze preverdiane. Quanto a Merritt non lo trovo affatto piatto: certamente non carica la parte, ma questo è solo un punto a favore. A mio gusto quel Tell è di assoluto riferimento per ieri e per oggi (e visto l’andazzo generale anche per domani)

    • Ho sempre creduto che i movimenti culturali più diversi possano convivere nella stessa epoca e influenzarsi vicendevolmente. Il Neoclassicismo, il Romanticismo, e altre tendenze intellettuali del primo Ottocento non fanno certo eccezione, quindi non vedo perché Rossini debba essere completamente immune da influssi romantici, soprattutto nel 1829. Del resto mi sembra che l’ambientazione stessa, la trama dell’opera, e il riferimento costante alla natura e alle sue forze incontenibili vadano più in questo senso, che non in quello di una rigida compostezza classica e classicheggiante.
      L’edizione sarà anche di riferimento, non lo metto in dubbio, però ci sono anche pecche abbastanza gravi, come il soprano o Gessler… E poi mi chiedo perché non sia stata eseguita la versione francese. I versi ritoccati x l’occasione a volte sono davvero brutti e/o ridicoli…

  3. La direzione è molto bella, almeno in una visione globale e nella narrazione dell’opera, il suono dell’orchestra è incisivo, elettrizzante e pieno, soprattutto nei recitativi , e in questo tipo di recitativo protoromantico, in cui la maggior parte dei direttori (o solfeggiatori) lascia cadere le note corte delle strappate dell’orchestra, è appagante ascoltare la ricchezza di suono che Muti tira fuori. Seppur splendido, l’accompagnamento del direttore ai solisti mi lascia a volte perplesso : non si può procedere imperterriti ritmicamente ad es, nel duetto Matilde e Arnoldo, senza dare maggior respiro, maggiore libertà ai cantanti (un disco di questo duetto di Leo Slezak e Judit Forst è emblematico da questo punto di vista).L’espressività si ha anche con questo, lasciando che il cantante sia libero di fraseggiare e ricorrere alla mezza voce, almeno nello stile patetico, senza l’assillo del tempo della bacchetta. E con tenori tipo Merritt dell’88, l’impresa satrebbe riuscita alla grande. L’aria del quarto atto è accompagnata magistralmente lasciando il tenore libero nella cadenza di emettere un Do di petto lungo e pieno. Ma la cabaletta è assurdamente veloce, e il procedere di Muti senza coronare – come da tradizione – i primi Do del “Guglielmo non morrà” è irritante. Non è possibile eseguire questa cabaletta con tale affanno ritmico. E poi, rompere con la tradizione per avere che cosa? E con un simile tenore? E poi, il Do acuto conclusivo, perchè ometterlo? E’ la stessa questione del Do della Pira sostanzialmente. Merritt è sensazionale per la morbidezza, il colore, l’omogeneità e lo squillo. Un paradigma insuperato praticamente,almeno nelle edizioni complete. I Do avranno sicuramente risonanze di testa (a quell’altezza, è chiaro), ma prevalgono le risonanze di petto, altrimenti sarebbe coperto da tutti. C’è un’edizione live del Tell che pochi conoscono,a Parigi nel marzo 1989, con Merritt e la Cuberli. Questo credo sia il miglior Arnoldo di Merritt. E chi l’accusa di freddezza espressiva dovrebbe ascoltare un pochino meglio: in questa registrazione fa frequente uso della mezzavoce e del falsettone, con maggiore spontaneità e libertà ,sia nel duetto del secondo atto ché nel recitativo dell’aria (ad es “in questo dolce asilo”..).

    • Grazie per il bellissimo intervento. Hai davvero dato voce ai miei pensieri, soprattutto x quanto riguarda la velocità forsennata della cabaletta e l’assenza dell’acuto finale, che lascia davvero l’amaro in bocca… Quanto alla (presunta?) freddezza del tenore, proverò a rivedere il DVD, magari prestando maggiore attenzione ai dettagli da te elencati!

  4. Non sono affatto d’accordo Cortecci: perché omettere un do non scritto e di gusto non sopraffino? Perché no? Cioè io non ho nulla contro certe pacchianate di tradizione, ma non capisco che senso abbia criticare chi mantiene una maggior aderenza al testo. Il tempo della cabaletta è elettrizzante e Merritt lo regge benissimo! Davvero non capisco cosa si pretenda di più (certo se si interpreta il Tell come opera verdiana con acuti aggiunti insensato e piena di tagli forse l’edizione di Muti non può piacere)

    • Secondo me il ritmo della cabaletta non è per niente elettrizzante, è solo straveloce… Che poi Merritt lo regga alla grande è un altro paio di maniche!
      Quanto all’acuto finale, non so davvero che dire. Da un lato posso anche essere d’accordo con te, ma la tradizione? Non ha alcun peso? Allora come la mettiamo con la lingua? Quando Rossini ha composto il Tell aveva in mente ben altre parole… Allora anche esrguirlo in italiano è un arbitrio bello e buono.
      E poi, esiste davvero il Tell “come l’ha scritto e lo voleva Rossini”? O è solo un’astrazione come l’Eneide “come l’ha scritta Virgilio” (mutatis mutandis), soprattutto se pensiamo che è un lavoro teatrale, e come tale, soggetto a ogni tipo di contingenza… Se cerchiamo ostinatamente di eliminare tutte le convenzioni che si sono sedimentate in decenni e decenni di esecuzioni, allora poi non possiamo biasimare tentativi come quello della Bartoli e della “vera” Norma. La prima esecuzione ha il suo peso, ovvio, ma poi la partitura va incontro a una vita per così dire autonoma… E non so quanto sia legittimo fare piazza pulita di tutta una storia esecutiva…

  5. Dunque, prima dicevo che è la stessa questione del Do della Pira. Non è scritto, certo, ma tradizionalmente i tenori lo emettono. Non è solo il Do della Pira però, verso il quale, nel carteggio verdiano, non si trova una parola né a favore,
    ma neppure contro. Si potrebbe allargare il discorso anche al Si della Donna è mobile. O a qualche altra circostanza. Mi spiego: l’acuto finale è elettrizzante, teatralmente culminante, pieno di tensione. L’ascoltarore esplode. Non si tratta di emettere urla belluine e vociferanti in stile verista, ma di squillo, a corona di uno stato psicologico. Che poi non sia scritto in parte è un’altra questione, ma non lo prenderei a pretesto come impedimento forzato. poi, con un tenore come Merritt?! Ben venga! Ora, sono anche in parte d’accordo con Muti nell’emendare le partiture dalle varie incrostazioni e inquinamenti succedutisi nel tempo, ma in alcuni punti, e appunto quì nella cabaletta di Arnoldo, tali puntature debbono rimanere, almeno a mio avviso. Come deve rimanere il Do della Pira e il Si della Donna è mobile. E se dispongo poi d’un fuoriclasse come Merritt, non solo applaudo: mi metto ad urlare. La voce trionfa anche così. Toscanini precluse il Si acuto della Donna è mobile a Lauri Volpi alla Scala nel 1922, da quì nacque il proverbiale astio tra i due. Quando si trattò di andare a Berlino con la Scala, nella celebre tournée del 1929, Lauri Volpi era diventato il più importante tenore del mondo e Toscanini (che non era proprio un ragioniere, ma grande uomo di tratro)abbassò la cresta, consentendogli l’acuto e dicendo: “quì la voce deve trionfare”.

    • a Toscanini andava bene anche il si nat di Pertile nella Pira, pretendeva la puntatura al la bem nel prologo dei Pagliacci, il si bem tenuto di Eboli alla stretta del “don fatale” le puntature di Galeffi nel Rigoletto e potremmo andare avanti, per contro diede della baraccona alla Toti che per interpolare il mi bem abbassava il “caro nome” di mezzo tono (aggiungo come tutti i soprani perché il caro nome è scritto da un Verdi particolarmente inspirato a far gridare la Gilda). Poi aggiungiamo che era uomo quanto mai umorale però….. che lo spartito fosse intoccabile soprattutto per la linea di canto credo non lo pensasse affatto o quanto meno non lo praticava. Ma la differenza è, rispetto al suo emulo, che Toscanini aveva una sicurezza e una forza sconosciuta a Muti per il quale il metronomo è il salvagente e l’ancora di salvezza. Talvolta dovremmo riflettere che l’arte direttoriale è finita ben prima di quella del canto

  6. il Rigoletto senza acuti ha comunque un grande fascino. Resti concentrato sul “pezzo” e diventa quasi un opera in piu’ del catalogo verdiano. Ovvio che se il Duca fosse un Kraus sciegliere la versione Muti sarebbe da pazzi cosi come fu un idea pessima togliere proprio a Merrit gli acuti nel Tell. Il do o almeno i Si nella pira e’ invece irrinunciabile.

  7. Viardot e Cortecci, state confondendo le questioni:
    1) la tradizione ha un valore storico, certamente, ma un arbitrio – per quanto “piacevole” – non può e non deve diventare OBBLIGATORIO;
    2) certe usanze rispondevano a certe esigenze circoscrivibili in un dato momento storico: è sciocco ripeterle solo per partito preso;
    3) trovo inaccettabile criticare un interprete perché si attiene a quanto scritto dall’autore: è davvero una bestialità condannare l’originale per mera abitudine e pigrizia (a meno che intendiate “correggere” Rossini che evidentemente ne sapeva meno di certi cantanti musicalmente analfabeti che l’hanno eseguito incuranti di stile e gusto);
    4) il Tell originale esiste eccome: se vuoi ti fotocopio il testo critico (se non credi ci sia);
    5) anche la lingua ha il suo peso certo, è la traduzione del Bassi è un rossinicidio..vi siete mai presi la briga di verificare gli stravolgimenti musicali che comporta? No credo…
    6) gli acuti interpolati – che non si chiamano “puntature” (un po’ di terminologia corretta please..) possono starci se coerenti e ben inserite: il do finale acuto non lo è (per molte ragioni che sarebbe lungo spiegare)… E poi Arnold di acuti ne ha già tanti (scritti però…ah già, Rossini era un mentecatto e non sapeva scrivere bene: c’è voluta la tradizione per correggerlo);
    7) Verdi non dice nulla contro il do della pira…e allora? Silenzio-assenso come con la P.A.??? Se è per questo non scrive nemmeno contro i rutti e le chitarre elettriche..quindi si possono per questo inserire in Trovatore???

    • Caro signor Gosset… scusa, volevo dire Duprez, a quanto vedo ti stai scaldando un po’ troppo.
      Ovviamente so benissimo che esiste l’edizione critica del Guglielmo Tell, non c’è bisogno che ti scomodi a fotocopiarmela. Sostenere però che ci sia un Tell esattamente come lo voleva Rossini (che non tornerà mai indietro a dircelo) significa aver frainteso alla base il concetto stesso di filologia (di qualsiasi tipi di testo si tratti), disciplina che rinunicia per definizione a ricostruire IL testo e limita le proprie ambizioni a ricostruire UN testo, quanto più possibile vicino a quello che l’autore poteva avere in mente. Se è questo che intendi, allora siamo d’accordo. Se invece ritieni che l’edizione critica corrisponda in pieno alle volontà di Rossini, beh, beato te che vivi di pie illusioni (soprattutto considerando che non si tratta di un testo letterario, ma di un testo destinato a un numero indefinito di rappresentazioni).
      Ti faccio poi notare, caro il mio difensore d’ufficio delle edizioni critiche da seguire per filo e per segno, che solo pochi giorni fa andavi in brodo di giuggiole per il sovracuto (quello sì, non attestato da nessuna tradizione) interpolato da Kraus alla fine dell’aria del pescatore. In quel caso come la mettiamo, allora?
      Infine, lungi da me il sostenere di saperne più di Muti o di Rossini, non ho né avrò mai la comptenza o la presunzione per farlo. Qui se c’è uno che spesso e volentieri si mette in cattedra come depostiario e arbitro della verità, quello sei proprio tu.

    • No: sono cose diverse. “Puntatura” significa “accomodo” (raggiusto, adattamento..esattamente come quella del sarto). Erroneamente la si ritiene sinonimo di acuto per via del nome che si crede derivi da punta. È sbagliato. L’acuto non è una semplificazione. Puntatura è l’omissione del FA sopracuto di Arturo o lo scambio di linea tra Elvino e Amina.

      • Dunque, cito la definizione di “puntatura” che dà Piero Mioli sul Manuale del Melodramma edito da Bur:
        “Le puntature sono le note aggiunte o sovrapposte dagli esecutori a quelle scritte dall’autore, e fanno parte del sempiterno fenomeno dell’interpretazione melodrammatica”. Ora, “nota sovrapposta dagli esecutori a quelle scritte dall’autore” non può essere il Do della Pira o quello in conclusione alla cabaletta di Arnoldo? Credo proprio di sì. L’altro ieri su Operaclick, Landini (con le cui posizioni sono raramente d’accordo,ma certo, non può essere tacciato d’incompetenza) definisce il Do della Pira come “puntatura”. E per ben tre volte consecutive! Dunque, sbagliamo tutti?

        • Landini, operaclick, libri divulgativi… Seriamente: Eduardo Rescigno la definisce “adattamento di una parte vocale ad un nuovo interprete, ossia metterla a punto”. L’acuto è un altro genere di figura musicale. Questo è ciò che si legge su fonti serie e professionali. L’uso di puntatura per acuto è gergale e scorretta. Chiunque lo dica sbaglia.

          • Certo, Rescigno è più attendibile di Mioli e Landini, l’uno è serio e competente, gli altri due sparano idiozie a raffica.

          • Mioli non parla affatto di acuti…quanto al resto, beh è come farsi spiegare Leonardo da Vinci da Dann Brown

  8. Domenico, Pauline, Gianluigi “prendendo la parola in questo consesso, sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me” (consentitemi la citazione extra musicale), tuttavia voglio “difendermi” per l’ennesima volta (anche dal fuoco amico) e chiarire ancora il senso di ciò che ho scritto che, al contrario delle repliche che ha ottenuto, non è affatto dogmatico o assolutista.
    1) non mi sto scaldando affatto: se i toni sono polemici è unicamente per amore del contraddittorio e difesa delle mie posizioni…oltre che da profonde convinzioni. Se qualcuno si è sentito offeso me ne dispiaccio, ma non ritratto neppure una virgola;
    2) Gossett/Duprez/”defensor” di edizioni critiche..etc: quanta carne al fuoco, e quanto fumo negli occhi. E’ davvero un delitto difendere le edizioni critiche oggi? Cos’è un’edizione critica se non una semplice nuova edizione più corretta di un testo? Difenderla non solo è doveroso, ma scontato: piuttosto mi chiedo il senso di scagliarvisi contro, come se tornare ad un testo corretto, senza errori di stampa e di copisti fosse chissà quale colpa. Il fatto è che forse chi parla contro la filologia, parla contro tutt’altro fantasma. Nessuno si scandalizza se compra in libreria il testo dei Promessi Sposi emendato dagli errori di stampa del secolo scorso, così nessuno dovrebbe dispiacersi se, per eseguire Rossini, si ricorre ad un’edizione corretta. Succede da 60 anni con Mozart e nessuno ha mai lanciato crociate contro la Barenreiter… Gossett parla della traduzione ritmica del Tell, e allora? Ha perfettamente ragione, basta aprire la partitura e leggere: perché invece di accusare o insinuare non fate lo sforzo di farlo e notare gli innumerevoli cambiamenti e stravolgimenti nella metrica musicale (che poi all’epoca la traduzione di Bassi sia stata diffusa, beh, poco rileva);
    3) nessuna edizione ha la presunzione di riprodurre le volontà recondite della mente dell’autore, ma andiamo, non prendiamoci per il culo, un testo originale esiste! Che poi sia stato manipolato per circostanze, necessità, casi fortuiti, scorciatoie, incapacità, capricci, tradizioni varie…è un fatto storico – importante – che non si può negare, ma trasformare le modifiche successive (i tagli, gli aggiusti, le puntature, gli acuti aggiunti) come OBBLIGHI, allora è scorretto. Anzi è sciocco, perché dogmatico e ottuso;
    4) la questione degli acuti e degli interventi sul testo – tutt’altro che intoccabile (almeno sino ad un certo periodo) – è stata ampiamente dibattuta, e mi spiace tornare ogni volta sui medesimi concetti. L’opera dell’800 vive di convenzioni e tra di esse vi è senz’altro l’intervento dell’interprete. Ma questo deve avvenire entro limiti ben precisi – di gusto, di tecnica, di stile – ed in spazi ben delimitati. Non tutti i segni di corona impongono una cadenza, così come non tutte le ripetizioni impongono la variazione: è una questione complessa e che non può essere risolta con l’actoritas o il dogma (Pertile l’ha fatto e allora SI DEVE FARE);
    5) così come è scorretto giudicare il passato con i parametri del presente, è altrettanto sbagliato fare il contrario: criticare Serafin per i tagli o Gigli per lo stile è stupido perché non si tiene conto delle circostanze e non si contestualizza storicamente l’esecuzione; allo stesso modo non si deve pretendere che oggi – quando disponiamo di testi più corretti e studi più approfonditi – si ripetano i vezzi di 70 anni fa in tema di variazioni o aggiusti. Non scambiamo le abitudini (buone o cattive) per doveri: in questo senso rientrano certi acuti di tradizione che taluni ritengono doverosi senza chiedersi ragioni, ma solo perché tradizionali. Eppure spesso sono musicalmente discutibili;
    6) il DO della Pira sta male musicalmente, è inserito in una metrica che non lo consente e non tiene conto dell’accompagnamento (tralascio il fatto di per sé grottesco che molti tenori per eseguire l’acuto, abbassano pietosamente l’intera aria, tagliano parti e aggiungono pause per strillare un SI naturale, un SI bemolle o addirittura un LA che solo un pubblico di hooligans scalmanati può apprezzare come un luminoso DO di petto). Stesso discorso per il MI bemolle di Violetta o quello di Lucia (che costringe ad abbassare l’aria, dopo la pacchianìssima cadenza col flauto che, fosse per me, proibirei in ogni esecuzione dell’opera, tanto è estranea stilisticamente ad un titolo del 1835). Idem per Arnold: peraltro il ruolo ha già abbondanti occasioni per sfoggiare acuti impressionanti (scritti stavolta), che senso ha l’aggiunta? Che c’entra quella nota esteriore, grezza, violenta con la poetica rossiniana (dopo che il DO è stato raggiunto per ben due volte in una scala ascendente che ha molto più senso drammatico)? Nulla, non c’entra nulla: è l’attaccamento a questo (scordandosi di tutto il resto, come se una nota valesse l’opera – a questo punto perché non dotarsi di cronometri e misuratori di decibel) è più da spettacolo circense o da loggionismo da stadio che da melomani o appassionati di canto e musica;
    7) perché lodo il MI bemolle di Kraus e denigro il DO: beh innanzitutto cadono in momenti differenti. Il primo è inserito in una cadenza e non è la nota conclusiva (Rossini non chiude praticamente mai in acuto), il secondo è messo in altro contesto. Ma poi si può benissimo lodare la nota pur non condividendone l’inserimento: un conto è la performance, altra cosa la coerenza di stile. Vedete, io non ne faccio questioni ideologiche, posso benissimo apprezzare varianti e arbitri, ma non mi sognerei MAI di ritenerle OBBLIGATORIE. Voi non fate così, imponete il vostro gusto come doveroso e bollate come “scemenza” il distacco da tradizioni elevate a totem e tabù;
    8 ) ancora Toscanini e Muti, Domenico: so ben che detesti il secondo, direi “a prescindere”, ma negare che quel Tell sia stato diretto in modo ineguagliato è puro preconcetto. Ridurre Muti a metronomo è puro pregiudizio dovuto a rancori e personale antipatia. Non voglio e non posso certo farti cambiare idea (come su Abbado, Boulez o Kegel), ma ritenere che l’arte direttoriale sia morta con Walter mi sembra sbagliato e ancora si va a scambiare il proprio gusto per assoluto;
    9) caro Domenico, non è la prima esecuzione o la seconda o la terza: la questione è il testo…che esiste e sta scritto su fogli pentagrammati, poi succedono tante cose, ma perché non tornare all’originale? Col tuo discorso Rossini sarebbe tuttora ricordato per Barbiere e Cenerentola se qualcuno non avesse deciso di guardare negli archivi e rompere con una certa tradizione…

    Ora siete liberi di darmi addosso con ancor maggiore virulenza…

    • Durante una prova di “Le nozze di Teti e di Peleo” di Rossini con la Devia, Chailly e Gosset:
      Gosset: “L’acuto fatto sulla dominante funziona sempre benissimo”
      Chailly: “[…] Nella Dominante si può fare benissimo. Spesso si fa nella tonica finale che invece…”
      Gosset: ” Quello è sbagliato, da un punto di vista della pratica dell’epoca”

      Ite, missa est! AMEN!

  9. Duprez,
    i tuoi toni ora sono decisamente più pacati, ma la supponenza (involontaria, ne sono sicura) che trasuda dalle tue parole è sempre la stessa, e infatti rileggendoti noterai le parole “sciocco”, “stupido”, “ottuso”, etc. riferite alle opinioni dei tuoi interlocutori (cioè proprio lo stesso atteggiamento che tu rimproveri loro). Quando ti leggo, purtroppo, ho sempre l’impressione di avere a che fare con uno che pensa di essere il solo a sapere certe cose o a rifletterci su, e che dall’alto della sua saggezza dispensa perle di metodo e di erudizione a noi altri, poveri sprovveduti.
    Ma non è questo l’argomento del contendere.
    Innanzitutto, credo che ci sia stato un fraintendimento da parte tua circa la traduzione ritmica del Bassi. Pur non apprezzando la revisione effettuata in occasione della produzione scaligera, io non ritengo affatto indispensabile la traduzione del Bassi, e a mio modo di vedere il Tell dovrebbe essere eseguito preferibilmente in francese, perché francese è il testo che Rossini aveva in mente e sotto gli occhi quando componeva.
    Per quanto riguarda il tuo discorso sulla filologia, ti sorprenderà probabilmente leggere che lo ritengo del tutto equilibrato e condivisibile. Io la filologia (di qualunque tipo) non la disprezzo affatto, e non potrebbe essere altrimenti. Come forse saprai, è infatti da 6 anni che mi dedico all’edizione critica di un poema epico-didascalico greco del IV sec. d. C., quindi figurati se posso solo pensare di mettere in discussione il valore del lavoro filologico!
    Il mio discorso, se vuoi, è più teorico che altro. Sono infatti convinta (e non si tratta certo di una mia invenzione) che si possano correggere gli errori più o meno gravi, eliminare le congetture più o meno arbitrarie, depurare il testo dalle scorie sedimentatesi nei secoli… ma l’originale non l’avremo mai, avremo semmai la versione più corretta possibile.
    Nel caso di Rossini ovviamente siamo avvantaggiati, perché esistono i suoi autografi. Ma l’autografo è davvero l’originale, esso ci mostra davvero le volontà definitive del compositore riguardo alla sua partitura? Io direi piuttosto che esso rappresenta le volontà dell’autore nell’imminenza della prima rappresentazione assoluta dell’Opera X, e non “l’Opera X come lo voleva Rossini”. È proprio la natura particolare di un’opera lirica, soggetta (diacronicamente, per di più) a ogni tipo di contingenze (da un ripensamento o pentimento dell’autore a un’unghia rotta della prima donna), che mi induce a guardare a questo genere come a un’ “opera aperta”, cioè in continuo mutamento, in continua evoluzione. Mutamento ed evoluzione ai quali (entro certi rigorosi limiti che proprio i filologi hanno il dovere di stabilire, beninteso) partecipano anche elementi esterni ed esteriori al compositore, come per esempio la tradizione esecutiva e il gusto del pubblico.
    Per quanto riguarda l’ormai famigerato acuto, ad esempio, se vogliamo rappresentare il Tell “nell’imminenza della sua prima rappresentazione assoluta”, allora sono completamente d’accordo con te, è senz’altro scorretto eseguirlo (come allora è scorretto e privo di senso eseguire le parti soppresse dallo stesso Rossini durante le prove, ciò che invece è stato fatto a Pesaro nel 1995, lo ricordavi proprio oggi).
    Se invece vogliamo eseguire un Tell che allo stesso tempo tenga conto dei progressi delle ricerca scientifica e di 200 anni di rappresentazioni e storia del gusto… perché non inserirlo, se se ne ha la possibilità? Per la mia sensibilità di spettatrice e ascoltatrice del 2013 (e sono gusti personali, per carità, so bene che tu sei molto più raffinato), l’omissione dell’acuto finale spegne tutta l’energia e la tensione emotive accumulate durante l’ascolto della cabaletta. Se nel XXI secolo il pubblico si aspetta gli acuti e i sovracuti in determinati momenti di determinate frasi musicali, se è abituato a un certo tipo di linguaggio e convenzioni… perché non accontentarlo (entro i rigorosi limiti di cui parlavo prima), magari spiegando che Rossini non l’ha scritto, ma che si è iniziato molto presto a eseguirlo? Forse rappresentare un’opera 200 anni dopo la sua composizione significa anche scendere a certi compromessi con il gusto del pubblico attuale, non necessariamente composto di bruti e incolti.

    • Bisogna distinguere ciò che è stato cambiato dalle circostanze e dalle necessità da ciò che ha voluto l’autore. Non si può entrare nella testa di Rossini, ma si può leggere ciò che ha scritto: credi che avrebbe scritto qualcosa che voleva non si eseguisse? Il punto è rispettare possibilmente stile e gusto. Ma alla fine non è questo il problema: io penso che una tradizione non può diventare obbligo. Fare quel DO non è un delitto (anche se musicalmente incoerente) ma non eseguirlo non è un reato! Anzi! Tutto qui. Ciò che si aspetta il pubblico non è un metro corretto di giudizio.

  10. Dunque, cito da “Discoteca Alta Fedeltà” del gennaio/febbraio 1978, recensione al Trovatore detto da Muti a Firenze:
    “La ripetizione di una cabaletta, Come si è puntualmente verificato a Firenze, presuppone alla seconda strofa almeno una variazione di accento di tempo di volume o magari una PUNTATURA (il Do di petto), come appunto è il caso della Pira”. A scriverlo è Giorgio Gualerzi. Ah già, scusa , spara cazzate pure lui. Nella citazione però, guarda caso, sono ratificate entrambe le mie tesi, sia quella sul Do ché sulla “puntatura “. Sto facendo una ricerca approfondita, dammi un po’ di tempo e ti trovo pure Celletti , che usa “puntatura” con questa accezione.

  11. Ah beh! Se lo dici tu, che hai studiato sul libricino di Rescigno, che è noto in tutto l’universo e..
    e… in altri siti, per essere il Vangelo della Vocalità, allora sì che ci credo! Anzi, posso venire a lezione da te?

      • Bene, tipo? Fammi un esempio magari, in modo che io, Mioli (che certamente parla anche di acuti, perché il Do della Pira è una sovrapposizione dell’interprete alla nota scritta dall’autore), Landini, Gualerzi e tra poco anche Celletti, possiamo erudirci per bene grazie alle tue indicazioni. Grazie!

          • Va bene, ma cerca di citarci qualcuno di veramente attendibile e certamente superiore alle nostre singole reputazioni.

          • Certamente: in testi scientifici è chiaramente confermato quanto ho scritto. Le puntature sono aggiusti, cambi di linea, scorciatoie, modifiche di legature, trasporti (anche in acuto ovviamente) ma non il singolo acuto interpolato che resta un abbellimento in senso lato.

  12. A me non è piaciuto affatto. L’emissione è piuttosto sconclusionata, con disomogeneità palesi e poche note davvero ben appoggiate. L’onnipotenza della sua dote vocale (allora pressoché intatta) gli permette di fare cose incredibili e di venire a capo della pagina nella sua integralità (seppure con qualche aiutino tipo “Per noi Guglielmo non morrà-a-a-a-a”), ma in questa esecuzione non riesco proprio ad apprezzarlo.

      • allora alla fine avevo ragione io. Merrit pur con molti pregi non lo si puo’ fare santo subito. Un piccolo passo in avanti sarebbe convincere qualcuno che Florez non lo su puo’ mandare da Pesaro direttamente in galera senza nemmeno passare dal VIA coso da ritirare le previste ventimila lire

        • Qui’ si e’ sempre parlato, durante il mese, di “O muto asil” o un paio di volte del duetto e del terzetto.
          Non parlo di esecuzioni integrali Antonio, parlo dei brani proposti.
          Tra i cantanti proposti ci sono alcuni degli artisti che ho sempre amato
          E, tra i brani proposti, Merrit non e’ certo quello che mi e’ piaciuto.
          Ma e’ di moda oramai : “Non ti piace?”
          “E allora ascolta Florez”, “E allora ascolta Kaufmann”, etc etc etc.
          Come se uno che non apprezza Merrit,
          (nel Tell) dovesse per forza apprezzare (nel Tell) quell’ asino di Osborn, o quello stenografo di Florez! Ma per favore!!!

          • Scusate, dite che non vi è piaciuto Merritt e gli preferite non solo Pavarotti – e posso anche capire- ma pure Gedda.Potete dire per quale ragione Merritt non vi piace ? Grazie

          • D’accordissimo. Avevo citato Gedda e Pavarotti perché volevo evitare che mi si rispondesse che gli altri cantavano una breve sintesi del Tell e che quindi non potevano essere termini di paragone.

    • Non sono sacri testi, ma semplici volumi di studio e ricerca: del resto esistono lettere dei compositori in merito…quando Verdi ringrazia Donizetti per le “puntature” ad Ernani (credo) non si riferisce di certo a qualche acuto aggiunto – perché per farli non ci sarebbe stato certo bisogno di un Donizetti – ma a modifiche e aggiusti per adattare “puntare”, appunto, la parte all’interprete.

    • Tecnicamente no: l’acuto interpolato non è il mero adattamento di una parte alle esigenze dell’interprete, così come una cadenza non è un aggiusto o il trillo non è una nota tenuta… Diamine è così difficile?

  13. Ma che diavolo c’entrano in questo discorso le cadenze, i trilli o le note lunghe? Chi s’è mai sognato di sostenere che le cadenze sono aggiustamenti?? O i trilli equivalgono a note lunghe?? Ma siamo matti?

  14. Credo di capire il discorso di Duprez (ma chiedo conferma): lui dice che la “puntatura” è sempre un accomodo, cioè una semplificazione a beneficio del cantante, diversamente dall’abbellimento che è una complicazione, un’esibizione di maggiore abilità. Dunque, così come il trillo “complica” una nota tenuta, così l’acuto interpolato complica, e non semplifica, una linea altrimenti più “comoda”. Se è così, è una ripartizione interessante, anche se a mio avviso non universalmente valida: per restare in ambito rossiniano, se a Florez venisse mai in mente di affrontare un ruolo Nozzari gli acuti potrebbero rappresentare per lui dei veri e propri “accomodi”…
    è anche interessante l’origine “sartoriale” del termine, che ignoravo, però, ammesso pure che l’origine del termine fosse questa e che qualcuno lo usi ancora oggi in quest’accezione ristretta, è anche vero che il termine viene usato nell’altra accezione più generica (e più comune) da studiosi comunque seri e qualificati (ad esempio recentemente Emilio Sala). La terminologia musicale è piena di parole che vengono usate con accezioni diverse o che vanno soggette a “slittamento semantico”: a meno che non si incorra in svarioni colossali basta intendersi, e venire al sangue per una questione terminologica mi sembrerebbe francamente eccessivo… :)

    • Nessun sangue per carità (duelli non ne fo se non a mensa): hai capito perfettamente la questione. La puntatura è sempre un accomodo, un adattamento (può essere anche l’innalzamento di una frase o il trasporto in acuto), ma l’acuto interpolato (quello che termina sulla tonica a chiusura di un brano ad esempio) è una cosa diversa. Esattamente come una cadenza e nessuno definirebbe la cadenza una puntatura. L’equivoco nasce dal ricondurre il termine “puntatura” a “punta” (e quindi, per estensione, ad acuto) invece che, più correttamente, a “punto”. Da qui nasce la confusione: non dubito che oggi si utilizzi il termine per indicare l’acuto (lo fanno anche critici stimati e musicologi) ciò non di meno resta sostanzialmente una forzatura. Quando gli autori parlano di puntature (richiedendo a colleghi e musicisti di provvedervi e assicurandosi che venissero realizzate in un certo modo) naturalmente non potevano riferirsi ai semplici acuti finali (che allora neppure si usavano e che non richiedevano nessuna abilità nello scriverli) ma a qualcosa di più delicato e complesso, incidente sulla scrittura musicale e che richiedesse determinate competenze.

      • Sì sì la tua ricostruzione storica mi sembra assolutamente plausibile, diciamo che a me gli slittamenti di significato danno meno fastidio, una volta entrati nell’uso comune. Comunque, al di là delle denominazioni, continuo ad avere qualche dubbio che l’acuto interpolato sia sempre e comunque una complicazione per il cantante (a prescindere da come risulta per il pubblico): può essere forse vero nel caso di quello conclusivo, ma uno o più acuti interpolati nel corso di una frase possono rappresentare un bello “sfogo” se la tessitura insiste scomoda sul passaggio… ovviamente dipende poi dalle singole vocalità. Ad ogni modo ci siamo capiti.

  15. Ma vi sembra il caso di dilungarvi sul significato di “puntatura”?, vi sono altri termini che sono usati talora in modo improprio, verosimilmente puntatura in musicologia non si riferisce ad acuti interpolati, ma anche la treccani invece la descrive proprio come “acuti aggiunti dai cantanti”
    basta intendersi e risolvere il problema in cinque minuti.
    Una domanda per Gianluigi ( senza polemica , ovviamente…), in Merritt non noti qualche problema di intonazione ?

    • Sì, in Meritt a volte si nota; seppure sporadicamente,qualche problema d’intonazione. Nella registrazione Philips del Tell della Scala, la ripresa di diverse recite attutisce questa sensazione. Io non lo trovo grave. Gli straordinari pregi di questo tenore sono di portata storica, e ampiamente compensano qualche svarione occasionale di questo tipo. In fondo anche Lauri Volpi a volte tendeva a crescere di tono, motivo al quale la critica a lui ostile s’è sempre aggrappata. Rimane però il più completo tenore del ‘900,almeno nel periodo 1924/1936.

  16. E poi, nella definizione di “puntatura”, è presente anche quella della “sovrapposizione”di una nota ad un’altra. E il Do acuto in luogo di quello centrale, che cos’è? Ma per favore veramente!

  17. Io però un cosa la vorrei puntualizzare. l’esecuzione scaligera dell’aria con la direzione del maesctrr è la più brutta che conosca ed abbia sentito dal vivo. meglio nizza e parigi, soprattutto ricordo il concerto di vercelli con orchestra……impressionante per ampiezza e potenza. in scala lo zampino dell’egomane duce del podio si sentì eccome….Mai Merritt ha poi eseguito la cabaletta con quei do appena toccati e lasciati al limite del ridicolo.

    • Duce del podio addirittura: non sono d’accordo. Muti – come altri – impone i suoi tempi alla cabaletta (e Merritt li regge benissimo), il resto è questione di gusti. E poi che vuol dire “metterci lo zampino”? Un direttore ha il diritto/dovere di dirigere e fare scelte (in funzione dell’intera opera, non del singolo brano). Francamente non trovo alcuna pecca nella direzione di quel Tell. A scanso di equivoci, c’ero anch’io alla Scala a vedere quel Tell e ne ho splendidi ricordi.

  18. bene la pace e’ tornata. Come definiamo la nota (do diesis re?) che aggiunge Florez (a dimostrazione dell’asserita “immane fatica che gli e’ costato il ruolo 😉 ) nel duetto con Mathilde? La nota e’ sulla frase “repond a ma flaAmme” per chi non ricordasse….

  19. Ciao Cortecci
    Merrit e’ cantante dalla voce solida, in possesso di un
    registro superiore privilegiato, carente fraseggiatore,
    anonimo interprete, dai piani privi di morbidezza, mai
    una frase veramente estatica, mai una frase veramente
    veemente, e la tanto magnificata omogeneita’ non e’
    superiore a quella degli altri esempi che di Aroldo sono
    stati fatti.
    Nei momenti concitati non si capisce cosa dica,
    ed anche se nel collage qui’ sopra riportato sono state
    emendate le intonazioni non proprio ortodosse che spesso
    si ascoltano nel suo canto, rimane cantante che non
    apprezzo, come non apprezzo Gedda in questo ruolo,
    infatti non l’ho mai detto. Non l’apprezzo neppure nella
    registrazione diretta da Pretre all’inizio degli anni sessanta,
    quando Nicolai era nel suo miglior periodo.
    Mi esprimo in modo diverso quando parlo di cagnazzi
    caro Cortecci, e di certo Merrit, qui’, cagnazzo non e’,
    ma apprezzare un noioso superdotato non e’ mai stato il
    mio forte. Il suo Arnoldo non l’apprezzo. Apprezzare infatti
    e’ il verbo che ho sempre usato.
    Se tu invece mi parlassi di altre sue serate, allora potrei
    anche dirti, che proprio cantava male. Ciao caro.

  20. Certamente. In un’opera come il Tell, la direzione m’interessa fino a un certo punto. Ho bisogno di udìre un grande Arnold e un grande Tell, com’erano Merritt e Zancanaro. Perché i protagonisti sono loro, e non le corse ritmiche di qualcun’altro, in ossequio non si sa a chi o che cosa. Lasciando perdere il Do finale centrale della cabaletta di Arnold, che può andarmi bene, i primi Do toccati di sfuggita sfociano nel ridicolo.
    Altro che mordente! La scansione altisonante e infiammata, tipica poi dei grandi ruoli tenorili preromantici e romantici, la dà Arnold con lo squillo e l’autorità vocale che gli compete. Non certo con la soppressione di tutte le corone di tradizione. Nel live di Parigi del 17/3/1989, Merritt è accompagnato da Paolo Olmi, esegue tutte le corone e le puntature di tradizione, non è assillato dall’egocentrismo della bacchetta e fa cose ancor più straordinarie, soprattutto sul versante interpretetivo.

    • Cortecci, in un’opera come il Tell il direttore è fondamentale! Certo che se preferisci Olmi a Muti, beh allora possiamo smettere di discutere! E poi basta – BASTA vi prego!!!! – con la fregnaccia dell’egocentrismo! Piaccia o meno un direttore d’orchestra è responsabile delle scelte ed è giusto e doveroso che abbia una sua visione. E poi mi piacerebbe sapere perché mai l’egocentrismo dei cantanti va bene (e di cose discutibili a spese della musica ne combinano tante) e quello del direttore no! Io questa la chiamo nostalgia per i battisolfa (che sicuramente si limitano a lasciar fare). Come se poi Toscanini Karajan Walter o Furtwangler fossero innocui agnellini che assecondavano ogni capriccio!

Lascia un commento