Ascolti comparati: “Donne mie la fate a tanti”, Simon Keenlyside vs. Willi Domgraf Fassbaender

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Scritta per Francesco Benucci, la parte di Guglielmo nel Così fan tutte potrebbe sembrare la sorella minore e meno fascinosa delle due più famose parti composte o comunque ampiamente riviste da Mozart per questo cantante, Figaro e Leporello. In realtà il fatuo e borioso ufficiale, che esce ancora più scornato del collega Ferrando dalla beffarda scommessa imbastita da don Alfonso (la disillusione è infatti tanto più amara, quanto più tardivo e sofferto il “capitombolo” della virtuosa Fiordiligi), ha diritto, oltre a un elevato numero di pezzi concertati (caratteristica che accomuna peraltro il personaggio a tutti gli altri dell’opera e rende il titolo uno dei più complessi da affrontare anche per bacchette navigate ed esperte anche in campo sinfonico), a due arie solistiche collocate circa a metà dei relativi atti. Anzi il rondò “Rivolgete a lui lo sguardo”, originariamente previsto, fu prontamente rimpiazzato già nel corso delle prove dal più stringato “Non siate ritrosi” e riesumato, con esiti a dir poco dubbi (non certo per la qualità della musica, ma per le claudicanti esecuzioni), in alcune recenti rappresentazioni. L’assolo del secondo atto, “Donne mie, la fate a tanti” è un’apostrofe alle donne (Figaro si rivolgeva, nell’ultimo atto delle Nozze, alla controparte maschile), un Allegretto che insiste principalmente nella zona dal sol centrale al mi acuto. Non sono contemplati passaggi di rilevante impegno virtuosistico (presenti invece, sia pure in misura limitata, in “Rivolgete a lui lo sguardo”), ma all’esecutore è richiesta una salda padronanza del passaggio superiore, zona in cui occorre legare, sfumare e variare colori e soluzioni di fraseggio quasi a ogni frase del malizioso e insolente testo dapontiano, che qualche penna in vena di facili anacronismi e sprovvista della necessaria autoironia potrebbe tacciare di maschilismo o magari di istigazione alla violenza sulle donne. Poniamo a confronto in questa sapida pagina Willi Domgraf-Fassbaender e Simon Keenlyside, entrambi tra i trentacinque e i quarant’anni di età al momento dell’esecuzione considerata, baritoni mozartiani spesso impegnati anche in un più vasto e oneroso repertorio, celebrati “dicitori”, ossia esecutori attenti all’esatta scansione e alla valorizzazione del testo poetico e musicale, certamente non dotati di voci di per sé particolarmente belle o potenti. E’ sufficiente udire il suono rauco e stonato emesso all’attacco sul do di “Ma quel farla a tanti e tanti” per rendersi conto di come Keenlyside controlli poco e male la zona medio acuta della voce. Non che in prima ottava le cose vadano molto meglio, come prova la discesa al grave nella medesima frase. Quel che più colpisce, anche al di là di una voce legnosa e povera di armonici (“mirabili” frutti di un’emissione affidata più alla natura che non allo studio), è l’accento, che vorrebbe essere scanzonato ed è solo scomposto (“è un vizietto seccator”) e, soprattutto nell’ultima sezione dell’aria, la dinamica di fatto ridotta a un’alternanza di suoni spoggiati e urlacchianti. Sussurri e grida, insomma, ma siamo ben lontani dall’intensità drammatica che un simile paragone potrebbe sottintendere. Per contro Domgraf-Fassbaender, pur con una dizione, che risente di germaniche inflessioni (“qvel farla a tanti e tanti”), dà prova di voce omogenea in tutta la gamma e salda sui parchi acuti previsti (con tanto di forcella sul re naturale di “tanti”, che onora la corona prevista) come nelle sporadiche escursioni al di sotto del sol centrale. Quanto al fraseggiatore, basti udire i differenti colori applicati alle due enunciazioni di “m’avvilisce in verità” o la serie dei differenti “ma”, monosillabo che esprime di volta in volta stupore, sdegno e maligna soddisfazione. Solo nella sezione conclusiva del brano l’interprete indulge a toni più caricati, ricorrendo occasionalmente a un parlato che intacca almeno un poco il fascino dell’esecuzione. L’accompagnamento orchestrale è, invece, sempre impressionante per la precisione e il nitore degli interventi strumentali, come per il ritmo serrato, ma non precipitoso e giammai metronomico. E non è lecito attendersi di meno, quando sul podio c’è Fritz Busch.

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