Aida alla Scala (2006-2013): the body of evidence

body of evidenceCala il sipario sull’ultima ripresa di Aida della gestione Lissner ed il bilancio in fatto di protagonisti e scelte di allestimento si delinea da solo. A noi il solo compito di riassumere questa via quasi solo dolorosa.

Per inaugurare la stagione 2006-7 si volle una produzione di Aida nuova dopo quella, mai ripresa, del duo Ronconi Pagano. Scelto Zeffirelli, che ripropose un remake della produzione nata per l’inaugurazione del National Theater di Tokyo del 1998 (http://www.nntt.jac.go.jp/english/opera/e20000616_opera.html), la direzione artistica pensò di andare incontro al pubblico scaligero ed alla sua tradizione teatrale italiana. Dal gigantismo esagerato e a suo tempo contestatissimo, di Luca Ronconi, si passò ad altra forma di esagerazione, quella tutta esteriore e terribilmente kitch dello Zeffirelli ultima maniera, che in modo meno clamoroso rispetto alla riprovazioni, che colpirono Ronconi, suscitò notevole disappunto nel pubblico. Il suo palco stracolmo di pacchiane chincaglierie egizie, l’accecante bagliore delle dorature, i costumi da figurina Liebig, il ridicolo di alcuni elementi, il plateale horror vacui, vennero poi diminuiti dal teatro coll’andare delle riprese, ma nonostante lo svuotamento progressivo del palco, l’operazione rimase quella siglata da uno Zeffirelli stanco ed irrigidito nella sua tarda maniera oleografica. La decisione  di riproporre sia per la Scala in tourneè in che nella sala del Piermarini la stupenda produzione zeffirelliana del ’63, con scenografie e costumi firmati da Lila De Nobili e Piero Tosi, servì a ribadire, se alcun bisogno ve ne fosse stato, l’evidente declino del grande regista fiorentino messo al cospetto di sè stesso. Tanto valeva, se si intendeva proporre un omaggio quale atto di storicizzazione di Zeffirelli e/o della scuola italiana postVisconti, procedere fin da subito al riallestimento di quella del ’63, esibita, invece, prima in tournee e poi nella terza ripresa dell’opera nel 2012.
Sfuggi alla direzione artistica che “tradizione italiana” non significa affatto oleografia senza regia, sovrabbondanza, lusso, palcoscenico traboccante di gente, cifra dell’ultimo Zeffirelli. ma non certo del miglior teatro cui lui stesso appartenne nei suoi anni d’oro.

E se il parlare per luoghi comuni o per nomi aveva fatto ricadere la scelta su una “griffe” ormai superata, in fatto di cantanti e bacchette, poi, la direzione artistica si è prodotta nel massimo della medesima politica tipica del marketing artistico odierno, dimostrandosi incapace di guardare alla cogente realtà dei contenuti vocali e musicali.
Alla prima, anzi alla seconda delle recite inaugurali si consumò il caso Alagna, che riempì le pagine dei giornali prima durante e dopo l’inaugurazione: l’avvenimento focalizzò le polemiche interamente su di sé, distraendo l’attenzione ( non la nostra, a dire il vero) da altre e forse più sostanziali questioni, ossia quella delle protagoniste femminili prescelte. La titolare, nominalmente mezzosoprano e decisa ad intraprendere un percorso sopranile pensando (a parole) di poter riecheggiare i fasti di cantanti come la Verrett o la Bumbry, debuttò Aida nell’occasione più prestigiosa che si può presentare nella carriera di una cantante. E fu l’inizio non di una marcia trionfale, ma di un percorso tormentato fatto di prestazioni malriuscite, velleitarie quando non fallimentari, perché gli strumenti di cui disponeva non erano per nulla quelli delle Verrett o delle Bumbry. Verrett, mi piace ricordarlo, che se anche aveva trionfato nel Macbeth, era crollata, poi, al Ballo in Maschera. E Violeta Urmana osò un debutto scaligero assai più ardito di quello della grande cantante americana: fu un’Aida sponsorizzata in ogni modo ma sempre deludente, senza acuti e, soprattutto, le note centro gravi, che ci si aspettava da chi veniva dal registro vocale inferiore ( il tutto, è divertente ricordarlo, in un mondo della lirica che ormai concepisce Aida come una voce meramente lirica, stile Freni – Caballè., e non certo alla Caniglia o all’Arangi Lombardi.). L’Urmana, ancora sulla cresta dell’onda e spinta dall’inerzia della sua celebrità come mezzosoprano, scampò le riprovazioni delle prima tornata di recite (ho il dubbio che qualche incidente lo abbia avuto già in questa prima fase ma …..a voi esercitare ulteriormente la memoria ) grazie allo schetch del tenore, ma non alla ripresa del 2009. Reduce dal catastrofico Macbeth dell’anno prima, a nulla le valse il farsi annunciare malata (tanto era identica alla volta precedente) e solo dopo la seconda debàcle consecutiva i fantascientifici piani della direzione artistica di affidarle addirittura la Norma vennero cassati. Troppo tardi.

Sull’altro versante, quello di Amneris, si consumò l’avventura di Irina Makarova, di cui altre volte abbia avuto occasione di parlare, finita in secondo cast a ridosso della prima, a favore di Ildiko Komlosi, Amneris notoriamente mediocre nella celebre occasione in blùWilson di Londra, ma  supportata da una robusta sponsorizzazione mediatica. Nulla di speciale fece sentire anche in Scala, tornando, poi, alla sua routine nelle seconde fasce. Alle repliche del secondo cast la Makarova, già notata dal pubblico in occasione degli Stivaletti dell’anno precedente, trionfò, dato che possedeva mezzi vocali di grandissima qualità, tecnica vocale, grande avvenenza fisica. Di lei non se ne seppe più nulla.

Due anni dopo vi fu la prima ripresa del titolo e siccome il proverbio dice che sbagliando si impara, non precisando se a far meglio o peggio, la direzione artistica si produsse in qualcosa di ancora più clamoroso ed assurdo. Protagonista annunciata era Norma Fantini, cantante italiana dell’Unter den Linden sulle opere del tardo Verdi ed Aida in ogni angolo del mondo. Buono e non ultimo nel teatro del direttore musicale Daniel Barenboim, con cui fu Aida proprio a Berlino qualche mese prima delle previste recite scaligere. Dopo un anno di permanenza in cartellone, Norma Fantini sparì nel nulla un paio di mesi prima delle recite ed il teatro dovette correre ai ripari in fretta e furia senza nemmeno occuparsi di fornire spiegazioni. Che non sarebbero state molto diverse dal fatto che all’improvviso una cantante che era sempre la stessa di quando era stata scritturata dagli uffici milanesi per riprendere Aida a Milano e nella tourneé in Israele, non era più gradita a Barenboim, che l’aveva cestinata lasciando il teatro in braghe di tela. Si recuperarono un soprano all’epoca sconosciuto, Maria José Siri e l’ancor più sconosciuta Manon Feubel ( anche tappabuco sulla Lucrezia Contarini dei Foscari, per poi a tornare nel nulla da cui  venuta), mentre Violeta Urmana rimase, come da programma, su alcune delle ultime recite.  Il reddere ationem di scelte artistiche dissennate non si ebbe con la Siri salvatrice, dato che la sua dolce voce lirica era ancora fresca, ma sul ruolo di Amneris ed, evento inaspettato, nella direzione d’orchestra! Mezzosoprani designati per quella ripresa erano l’astro emergente, la russa Anna Smirnova, voce importante, ma periclitantea sul piano tecnico,stilistico e scenico. Seconda, da affiancare all’Urmana, la rodata Luciana d’Intino.

La seconda ripresa di Aida fu una catastrofe! La Smirnova si era già esibita in alcune illuminanti recite nel precedente Don Carlo diretto da Daniele Gatti, in seconda compagnia, dietro strabordante Dolora Zajik, trionfatrice della produzione. Eppure la direzione artistica della Scala, sull’onda di un curriculum invidiabile della giovane russa, già approdata ad esibirsi con i vari Maazel, Metha, Oren etc, non trasse alcuna lecita e doverosa conclusione dopo quella Eboli tanto rozza ed andò avanti col suo progetto, anziché correre tempestivamente ai ripari, magari proprio dalla Zajik (la migliore tra le Amneris del nostro tempo che ha continuato, ignorata dalla Scala, ad esibirsi in estate a Verona ….). Il naufragio della giovane Smirnova ebbe luogo nel silenzio glaciale del teatro esterefatto alla scena del giudizio, ove, al di là del canto, recitò più che sopra le righe, oltre ogni limite dell’ammissibile. Complice il direttore musicale, che non agì per moderare alcun effettaccio vocale, urlo e strale vocale, tutto si consumò inevitabilmente come storia già scritta.. Con lei il tenore Salvatore Licitra senza acuti e visibilmente infastidito dall’imprevedibile vai e vieni di tempi di di Barenboim ( una sera in chiusa al terzo atto lanciò pure la spada verso il podio ), un Juan Pons finito, fuori tempo in ogni senso. Barenboim fu responsabile della “non gestione” del tutto, dirigendo con una sciatteria mai vista sino a quel momento sul podio di Milano, tra clamorosi fuori tempo con i solisti e col coro. Ma le anche l’orchestra, imprecisa e scollata anche tra le varie sezioni, insomma,un disastro tale che. ad ogni recita accadeva sempre qualche nuovo incidente. Nel secondo cast l’Urmana venne liquidata anche del pregresso, mentre sopravvisse la coriacea ed acciaccata D’Intino, sbuffando platealmente ( e con ragione ) a pugni chiusi durante la scena del giudizio.

Poi sorse un astro, la stella cometa destinata a colmare la voragine creatasi sulle parti pesanti: Oksana Dyka. E si riprese di nuovo Aida sicuri di aver trovato la panacea ad ogni male. Si ricostruì la produzione De Nobili,…..e fu subito sera, per l’ennesima volta! Il soprano ukraino era stato scritturato per molti ruoli, prima Pagliacci e Tosca, l’Aida fissata per l’anno successivo. I Pagliacci furono il suo biglietto da visita, chiaro, limpido ed oggettivo dei limiti e non certo dei pregi, benché qualcuno fosse andato dicendo che si trattava soltanto di qualche suono e non di limiti tecnici troppo grandi per intraprendere cotanta carriera. Dopo i Pagliacci si proseguì anche con Tosca, poche settimane dopo, chiedendo però a super Sondra Radvanovsky di cantare la prima. Forse il dubbio a qualcuno era venuto, ma di fatto nemmeno in quell’occasione si volle sentire, preferendo incolpare il pubblico, o parte di esso, anziché ritirare il soprano dal ruolo di Aida e rimeditare sulle proprie scelte. Quello che era valso per la Fantini, in questo caso non valse, con l’aggravante che si era al terzo tentativo con la stessa cantante ( e ne fecero un quarto con Ballo estivo ultimo scorso …) e sempre al terzo con lo stesso ruolo. Alla signora Dyka venne poi affiancato anche il direttore della Tosca, Omer Meir Wellber, altro astro nascente, respinto apertamente dall’orchestra ancor prima che dal pubblico proprio alla vigilia del suo debutto in Tosca.

La terza ripresa, nel 2012, fu l’edizione di Aida più silenziosa, meno applaudita: il pubblico muto, anzi, ammutolito da un’altra puntata di “Aidaful”. Freddezza, qualche contestazione al direttore, per una produzione cantata piattamente, talora con rozzezza, da tutti i protagonisti e diretta ancor peggio. I segni di espressione che Verdi scrive tutti spazzati via bellamente per un canto buttato là senza arte né parte. Né valse molto di più la prova di Lyudmila Monastyrska in secondo cast, anche lei piatta e rozza, come nelle recite che si sono appena concluse in questi giorni. La nuova possente voce maschile, Jorge de Leon, deluse perché tanto potente in teatro non parve, e così di valido restò solo la parte acuta della voce spezzata di Marianne Cornetti. Troppo poco per un grande teatro.

E a furia di tentativi, provando e riprovando come Galileo, è venuto il tempo di Hui He. Un tempo tardivo a bene vedere la sequenza rocambolesca di scelte malaccorte ed incidenti, anche se non tardivo come quello che fu di Maria Chiara, debuttante a Milano nel 1986 a diciotto anni dalla sua prima Aida a Dresda e dopo un numero impressionate di recite in tutto il mondo, soprattutto a Verona, come oggi il soprano cinese oggi. La He ha dovuto attendere l’ultimo giro di riprese, quelle di questa chiusura di stagione 2013, di nuovo nella produzione ultima di Zeffirelli, nonostante il pubblico abbia dimostrato di gradire l’ormai recuperata edizione del ’63. Il fatto che l’ultimo tra i soprani scelti sia stata la sola gradita al pubblico fra tutte quelle passate da Milano in questi anni ( conclusione non mia ma del pubblico) sia vocalmente che interpretativamente, esibendo qualità di canto reali e non millantate passate le 120 recite di Aida, dà da riflettere. Anzi, deve far riflettere chi è preposto alle scelte ed alla gestione dei cantanti, qui come altrove. Non ci si poteva davvero arrivare prima??

In quest’ultima ripresa abbiamo assistito ad un’Aida diretta di nuovo da un direttore, certo non senza mende, come già all’inaugurazione con Riccardo Chailly, ritrovando l’ennesima conferma che l’opera italiana di repertorio è cosa da direttori che amano e praticano l’opera e la tradizione italiana, e non da direttori abituati ai teatri tedeschi ed estranei alla nostra poetica espressiva. Di nuovo abbiamo visto emergere con evidenza il tema della competenza nelle scelte, questa volta in modo casuale, dato che la sostituzione improvvisa di Marco Berti alle ultime repliche da parte di Fabio Sartori ha dato modo di sentire non un grande Radames, perché il tenore non è per nulla dotato di squillo ed accento eroico, ma almeno un Radames più cantato, capace di essere plausibile nel canto amoroso e, più in generale, nel canto in zona centrale. Data la maggior squadratura del personaggio di Radames rispetto a quello assai più variegato di Don Carlo, la scelta migliore ( ossia il minore dei mali) sarebbe stato collocarlo direttamente su Aida, e cassare l’inutile disgraziata ripresa di settembre di Don Carlo, riproposto in assenza di cast ed in eccesso di titoli verdiani in cartellone questa stagione. Quanto poi al tema Amneris, ci si domanda se era davvero necessario ricorrere al duo Krasteva-Semeneciuk ( la prima con la voce ( piccola) tutta bloccata ed imballata, la seconda che pareva una cenerentola sgangherata) entrambe al di sotto del minimo sindacale richiesto e se fosse davvero il caso di riprendere Aida disponendo solo del soprano fosse tanto necessario. Passi per Radames, ma Aida senza Amneris non si può proporre tanto che il pubblico milanese non è accorso come in altre occasioni, sostituito dai turisti e dagli studenti. E di nuovo ritorniamo ad un problema che non ha trovato soluzione in queste tornate dell’Aida secondo Lissner, ove la sola Amneris di qualità è stata “parcheggiata” dapprima in secondo cast e quindi resa al mittente per motivi, a noi del pubblico, incomprensibili.

Morale: la lirica oggi vive il suo minimo storico, le ragioni sono nella storia qui sopra esposta e non servono approfondite teorie, indagini e ascolti comparati. I fatti, ovvero le reazioni del pubblico, talvolta inviperito e fortemente reattivo, altre volte attonito e muto (come accadde alla fine del primo atto della ripresa diretta da Wellber quando non scattarono gli applausi) sono più eloquenti di ogni parola.

 

10 pensieri su “Aida alla Scala (2006-2013): the body of evidence

  1. Donna Giulia, questa disamina della storia di Aida assomiglia tanto
    alla commedia I MISERABILI, e dimostra se ancor ce ne fosse bisogno che la coppia Lissner-Barembum è stata na “ciofeca” Il guaio però è che parte del bilancio Scala grava sulle nostre tasche di Italiani,
    e questo è insopportabile

  2. La Makarova è davvero una cantante notevole, possiede una dote eccezionale per bellezza, morbidezza, volume ed estensione, una vera voce di mezzosoprano-contralto. Credo che un possibile problema sia la scarsa dimestichezza con l’italiano: una maggiore padronanza della lingua, oltre a migliorare l’interpretazione, la aiuterebbe a vincere la sua tendenza ad intubare i suoni, di conseguenza sarebbe tecnicamente ancora più forbita di quanto già non sia.

    • Disse lo stesso alla chiusura del sipario in Simon Boccanegra a Cagliari nel 2005…. era furioso!! Ti dico solo, cara Marianne, che Marco Vratogna con cui Guelfi si alternava tirava giù il teatro ogni sera……fai tu…..

  3. La recita di ieri sera, 19 novembre l’ultima, è stata particolarmente allo sbando.
    Noseda doveva aver fretta di tornarsene a casa. Giunto sul Nilo ha remato contro i cantanti, perdendoseli più d’una volta per strada. L’orchestra, particolarmente starnazzante (ma sai, erano stanchi, dopo il concerto della Filarmonica la sera prima…) nel boudoir di Amneris all’arpa è riuscita una stecca, che dico? Una steccona!
    La Krasteva ha superato il limite del grottesco, vuoi per la recitazione alla Bertini vuoi per le espressioni da inebetita che tenta di spacciare per sguardi erotici e provocatori, riuscendo ad evocare, nel migliore dei casi, l’inimitabile Michael Aspinall.
    La Monastyrska ha gridato quanto e quando ha potuto: peccato perché la voce ci sarebbe, eccome! Quando tenta un piano si spoggia e son dolori. Sartori partito bene, nel duetto con Aida cerca di emettere in pianissimo e ne vien fuori un suono stonato e falsettante. C’è la scusa che è un rimpiazzo. Mastromarino, dimagrito, meglio del previsto.
    Pubblico prevalentemente di turisti per caso, con numerose e prevedibili defezioni dopo il “trionfo”.
    Sic transeat … in Scala, appunto.
    Saluti

  4. 100 % d’accordo con Giulia.
    L’imbolsimento scaligero, che è effettivamente arrivato al limite (forse) estremo con maitre chocolatier Lissner & i boum di Baren, che ormai sembra psicotico, è comunque di vecchia data.
    Il caso Aida però è veramente da manuale della follia, basta la insistenza con cui è stata ignorata Maria Chiara per anni, la scelta di nomi sì di grido ma rivelatisi poi mezze o intere bufale, passati – Pavarotti, Ghiaurov.. – o recenti – lo stizzoso Alagna, anche lui ormai da lettino, la Urmana poareta.. – più tutta la “coreografia” registico podistica che è sopra elencata, per capire che le idee chiare in materia non ci sono.
    Personalmente non apprezzo più da tempo ciò che la Scala mette in scena, perchè trovo che un po’ tutta la macchina scaligera soffra di esterofilia in generale, con marcata tendenza filo-germanica soprattutto negli ultimi tempi.
    In definitiva, anche se qualcuno non sarà d’accordo, mi sono rotto del tedescume imperante e vorrei un ritorno alla sana buona tradizione italiana, senza la quale opere come Aida, il Ballo, Don Carlo ecc…, che già di loro hanno il problema di mettere insieme un cast all’altezza, vengono poi massacrate come siamo costretti a vedere e (ahimè) sentire.
    Il guaio è che non vedo luci all’orizzonte e non mi è dato, se non da vecchie messe in scena, ascoltare e vedere Aida …”morir sì pura e bella”.
    Amen

  5. Sbaglio o, per quest’ultima ripresa, era inizialmente nuovamente previsto Jorge De Leon ? Che fine ha fatto ?
    Per l’edizione del 2006, dal filmato il migliore in campo mi parve il Ramfis di Giorgio Giuseppini, che avevo gia’ apprezzato anni addietro come Ferrando.

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