2.750.000: le grandi Violette… assenti.

amelita-galli-curciFesteggiamo un nuovo traguardo del sito. Traguardo tagliato, per la verità, nei giorni scorsi, anche se l’attualità ambrosiana ha suggerito di rimandare di qualche ora l’inizio dei festeggiamenti. Proporremo nel corso delle prossime ventiquattro ore, partendo dalle 18 di oggi, ventiquattro video di grandi, celeberrime Violette, che mai si produssero in questo ruolo nella sala del Piermarini. E’ anche un’occasione, si spera, per riflettere su certe incaute dichiarazioni del giorno dopo (o meglio, day after), rilasciate dalla dirigenza scaligera, cui hanno peraltro copiosamente risposto commentatori virtuali e, soprattutto, l’eloquentissimo, e mai come in questa occasione vivace e vitale, pubblico scaligero. Non solo i “talebani” delle gallerie, ovvio, ma anche compassati signori ed eleganti dame o damazze, accomunati da analoghe perplessità nei confronti dello spettacolo servito, rectius propinato dalla dirigenza di cui sopra. Sempre per rimanere in punto dichiarazioni incaute dobbiamo poi registrare quelle del presidente degli Amici del Loggione, signor Vezzini, che in riferimento alla prestazione di Piotr Beczala ha commentato: “Alfredo era un po’ più spento, ma in fondo nella Traviata non è poi una parte dove si ascoltano spesso cantanti importanti”. Riteniamo che anche simili esternazioni meritino di essere copiosamente chiosate, e ci riserviamo di farlo in un futuro non lontano. Anzi.

Per il momento, buon ascolto con le nostre Grandi Violette assenti.

 

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La nostra rassegna si apre con il brindisi di Renata Scotto, che dell’avvenente cortigiana non possiede altro fascino che non sia quello strettamente collegato alla pratica meticolosa e diligente del canto sul fiato. Caratteristica che impietosamente la distingue dal suo compagno di libagioni, José Carreras, il quale appare, di fronte a cotanta Violetta, rozzo e squadrato, sebbene di gran voce. Ascoltare per contro come la Scotto differenzi e colori frasette in apparenza anodine, quali “tutto è follia nel mondo” oppure “no’l dite a chi l’ignora”. La sovrabbondanza e sottigliezza di intenzioni espressive, che può talvolta risultare leziosa, è la cifra caratteristica di questa Violetta, tanto più notevole in una pagina come il brindisi, di scrittura marcatamente centrale e perciò poco adatta, sulla carta, alle corde del soprano leggero che Renata Scotto, ad onta del repertorio regolarmente praticato, fu. – AT

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Galli Curci never sang Violetta at the Scala, in fact she never did sing at la Scala at all. Her debut at the Met took place in 1921 as Violetta. By that time critics were starting to pick on her occasional flatness and wobbly intonation. – This was to increase in years to come and „Ah se cio è ver FU-GGEtemi, solo amistado IO V´OFFro“ gives already slight hints of this, but alas, „tutto è relativo…..“ Galli Curci is always delicate and elegant, NEVER a dull or vulgar sound. How beautiful the voices blend (Dimenticarmi allor / Croce e delizia al cor). But this is really more Schipa´s showpiece: No tenor have I ever heard singing a more tender and mesmerizing „Un dì felice“. – SK

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Vi offriamo qui un soprano leggero per autonomasia, forse l’unico leggero che in tempi moderni abbia saputo fraseggiare veramente in Traviata. La ascoltiamo nella grande scena del primo atto,in un momento tardo della carriera, gli acuti ed il sopracuto finale non più belli come un tempo. Colpisce il fraseggio esibito dalla Sills, il recitativo con i toni esatti di Violetta che si interroga se qualcosa di nuovo sia entrato nella sua vita, se vi sia una possibilità di futuro. L”Ah forse è lui “ è eseguito ad un tempo lento, di quelli adeguati a chi non teme il fraseggio in zona centrale. I piani arrivano intensi e sostenuti, molto espressivi ma anche strumentali a differenziare le frasi “ Ah quell’amor , quell’amor ch’è palpito” dove la Sills sa di non poter disporre di cavata. Caratterizza molto il primo “croce”, corposissimo, di “croce e delizia al cor”, per risolvere, secondo prassi tradizionale al la acuto, la chiusa dell’aria. Le battute che portano alla cabaletta sono velocissime, introducono subito alla nevrosi del canto di agilità del valzer, straordinario per mordente e leggerezza. Beverly Sills non cerca mai il suono largo e grande, bensì la “punta”, con la quale gioca tutte le sue possibilità di espressione della grande scena. – GG

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Il valzer esterno si interrompe, il tempo è come sospeso, e l’orchestra intona un dolce andantino che segue la voce di Alfredo ne “Un dì felice eterea” che da origine ad un breve duetto tra il giovane e Violetta.
Alfredo apre il suo cuore a Violetta con una passione vivace, ma non priva di intima eleganza.
La linea di Violetta, che risponde alle offerte d’amore del ragazzo, risulta enfatizzata da un certo gusto per un divertito, disincantato distacco che musicalmente corrispondono ai vocalizzi i quali creano un efficace confronto tra l’impulsività dell’uno ed il sarcasmo dell’altra.
Ma la festa irrompe di nuovo, il duetto è interrotto dal valzer esterno che torna prepotente come colonna sonora della festa e ristabilisce il ritorno alla realtà: sarà proprio su questo valzer che Violetta cederà all’amore di Alfredo donandogli un fiore nella speranza di rivederlo il giorno dopo.
La stretta che termina la scena ed introduce il soliloquio di Violetta si presenta in un tempo Allegro vivo e idealmente chiude il cerchio della serata riprendendo i temi iniziali della festa, ma portati al parossismo dal canto del coro degli invitati.
Labò ha un po’ di fibra nella voce ed è più propenso ad espandere il suono, che ad addolcirlo, ma il buon legato, il timbro personale, l’impeto giovanile e romantico onorano molto bene la scrittura centrale di Alfredo e le numerose note ribattute che deve toccare.
Leyla Gencer, non ha bisogno di camuffare il timbro o ricorrere a forzature, ma lascia libera la sua voce di vibrare spontaneamente nel duplice nervosismo della scrittura di Violetta che si esplica sia nei brevi passi di coloratura che spingono la voce verso l’acuto, sia nelle frasi più gravi e pensose, insinuando nella sua interpretazione quel dolce dubbio che l’accompagnerà alla chiusa del primo atto. – MB

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Quando incise l’aria , precisamente il solo andante “Ah forse lui” (abbassato di un semitono) la Bellincioni aveva quarant’anni cantava da venti e da dodici circa (ovvero dal 1890 anno della prima di Cavalleria Rusticana) era la musa e la madre spirituale del Verismo. Prima di essere la Duse del palcoscenico lirico, però, Gemma Bellincioni era stata un soprano lirico leggero e come tale cantato Barbiere, Roberto il diavolo e, appunto, Traviata. Non possiamo dire di essere dinanzi ad una esecuzione trascendentale sotto il profilo interpretativo perché la cantante non sfoggia, pur nella scrittura centrale del passo un gioco di colori tale da farla ergere ad interprete. Talvolta compaiono nella prima sezione riprese di fiato abusive rispetto al testo musicale, anche se va segnalato che la tradizione esecutiva (cui fanno spesso riferimento sia Maria Callas che l’Olivero) voleva questo come scelta interpretativa per simulare l’ansia al primo atto e l’impellente morte per etisia al terzo. Propenderei per la scelta interpretativa perché alla sezione conclusiva la cantante non presenta questo problema ed anzi si uniforma alla tradizione, origine Adelina Patti, di salire al la acuto nel secondo “croce delizia” , sale sino al do acuto nella cadenza ed emette un trillo piuttosto facile. Tutti comportamenti che inducono a ripensamenti sulla Bellincioni ( e con lei la Carelli) e, sempre più convincono che suoni aperti, acuti ghermiti fossero più che limiti tecnici ben precise scelte interpretative. – DD

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Una Traviata difficilmente proponibile al pubblico italiano, che dal canto in generale, e da un ruolo come questo in particolare, pretende – a ragione – ben di più del mero sfoggio di bel timbro, intonazione, linea di canto e ghirigori vocali. E’ una Violetta più che astratta, direi esornativa, buona per un pubblico anglosassone, di gusto vittoriano. Dell’aria del primo atto la Melba realizzò diverse incisioni. Ho scelto questa, benché limitata alla sola cabaletta, per le agilità particolarmente a fuoco, veloci e sgranate. – GBM

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Di ben altro tenore rispetto alla Bellincioni è la Traviata di Luisa Tetrazzini. Se stupore desta oggi la fama di grande Violetta per un soprano corto e dedito al Verismo ancor di più lo dovrebbe destare quella di una Violetta sul quintale di peso, per nulla avvenente e dedita al canto di coloratura assolutamente fine a sé stesso, tanto da lucrare, ad opera di Toscanini (che preferiva in Traviata ed altrove Rosina Storchio) il titolo di “divino organetto”. Certo è che la Tetrazzini fu Violetta nei teatri anglosassoni e spagnoli, che erano stati quelli di Adelina Patti. Ma fu un modello di Violetta anche se del personaggio ha registrato solo la grande scena ed integrale “Addio del passato”. Mancano i duetto con il tenore e, soprattutto con Germont padre e ciò non di meno la Violetta del soprano fiorentino è stata modello non solo per l’allieva Lina Pagliughi, ma anche per la Toti e l’Olivero, che ne riprendono la cadenza dell’andante con tanto di  messa di voce sul do acuto. L’esecuzione di Luisa Tetrazzini ha una serie di punti di forza ovvero il timbro ed il suono proiettato e purissimo, che servono a rendere un candore ed un’innocenza ufficialmente estranee  alla cortigiana di rango, qui ritratta, però, nel momento in cui scopre l’amore, quello vero e non quello professionale, la cadenza con salita al do5 e i do ribattuti alla sezione conclusiva dell’allegro. Poi, sotto il profilo musicale di sono anche, testimonianza della prevalenza della Divina alcune libertà ossia il fiato prima dei la acuti e certe prese di fiato piuttosto arbitrarie, ma è la sigla della divina Luisona. – DD

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Mentre in Europa imperversava la Violetta della Tetrazzini, negli Stati uniti quella di Marcella Sembrich e nella Russia Imperiale quella di Antonina Nezhadova (veramente splendida) in Italia ed anche nei paesi spagnoli si imponeva quella naturalista di Rosina Storchio. La Storchio, cantante interessantissima e interprete tanto grande da esserlo stimata da una collega e rivale come la Carelli, varò in Italia (aggiungo in uno con Angelica Pandolfini) una Violetta parente prossima di Mimì e Manon di Massenet, quindi dai colori tenui, dal fraseggio eloquente, esente e dagli eccessi acrobatici della Tetrazzini e da tentazioni veriste. Insomma la Traviata confezionata su misura per un soprano lirico. Se poi il soprano lirico, come nel caso della signora Maria Chiara ha una certa propensione (derivata da una rigorosa scuola) al canto di agilità e estensione ragguardevole abbiamo una Violetta che canta splendidamente, che interpreta convinta ed attenta alle indicazioni dell’autore forse senza colpi d’ala, che non perde un’occasione testuale per inserire piani e pianissimi rinforzando e stendando, legando ogni suono e che avrebbe meritato molto molto di più della solida fama e del rimpianto di cui oggi è, giustamente, oggetto. Mi premetto una chiosa a Napoli nel giro di cinque anni ascoltarono due Violette grandi ed antitetiche, ma entrambe esemplare: Maria Chiara e Beverly Sills. Napoli 1974. – DD

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Questa esecuzione famosissima porta la firma di due voci dall’imposto belcantista, la Galli Curci e De Luca. Il canto è sempre concepito come perfette emissione, omogeneità timbrica, assenza di sforzo e di impurezze in ogni zona della voce, insomma un uso magistrale del fiato che porta lo strumento a flettersi docile e leggero. L’espressione è sempre depurata da ogni tentazione realista, da eccessi e da ogni tentazione di andare oltre il suono cantato.

Lei, vera voce di soprano leggero, canta con un suono sempre trasparente e diafano, che è la metafora della fragilità e della purezza. Il suo “Dite alla giovine “ è legato puro, come pure le frasi della stretta, “Morrò, morrò la mia memoria” eseguita con toni dolenti, rassegnati, mai accesi o sopra le righe. Bellissima proprio la chiusa, anche questa molto suonata.

Lui, una delle voci di baritono più perfette tecnicamente, fa un uso stupendo dei piani, emessi con grande dolcezza, la voce sempre a fuoco, rendendo benissimo l’accento patetico ed umano del padre che capisce il dramma cui condanna Violetta. Anche il “No, generosa vivere” è equilibrato, non lo carica come capita spesso di sentire e riesce a giocare tutta la scena finale in forza della sua stupenda emissione. – GG

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Nel duetto con Germont padre la sventurata Violetta è posta di fronte, come la Manon pucciniana, a un passato che credeva (o meglio: sperava) sepolto e che si ripresenta invece in tutta la sua ineluttabilità. La protagonista tenta di reagire, dapprima con dignità, quindi con disperazione, infine, ormai rassegnata, sublima nel sacrificio (offerto, letteralmente, a una sconosciuta) la devastante intensità del proprio amore. Una pagina come questa non poteva trovare interprete più esatta, vocalista più completa di Magda Olivero, esemplare per l’ansia febbrile che imprime al “Non sapete quale affetto” come per l’incanto purissimo, quasi trasumanato del “Dite alla giovine” e la bruciante, trattenuta scansione del “Morrò! La mia memoria”. – AT

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Eccoci al leggendario “Dite alla giovane” di Renata Scotto, qui nell’ultima, credo, sua apparizione nel ruolo con Sesto Bruscantini, a Tokyo. Non credo che occorrano molte parole per descrivere i modi del suo canto, l’uso magistrale dei pianissimi sorretti dai suoi ampi fiati. Il canto come “arte de dire” trova una delle sua massime manifestazioni in questa artista geniale sul piano dell’inventiva e dell’espressione, analitica sino anche all’eccesso. Non aveva nulla della protagonista nell’aspetto, ma possedeva tutto su quello del canto, la ” parola scenica”, e fu Violetta di grandissimo successo sin dall’inizio della carriera. Con lei Sesto Bruscantini, con cui condivideva l’arte di fraseggiare con eleganza e pertinenza. – GG

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La grande scena del secondo atto tra Violetta e Germont padre non è soltanto un duello psicologico, ma anche e soprattutto un pezzo fondamentale di teatro di conversazione: teatro puro di parola nel quale il recitativo, l’aria, il duetto diventano un flusso continuo e serrato che dell’importanza della parola scenica coglie le sfumature, ma anche i significativi cambi agogici di un discorso, aprendosi alle esplorazioni delle possibilità del registro centrale della voce.
Se, ad esempio il canto di Germont si attesta su una struttura incalzante, ma apparentemente melodiosa, che all’occhio dell’ascoltatore deve necessariamente risultare cinica e insinuante, grazie anche all’intrecciarsi degli archi che formano la struttura portante della scena, quello di Violetta sembra una linea in discesa, che nelle medesime melodie trova frasi che la trascinano in un vortice di pessimismo e intensa commozione, spinto fino ad un confondersi angoscioso e mortale.
Tagliabue, vocalmente anziano, ma non vinto, impressiona con il suo Germont dal fraseggio ovunque nobile, ma attraversato da un freddo distacco che lascia spiazzati e da una dizione di formidabile scolpitura.
Parole come “Sacrifizio”, tutto il “Pura siccome un angelo” trafiggono nel la loro apparente gelida normalità, oppure quei “Piangi” o quel “Non amarlo ditegli… Partite”, frasi a mezza voce che rivelano più di quello che dicono, sempre con una voce che non va mai indietro, ma risuona sfumata e chiara sul labbro.
Splendida la Carteri, voce di non debordante personalità, ma di squisita fattura timbrica, facile nel coprire l’estensione di Violetta, oltre che bellissima cantante e fraseggiatrice varia e sfaccettata.
La dignità che traspare da questa Violetta nasce proprio da quella redenzione che lucidissima emerge dalla frase “Più non esiste… or amo Alfredo, e Dio lo cancellò col pentimento mio.” detta con un abbandono encomiabile; ma anche il resto trova la Carteri imporsi per lo splendido ritratto di una donna vinta non per compiacere Germont, ma per amore di Alfredo. Meravigliose le frasi dette in piano o pianissimo (“Dite alla giovane”, “Morrò, la mia memoria”) su un’unica dolce arcata di fiato senza cedere alle seduzioni del verismo, ma intrise di spontanea commozione. – MB

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Nei teatri spagnoli ed al Met Victoria de Los Angeles nella seconda metà degli anni ’50 canto spessissimo Violetta. Il fatto può destare stupore perché la de los Angeles era piuttosto corta in alto, fraseggiatrice attenta, ma misurata e, forse compassata. Non per nulla evitò nel ruolo della mantenuta i teatri italiani dove si richiedeva a Violetta ben altro. Se la Traviata della Caballè aveva la sua ragione di essere nel timbro privilegiato della cantante e nell’esasperata dinamica le ragioni di quella di Victoria de Los Angeles, qui proposta con uno esemplare Mario Sereni stanno nella compostezza della cantante nel suo esprimere misurata e contenuta e con una voce molto dolce e femminile nella zona centrale, la disperazione della donna costretta dall’opinione pubblica (interpretata da Germont padre) a rinunciare all’amore, cui una “puttana” non ha, per quella convenzione sociale diritto e di cui non è neppure ritenuta capace. – DD

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E dopo la catastrofe con Germont, l’abbandono di Alfredo.
Una scena che si carica di tensione non solo emozionale, ma proprio epidermica, che l’intervento così repentino di Alfredo crea un crescendo spasmodico che solo nelle frasi di Violetta trovano il proprio climax.
Il canto di Violetta si carica di un delirio nervoso che sollecita il passaggio ed i primi acuti, Alfredo incalza, ma nulla comprende (come sempre), e la voce della donna continua piena di turbamento e paura a pronunciare promesse che mai potrà mantenere e chiede con ossessione la conferma di quell’amore che si porterà dietro.
L’orchestra si spande ampia, e getta un ombra disperata, ma ricchissima d’affetto su questa frase “Amami Alfredo”; la cantante deve superare questa orchestra spinta verso un forte sostenuto e andare oltre con una vocalizzazione legata appassionata e piena di forza in una scrittura nella quale le forcelle danno forza ad ogni singola sillaba, da qui lo sprigionarsi della commozione sia nella musica che nella voce.
Ci sono tantissimi modi per dire questa frase, che deve necessariamente sottolineare tutto l’intimo invalicabile tormento di un abbandono pieno ancora di quell’amore a cui ci si era appigliati.
Nella Steber questo addio è un gesto si razionale, ma che esplode in lacrime quando afferra quel La acuto coronandolo con una forza nella quale la si immagina trattenere le lacrime.
E’ tutto inevitabile nel fraseggio della Steber, tutto è tragica conseguenza di ogni azione, per lei tutto deve finire: la vita da prostituta, la felicità di un amore afferrato strettamente, la vita senza quell’amore. Così, in maniera consapevole e dunque terribile. – MB

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Altra esecuzione in cui all’istinto infallibile della primadonna si accompagna il perfetto controllo di uno strumento in natura a dir poco modesto. L’”Amami Alfredo” dell’Olivero dimostra come una voce dalle limitate risorse timbriche possa, con l’ausilio di una solida tecnica di canto, risultare non solo adeguata alle prese con una pagina connotata da un deciso spessore orchestrale, ma, complice un accortissimo, esemplare gioco di variazioni dinamiche, ben più consistente di quanto non sia in realtà. Un po’ come avveniva per il do della lama nel terzo atto di Tosca, nota che l’Olivero attaccava piano per poi rinforzarla, con un effetto che creava l’impressione di una voce ben maggiore di quella di cui era effettivamente provvista la cantante. – AT

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All’estremo opposto di quello della divina Magda l’arioso di Maria Chiara, voce d’oro che sfoggia una pienezza e un’intensità sufficienti di per se stesse, come si dice in gergo, a fare serata. Ma che la voce sia naturaliter ampia e corposa non esclude automaticamente che l’interprete possa essere varia e ispirata, come avviene alla frase “sarò là tra quei fior presso a te” e alle parole “quanto io t’amo”, essenziali per inquadrare il personaggio e la portata della sua, in ogni senso estrema, risoluzione. – AT

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Il finale II già contiene al suo interno una piccola grande catarsi dopo l’insulto che Alfredo ha inferto a Violetta umiliandola davanti al coro dei presenti.
Su un tempo di un valzer sommesso, Violetta ha la possibilità di isolarsi dalla folla: un momento di confessione che racchiude lo stato d’animo della donna di fronte al costo di tale sacrificio.
Lo rivela a se stessa ed al pubblico, ma non ad Alfredo, che non capisce, ma si strugge per l’orrore del suo gesto, davanti al rimprovero del padre la cui morale già scricchiola, e davanti ad una folla che commenta, ma di fatto li isola. Il tutto condotto da un brano cullante, che nella sua calma trapuntata di archi, non blocca l’azione, ma ne esalta la drammaticità ed anticipa la tragedia dell’atto successivo.
La Steber vola letteralmente con la voce, vellutatissima eppure robusta, che arriva ad Alfredo carezzevole e benevola, priva di accuse o recriminazioni, ma solo ricca di comprensione.
Il registro centrale, assottigliato e sostenuto, si lascia travolgere dalle tenui ondate della melodia, ma senza farsi mai coprire e senza perdere volume di fronte ad un agguerrito e di gran voce, di grana grossa invero, Leonard Warren e ad un querulo e grossolano Armand Tokatyan che un po’ si perde nel coro. – MB
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Nella tradizione orale operistica si racconta che Montserrat Caballè abbia abbandonato il ruolo di Violetta dopo che, sotto il peso del suo fondoschiena, un piedino del letto di Violetta si sia spezzato. La cantante era scoppiata a ridere, ovvio. I limiti fisici e soprattutto la goffaggine scenica erano forse nel dopo Callas davvero troppo per poter essere una Violetta credibile e poi ci sarebbero volute troppe prove, troppa applicazione, che comportavano perdita di ingaggi. Troppo per la grande Montserrat, che preferì altro. Ma la sua Violetta sia quelle ufficiale sia quelle live è nei momenti di pianto e dolore della protagonista straordinaria per la capacità di assottiliare il suono, di piegarlo, magari per essere la Caballe, più che Violetta, ma è sempre un grande sentire. Non è un caso l’esplosione dell’ascoltatore alla fine dell’aria. MET 1967 – DD

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Zeani´s legendary last-minute Covent Garden debut replacing an ill Joan Sutherland as Violetta in 1960. The thrill and the fever of Zeani´s „Invitato a qui seguirmi.. . is mesmerizing and what an admirably steady line and depth of feeling she has in „Alfredo, Alfredo di questo core“ although she is diving into the chest voice a little too often for my taste. Beautiful are „ma verrà tempo“ and „quant´io t´amassi“. High-strung and musically very secure and reliable.

And obviously the difficulty of finding adequate partners and at least tolerable comprimarii is no phenomenon of our days if you listen to „La cena è pronta“… – SK

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L’ “Addio del passato” è, al pari di “Sempre libera”, un momento di intimità: Violetta parla a se stessa, fa un bilancio di ciò che è stato, fa un tentativo, molto amaro, di guardare verso un futuro che si allontana per mezzo di un alternanza di Minore e Maggiore di grande suggestione.
Verdi da enorme valenza a questo tormento interiore, prescrivendo un Andante mosso, e come tocco direi psicologico, prevede che il soprano canti Legato e Dolce, ma soprattutto Dolente ed in pianissimo (pp).
L’effetto, introdotto dall’oboe, è straordinario, perché lo stato meditabondo emerge nella sua più rassegnata crudezza, che la Gencer onora raccogliendo la propria voce soprattutto al centro per conferirle un tono affaticato, malato, ma senza “asma espressivo” o rantoli di sorta, ed assottigliando la voce senza perderne l’intonazione nelle volate verso l’acuto.
L’espressione resta comunque dolce e le prescrizioni a rinforzare il suono nelle tonalità maggiori viene onorato con luminosità sempre crescente, che contrasta con il morente fil di voce finale che ne segna la conclusione.
Manca, purtroppo, la seconda strofa. – MB

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La grande aria del terzo atto è una delle pagine in cui maggiormente un soprano leggero rischia di dimostrare oltre ogni ragionevole dubbio la propria inadeguatezza a rivestire i panni della sfortunata cortigiana. Non fa eccezione, benché nella confortevole cornice dello studio discografico, Renata Scotto, al solito connotata da una dinamica esasperata, qui in fondato sospetto di affettazione e manierismo. La riapertura del taglio di tradizione, che ripristina la seconda strofa del cantabile, conferma come una simile soluzione risulti consigliabile solo in presenza di un’interprete che sappia differenziare il primo dal secondo enunciato e dare a un entrambi un senso, un colore differente. – AT

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Soprano leggero al pari di Beverly Sills e, come lei, assidua frequentatrice di un repertorio tutt’altro che indicato per la sua voce, Beverly Sills è l’ideale contraltare del soprano italiano, per la pertinenza di un fraseggio elettrico e nevrotico, sempre attento alla scansione musicale non meno che drammatica del testo, capace di sapienti sfumature dinamiche che non si fanno mai esercizio sterile, ma riflettono la verità, o almeno una delle verità, del personaggio. Il languore non risulta freddo o studiato, ma è sempre perfettamente calibrato in funzione delle (parche) risorse vocali disponibili. Una Traviata tra le più affascinanti della discografia. – AT

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„Not one of the smoothest and most refined versions of „PArigi, o cara“, a little bumpy and Prevedi not always in perfect pitch, but passionate singing and a „Gran Dio morir sì giovane“ full of fire. Zeani probably gave more than she should have in many occasions. Yet, her voice seems to have „survived“ better than that her compatriote, Ileana Cotrubas, whose timbre and way of singing resembles Zeani very much – as does Gheorghiu in certain aspects. – SK

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L’arrivo tempestivo di Germont da il via al finale dell’opera, una marcia funebre verso la catastrofe finale.
Su una melodia che richiama per gli effetti a certi temi ascoltati nella prima scena del II atto, si attesta la marcia anapestica che accompagnerà con le sue note ribattute le ultime battute di Violetta.
E’ una scena suddivisa in quattro parti distinte, ma unite proprio da quelle tre note ripetute: arrivo di Germont-Prendi, questa è l’immagine-Concertato-finale.
Le linee vocali sono scabre ed equilibrate, solo Violetta ha una scrittura che pare doversi sempre librare verso l’acuto, per poi discendere con tono morente verso il registro centrale. Sul riverbero degli archi il tema di “Di quell’amor” accompagna la morte di Violetta che poi gli ottoni si affrettano a suggellare.
All’Alfredo di timbro splendido, ma di gusto sguaiato, al Germont compassato di Warren, si oppone la Steber, una Violetta dal gusto aristocratica dal fraseggio, giustamente allucinato e svuotato di ogni traccia di speranza, mentre la voce, ovunque cremosa e compatta, si fa fragile solo nell’involo all’acuto donando un’aura ancora più malata all’intera scena, principiata quasi in punta di forchetta.
Molto buona la dizione che le permette di variare i colori spenti di “Prendi, questa è l’immagine” nella quale il legato si traduce in una sorta di pace interiore ormai raggiunta con la dignità di una preghiera.
Il finale, sempre sul filo di un’allucinazione dolorosa, la vede leggermente rinunciataria in alto, ma un’inezia rispetto al livello fatto ascoltare prima. – MB

12 pensieri su “2.750.000: le grandi Violette… assenti.

  1. Comunque è interessantissimo quello che scrive certa gente. Chi non ha apprezzato ‘sta ciofeca sarebbe un nemico delle cose diverse e nuove. Mi viene in mente quello che diceva Andrej Zdanov, il censore di Stalin e teorico del realismo socialista. “Il nuovo deve essere migliore del vecchio, altrimenti non ha senso”.

    • …..parli di quello che ha dichiarato che han fatto la prima versione di traviata e che in alfredo non si sono mai esibiti dei gran cantanti? …parli di lui?……se è lo stesso, diciamocelo, parla in ogni senso per sentito dire, raccatta gossip e farebbe qlnque cosa per essere gradito ai teatro….sempre in preda a quel patetico sentimento che si definisce ” desiderio di contare”…..per poi non contare nulla ed esserr tenuto in considerazione nulla. Parli di lui vero? Anche queste figure partecipano dello stato marcescente della lirica.

  2. Si, una dichiarazione (anche nel resto dell’intervista) che ha del patetico e disconosce, di fatto, qui rappresenta. E cerca, ahilui, di uniformarsi con l’intellighenzia milanese e no (non faccio nomi né tanto meno cognomi sennò poi mi minacciano con l’intervento della polizia postale :-D) che ormai ha perso qualsiasi capacità critica nei confronti del “teatro di regia” invocato come salvagente della moribonda tradizione esecutiva.
    E infine, non potendo più accusare i “grisini”, danno dei cretini, provinciali e retrogradi a tutti coloro – e ormai è una folla quasi oceanica variopinta ed eterogenea- che non condividono il loro illuminato e progressista pensiero.
    Sicché…

  3. Qualche mese fa, lessi su Facebook questa dichiarazione di Francesco Maria Colombo, intelligente critico musicale e adesso ottimo direttore d’ orchestra.

    “Allora, visto che è IMPOSSIBILE vedere il Ring o il Rosenkavalier o qualsiasi cosa senza la solita, rancida “provocazione” (=puttanata) del regista di turno (ciò che gli sprovveduti considerano moderno e che è vecchio, morto e decomposto), mi viene una domanda. Cinquant’ anni di filologia musicale non ci insegnano niente? Il rigore con il quale si è cercato di definire uno stile esecutivo deve limitarsi alla musica, tanto in scena succede quel che succede? E perché? La messa in scena non è parte dell’ esecuzione? Le corde di budello sì, ma i moduli scenici del teatro così come li ha concepiti l’ autore no? E chi l’ ha detto?”

  4. non so se verrà inclusa negli ascolti, ho una registrazione di traviata in tedesco di una certa hedwig kaufmann del 1930 circa dove alla fine del sempre libera tiene un trillo per più di 10 battute, anche se cantata in tedesco la trovo molto bella.

      • no e’ vero però mi ha incuriosito per la nitidezza delle note, in comune con la kirkby sicuramente ,peccato che non ci sia niente della mancini il suo 2 atto sarebbe stato fenomenale, anche il primo, sicuramente molte leziosaggini se le sarebbe risparmiate :) grazie ciao

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