Les Troyens alla Scala

Les_Troyens_à_Carthage_1863_poster_by_P_Leray_-_Ian_Kemp_1988_coverLORENZO: “The moon shines bright: in such a night as this/When the sweet wind did gently kiss the trees/And they did make no noise, in such a night/Troilus methinks mounted the Troyan walls/And sigh’d his soul toward the Grecian tents/Where Cressid lay that night.” JESSICA: “In such a night/Did Thisby fearfully o’ertrip the dew/And saw the lion’s shadow ere himself/And ran dismay’d away.” LORENZO: “In such a night/Stood Dido with a willow in her hand/Upon the wild sea-banks, and waft her love/To come again to Carthage. ” JESSICA: “In such a night/Medea gather’d the enchanted herbs/That did renew old AEson.” LORENZO: “In such a night/Did Jessica steal from the wealthy Jew/And with an unthrift love did run from Venice/As far as Belmont.” JESSICA: “In such a night/Did young Lorenzo swear he lov’d her well/Stealing her soul with many vows of faith/And ne’er a true one.” LORENZO: “In such a night/Did pretty Jessica, like a little shrew/Slander her love, and he forgave it her” […] (W. Shakespeare, The Merchant of Venice, Act V, scene 1). Per comprendere pienamente il capolavoro di Berlioz, è necessario coglierne la natura sfuggente ed eclettica. Innanzitutto ci si deve sbarazzare di due idee che spesso hanno condizionato l’interpretazione de Les Troyens: il classicismo e Gluck. L’opera – a cui l’autore lavorò dal 1856 al 1858 e che non vide mai rappresentata integralmente (solo nel 1863 venne messa in scena la seconda parte, Les Troyens à Chartage , per cui Berlioz compose un nuovo preludio) – si sviluppa intorno a due temi: il fato e l’amore, in completa adesione a quell’estetica romantica di cui Berlioz fu l’esponente più compiuto e coerente (e forse l’unico compositore che si possa definire pienamente e autenticamente “romantico”). La classicità, dunque, diviene un mero pretesto, o meglio rappresenta quel che l’800 romantico idealizzava di essa: il grande duetto d’amore dell’atto IV – che diventa snodo e climax dell’opera e a cui tutta l’immensa costruzione tende sin dall’ingresso di Enea – infatti, non è che la trascrizione (seppur “virgilianizzata”) di Shakespeare. Proprio il duetto è il nucleo – defilato – dell’intera partitura: Berlioz iniziò a comporla partendo da questo momento e proprio dalla suggestione poetica di quella scena del Mercante di Venezia, unita all’amore per l’Eneide, nasce nell’autore la concezione della sua “grande opera drammatica”. Ma la distanza dal classicismo non si evince solo dal libretto (steso dall’autore in alessandrini: metro arcaico del tutto estraneo al classicismo musicale): nei Troyens le forme sono totalmente ribaltate, ingigantite, ricostruite e trattate con l’estrema libertà che deriva dalla concezione volontaristica del gesto dell’artista, tipicamente romantica nel contenuto e libera nel suo espandersi senza misura. I linguaggi si intrecciano e mutano funzione, così che Berlioz, eliminando la forma chiusa e le convenzioni operistiche, a favore di un flusso musicale continuo su moduli ariosi, sfrutterà, paradossalmente, la pregnanza drammatica del recitativo declamato in una struttura priva di drammaticità e teatralità: l’opera procede, nelle sue due parti, per grandi tableaux in cui Berlioz spende tutta la sua arte di orchestratore e musicista (l’unica “scena d’azione” – quella di Sinon – venne infatti tagliata dall’autore e oggi sopravvive solo in versione canto e piano o nell’orchestrazione di Hugh  Macdonald, a cui si deve la fondamentale revisione critica della partitura, scempiata da ogni genere di manipolazione). Il superamento di ogni idea di forma porta a posticipare quel duetto fino al penultimo atto, a costo – o meglio allo scopo preciso – di comprometterne la giustificazione drammaturgica: così che il formidabile dispendio di mezzi (cori, marce, ariosi, complicati pezzi d’insieme, balli, pantomime) diviene una lunga preparazione a quel momento reso ancora più pregnante dall’attesa e dall’aspettativa. Una costruzione, dunque, in cui il dramma, la tragedia, la storia, i personaggi, agiscono in funzione della musica. E’ la musica che costruisce effetti e suggestioni – attraverso l’uso anche spaziale dell’orchestra con strumenti posti a distanze differenti tra buca, scena e quinte o con la scelta di strumenti nuovi o particolari – e che è sempre protagonista. In questo senso non si può dire che Berlioz intende semplicemente riprendere Gluck e la sua riforma (scrive l’autore: “ciò che è immensamente difficile è trovare la forma musicale, quella forma senza cui la musica non esiste, o non è altro che la schiava umiliata della parola. Questo è il crimine di Wagner: vorrebbe detronizzare la musica, ridurla ad accenti espressivi, esagerando il sistema di Gluck (il quale, per fortuna, non è riuscito a mettere in pratica la propria empia teoria”). A metà dell’800, in Francia, l’unico modello possibile a cui riferirsi resta il grand-opéra: era il genere principe a Parigi. E Berlioz non fa eccezione: certo è un riferimento critico, ma nella partitura si respira anche quell’aria. Come si respira Spontini o la vecchia tragedie lyrique o il retaggio di reminiscenze settecentesche. Ovviamente questo non basta a fare dei Troyens un grand-opéra senza melodia (come sostengono i suoi detrattori): manca non solo la struttura formale, infatti, ma anche il rapporto singolo/affresco storico, le bellurie vocali all’italiana, l’effettismo, la componente politica (qui sostituita dal fato virgiliano) e quello storicismo un po’ di genere che caratterizza le creazioni di Meyerbeer e seguaci. L’ambizione di Berlioz è diversa: è la Storia e la sua celebrazione. Les Troyens, in fondo, appaiono come un’immensa divagazione romantica, guidata solo da creatività e ispirazione. Un’opera visionaria e immaginifica in cui ogni mezzo viene utilizzato senza senso della misura e della moderazione (si pensi al finale originale con l’apparizione di Iride e della Musa della Storia e il corteo dei grandi Romani, poi opportunamente ridotto all’attuale, anche su consiglio dell’amica Viardot). L’Arte per l’Arte, nella sua forma più pura. E più libera. Molto si può dire e scrivere su Berlioz e su Les Troyens (e rimando per questo ad un futuro approfondimento), ma incombe la cronaca: l’8 di aprile a Milano la produzione kolossal di David McVicar per la ROH è arrivata alla Scala. Esito trionfale (anche se in una sala tutt’altro che esaurita: complice l’orario infelice e il rigetto melomaniaco di ciò che esuli dal più classico repertorio italiano, oltre al consueto parterre più o meno turistico – ma le gallerie erano abbastanza piene). Va detto. Ma non sono mancati elementi di criticità. Se lo spettacolo suggestivo e grandioso ha convinto senza riserve (a dimostrazione che si può fare regia – e grande teatro – senza stravolgere nulla), è il cast a presentare aspetti più che discutibili. Non certo la superba bacchetta di Antonio Pappano che – profondo conoscitore di un’opera complessa e impegnativa come poche altre – fa suonare l’orchestra in modo eccellente: dal velluto sonoro che crea nei momenti più lirici, all’incisività “morbida” della prima parte (in cui gli effetti di spazialità dei cortei e della marcia troiana, vengono raggiunti con spettacolare virtuosismo) cogliendone perfettamente la cifra stilistica che non può e non deve ricalcare la tragedie-lyrique di stampo gluckiano, né può esaltare il dramma come se si trattasse di un melodramma tradizionale o di un’opera a cabaletta di stampo italiano. Dai ricchi soli strumentali (splendido il canto desolato del clarinetto durante l’apparizione di Andromaque) all’abbandono malinconico nei divertissement e nelle pantomime. Emblematico l’intero quarto atto, a partire dalla Chasse royale et Orage, sino al notturno del duetto d’amore (fonte diretta di ispirazione dell’altro gigante della musica francese: Offenbach, nella barcarole dei Contes d’Hoffman): un “concerto” in cui l’orchestra scaligera finalmente suona in modo esemplare. I cantanti purtroppo non erano all’altezza del direttore e della musica di Berlioz: l’unico ad avere senso di fraseggio e musicalità (pur con un mezzo ormai usurato) è Gregory Kunde che – con qualche incidente di percorso – affronta ancorala gravosa parte Énée: la voce è ormai spezzata in due e la sicurezza di un tempo nella salita agli acuti è ormai in disarmo, tuttavia crea un vero personaggio (più lirico che eroico) e, pur a sprazzi, regala momenti suggestivi. Molto male le due protagoniste: Anna Caterina Antonacci (Cassandre) e Daniela Barcellona (Didon) non vengono a capo delle rispettive parti. Sulla prima pesa una parte ormai troppo bassa e aspra che dovrebbe risolversi nel declamato e che troppo spesso, invece, è resa col ricorso al puro “parlato”. La seconda invece, preoccupata a gestire il volume della voce, rivela sin dal principio problemi di fiato e incespica sulle figure ornamentali (eppure il canto di Didon è quello più mutuato da stilemi “belcantisti”). Personalmente ho trovato improponibili il Chorèbe di Fabio Capitanucci, grossolano e poco intonato e l’Anna di Maria Radner, dall’organizzazione vocale da rivedere; discreto il Narbal di Giacomo Prestia e l’Hylas di Paolo Fanale; deludente lo Iopas di Shalva Mukeria, in difficoltà nel suo assolo (faticoso, schiacciato, incerto nell’intonazione e in odor di falsetto negli acuti), vero è che la parte – pur breve – è molto impegnativa (come il Ruodi del Guillaume Tell), e l’emozione può aver giocato a sfavore, ma da un tenore che veste il ruolo di protagonista in Sonnambula e Puritani, mi aspettavo molto di più. Accettabili gli altri. Ora lascio la parola al mio compagno di ascolto, il collega tenore Domenico Donzelli.

Gilbert-Louis Duprez

Non ho, per questo repertorio dell’epoca  del secondo Bonaparte,  l’amore e la conoscenza, che  vanta Duprez. Dovendo scegliere un cosiddetto “polpettone” preferisco, se francese, Profeta o Ugonotti, se italiano, Forza o Gioconda. De gustibus. Sono un po’pallesco. Associo, invece, Berlioz ai Piagnoni. E si che Berlioz e il suo operone (non uso apposta l’accrescitivo “drammone” perché di dramma inteso nel senso etimologico ne vediamo pochissimo) non racconta gli accadimenti li canta o, soprattutto nei Troiani a Cartagine, li celebra e contempla, come accade nell’opera belcantista.

Inoltre delle due opere trovo che la presa di Troia appartenga al melodramma nel senso più generale del termine con una cospicua carica teatrale, i debiti colpi di teatro, mentre i Troiani a Cartagine potrebbero ben essere una sorta di cantata scenica con ampi interludi sinfonici. Non accade nulla. Basta pensare che l’esplosione dell’amore o la fine dello stesso sono concentrati (ridotti?) in poche battute, mentre largo spazio ne ha la celebrazione, quasi rapsodica. In questo senso la seconda parte è quanto di più classico possa esserci. Declinazione peculiare del classico.

La premessa ha, nel valutare lo spettacolo o meglio la direzione d’orchestra, che segnava i debutto di Pappano in Scala, una sua ben precisa rilevanza. Nei brani drammatici, di azione, insomma in quelli che sono tipici dell’opera  la direzione è apparsa inesistente (tralascio la concertazione perchè certi cantanti, come quelli messi in campo dalla Scala, non consentono tale seconda estrinsecazione dell’arte direttoriale) mi riferisco  al coro iniziale staccato a tempo molto veloce dove l’orchestra era piuttosto acida e secca, al duetto Cassandra – Corebo (ma qui la tara erano i cantanti) all’insignificante scena di Enea con la prima apparizione quella di Ettore piuttosto fragorosa e scarsamente tragica (all’orizzonte è già fuoco e rumore “d’armi e d’armati”) e soprattutto al grande quadro finale con il sacrificio delle donne troiane, privo del vero fuoco sacro della protagonista e con un inno finale staccato a tempo veloce e sonorità identiche dall’inizio alla fine quasi elidendo il climax della follia autodistruttiva, che è la caratteristica di questa sezione –bellissima- dell’opera.

Alla presa di Troia le cose sono andate molto bene in orchestra nei momenti “contemplativi” ovvero la pantomina con l’ingresso di Andromaca ed Astianatte e il seguente ottetto, momento di sospensione e dove i personaggi “si cantano addosso” nel turbine dei propri sentimenti o presagi.

La situazione si è ripresentata identica nella seconda parte con la propizia situazione che i momenti di azione non esistono o sono ridotti all’osso e che addirittura l’intero quarto atto è una specie di cantata sinfonica dell’amore fra i due personaggi.  Quale sia passo che si scelga l’introduzione del terzo atto, la presentazione dei lavoratori artefici della costruzione di Cartagine, la Marcia (n° 26) e in blocco il quarto atto il controllo sull’orchestra è assoluto, la qualità delle singole sezioni notevole lo stacco e le sonorità prive di eccesso pompier (che pure in Berlioz non è estraneo), ma morbido, elegante,  dolce, sfumato. Più elegiaco che epico il che con la fonte  di ispirazione un poco confliggerebbe. Si potrebbe anche dire che colori e dinamiche erano di questa qualità nei  duetti Anna-Didone, Anna-Narbal e nel famoso “nuit d’ivresse”. Solo che c’erano i cantanti ed entriamo nelle dolenti note. Come pure infelice anche per colpa dei cantanti e della realizzazione scenica l’episodio delle due sentinelle, malcantate da Guillermo Bussolini e Aberto Rota.

Molto dolenti per quanto riguarda le due protagoniste femminili Anna Caterina Antonacci (Cassandra) e Daniela Barcellona (Didone) entrambe tecnicamente impari al canto, la prima più usurata, la seconda ben più dotata in natura, ma meno musicale. Altro non aggiungo, ma negli ascolti propongo Rose Caron, Lucienne Breval, Felia Litvinne per esemplificare che declamare non significa parlare. Tanto meno il parlato equivale ad interpretazione. Mai, poi, urlare (finale del duetto con Corebo, incitazione al suicidio alle vergini e donne troiane per l’Antonacci, la sortita e la morte per la Barcellona) può essere uno mezzo di interpretazione. Non ci siamo accorti che ci fosse in scena Ascanio in cartellone rispondente al nome di Paola Gardina e davvero impresentabile Maria Radner, soprano afono e corto nel ruolo contralteggiante di Anna cui sono affidati spunti melodici notevoli. Per la cronaca Ascanio ed Anna Sono prime parti e non comprimariato.

Apparentemente, ripeto, apparentemente le cose sono andate meglio con Kunde prossimo ai sessant’anni, a condizione di cantare forte e nella quinta che sta fra il mi3 ed il la acuto e senza obbligo di legare. Sotto la voce è opaca e sorda ed i tentativi di addolcire ed ammorbidire non sfociano neppure in falsetti, ma in suoni duri, afoni opachi. Con queste premesse e la compagnia di Daniela Barcellona il “nuit d’ivresse” ben poco aveva del canto, anzi dell’inno d’amore. Stento anche a trovare l’idea di un personaggio in mezzo a tanta bolsaggine vocale.

Opere come i Troiani si reggono non solo sui protagonisti , ma su una pletora di parti che –ripeto- non sono secondarie chiamate a numeri solistici, duetti o ensamble. Presenze e nulla più Luperi e la Zilio, entrambi in età assai prossima a quella dei personaggi, che portavano in scena. Pessimo per intonazione, mancanza di legato e suono ingolato il Corebo di Fabio Capitanucci, ingolato ma di cospicuo volume e voce quasi di basso per colore il  Narbal di Giacomo Prestia. Poi il problema dei due “cantori” Mukeria nell’acutissima parte di Jopas e Paolo Fanale in quella di Hylas assai più centrale ed agevole. Ho trovato la voce di Mukeria molto sonora e penetrante, una gran facilità a mutare sonorità ed a flettere la voce, che certo è costruita come sempre accade ai cosiddetti contraltini salvo che non gridino per qualche anno per dote naturale. Insignificante nella parte centrale di Hylas Paolo Fanale.

Domenico Donzelli

Gli ascolti:

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16 pensieri su “Les Troyens alla Scala

  1. Beh che dire… fatta la tara dei cantanti, sui quali la pensate più o meno allo stesso modo, eccezion fatta per Mukeria, due recensioni piuttosto differenti.
    Sono ancora più curioso di assistere a questi Troiani…
    Anche perché è un evento al di fuori degli usi musicali scaligeri.

  2. Comunque non è vero che i “contraltini” siano voci “costruite”, e non capisco perché venga addotto questo argomento, per giustificare cosa. L’imposto è lo stesso in tutte le voci, non ci sono voci più o meno costruite. Ogni cantante deve cantare secondo la propria natura. E indice di qualità del canto è la sua naturalezza.

  3. Qualche annotazione breve breve. Come grandissima Didon mi piacerebbe fosse ricordata anche Josephine Veasey, indimenticabile protagonista della prima incisione di Colin Davis. Per quanto rigurda il romanticismo di Berlioz, sarei poi un po’ più cauto di Duprez. A Berlioz mancò sempre l’immediatezza sorgiva del canto propria dei grandi romantici, presente nel romanticismo aurorale di Schubert, in quello maturo di Schumann, in quello finale di Wagner o Brahms, nella fase matura di Verdi. Berlioz, sulla scorta di un’indicazione di Fedele D’Amico, è un po’ sempre musica al quadrato, musica che o mette in scena una certa capacità di attore, come nella Fantastica, o immagina pubblici oceanici, come nelle grandi opere corali, o si propone come evasione assoluta, come nei Troiani. Inoltre l’attenzione al suono, al particolare singolo, alla melodia che perde senso priva delle veste orchestrale, la rende molto prossima al decadentismo. In ultimo. Non mi pare che Berlioz abbia poi eliminato le forme chiuse e le convenzioni operistiche. I Troiani ne sono pieni. Berlioz ha chiuso la carriera con Béatrice et Bénedict, opera bellissima e che adotta tutte le convenzioni possibili e immaginabili dell’Opéra Comique. Questo vorrà pur dire qualcosa.
    Marco Ninci

  4. Caro Marco, premesso che le categorie lasciano spesso il tempo che trovano, la mia definizione di Berlioz come unico vero compositore “romantico”, non è tanto relativa allo stile musicale (che comunque andrebbe individuato) quanto all’approccio dell’artista creatore. Le forme non vengono eliminate, ma ricreate rivissute ripensate. Con l’unica guida della propria ispirazione.

  5. Fa abbastanza pensare che ci sia una quantità sterminata di interventi per dichiarare, per l’ennesima volta, che la Bartoli o Kaufmann incarnano il grado più basso del canto e invece gli interventi si contino, letteralmente, sulle dita di una mano per discutere di quello straordinario capolavoro che sono “I Troiani”.

    • Ciao Marco, ho visto con interesse questi Troiani, ho ammirato la complessità dell’opera e la spettacolarità dell’allestimento, ma non sono uscita dal teatro convertita al capolavoro di Berlioz, piuttosto, basita dal livello dei cantanti ascoltati.

      Ho trovato tutto il cast pessimo. In assoluto la peggiore l’Antonacci – osannata dal pubblico, forse, per essersi animatamente rotolata sul pavimento con una gestualità da attrice del muto – dal canto sconnesso e completamente spoggiato, urla al posto degli acuti, arrivata alla fine della presa di Troia senza un filo di voce, accennando come se si fosse trovata ad una prova di regia. Anche a me, il migliore in scena è parso Kunde che, nonostante l’usura della voce, le vistose stonature, gli strangolamenti vari, ha sfoggiato musicalità, fraseggio ed alcuni acuti brillanti. Noiosissima la Barcellona, senza mai l’accento giusto, priva di gusto, poco musicale, calante nelle discese. Su Mukeria la penso come Duprez, la voce era squillante ma poco naturale, messa nel naso, schiacciata, gli acuti spinti. Capitanucci e la Radner con vistosissimi problemi d’intonazione, uno dalla voce opaca e l’altra caprina, ingolatissimo Prestia. Degli altri non saprei, neppure mi ricordo.

      L’orchestra ha suonato molto meglio del solito, a tratti benissimo come nel 4° atto, gli ottoni nella presa di Troia e nel finale del 5° atto sono riusciti a “spernacchiare” qua e là. Piuttosto bene la direzione di Pappano che ha sfoggiato un suono compatto, prevalentemente lirico, ma anche un po’ convenzionale, aderente ad un romanticismo poco appassionato e molto di maniera, seppure tendenzialmente bello e che, ben assecondato dalle suggestioni dell’ allestimento, ha reso la durata dello spettacolo piacevolmente sostenibile.

      Se il canto nell’opera è un accessorio allora va bene così.

      • Olivia cara,
        Abbiam visto lo spettacolo in due
        differenti date, ma da quel che scrivi
        comprendo che il risultato globale non
        e’ cambiato. Sono d’accordo su tutto
        cio’ che hai postato. E questa volta,
        la gente non ha neppure dovuto
        rivolgersi al proprio analista per capire
        il significato della realizzazione scenica.
        La tua descrizione la trovo concisa ed
        i n e c c e p i b i l e. Un abbraccio.

  6. Vivaverdi
    Sono d’accordo con Duprez circa la definizione di capolavoro riguardo l’opera di Berlioz. Però è vero che è difficilmente catalogabile. Da almeno 30 anni sono affascinato da quest’opera. Trovo poi che la prima (La presa di Troia) sia davvero un grande lavoro. Ma tutte le due opere sono, secondo me,la creazione di un grande visionario. Forse è per questa ragione che, pur apprezzando la bellezza in se dell’allestimento del Covent Garden, non sono molto d’accordo sullo spostamento al 2° impero per quanto riguarda La presa di Troia. Trovo che tolga molto del senso del mito un ambientazione così precisa e connotata. Comunque sono mie impressioni. Lo spettacolo resta comunque, a mio parere, notevole.
    Il disastro sono i cantanti, salvo parzialmente Kunde. L’Antonacci arriva alla fine che non ha più voce, non parliamo di Capitanucci, un orrore:uno che canta così non dovrebbe mettere piede su un palcoscenico. La Barcellona poi mi pare che abbia perso tutti gli armonici, il volume si è molto ridotto, gli unici due acuti che ha nella prima aria sono calanti e Pappano cerca di coprirli facendo un gran baccano nell’orchestra. Gli altri…insomma cercano di cavarsela.
    Ho visto 2 repliche più la prova generale e il risultato è sempre stato uguale.
    Ho avuto anche l’impressione che Pappano ieri sera spingesse di più sui volumi e l’orchestra era un po’ più rumorosa.
    Certo la serata rimane impegnativa. Però che grande Opera!!
    Ma l’Antonacci che è sempre stata una che ha fatto finta di cantare (sostenuta come al solito dalla critica che la definisce una grande attrice) è veramente impossibile ormai. Ma sembra che al Covent Garden stravedano per lei.
    Voi grisini però stavolta siete stati molto buoni, forse perchè lo spettacolo questa volta era comunque eccellente e finalmente da grande teatro. Complimeti e tanto di cappello per la denuncia che avete fatto circa la furbata di questo Pereira. Che vergogna! Ma tutto finirà a tarallucci e vino, come qualcuno ha già commentato. Questa è l’Italia…ma anche l’Austria a quanto pare….
    Saluti

  7. ho sempre avuto un rapporto difficile con la musica di Berlioz, mi ha sempre affascinato e nello stesso momento ho sempre fatto una gran fatica inpossessarmene. Compositore complesso, difficile anche eccessivo e discontinuo ma un genio assoluto. Ho tutto di Berlioz, come forse di nessun altro compositore, perchè tutto ho voluto ascoltare e cercato di capire. La prima folgorazione è stata per La mort de Cléopatre, poi il Cellini, Faust e via cosi. Nel 2002 sono andato a Firenze per assistere a Le Troyens curioso di fare un bagno di 5 ore e passa di musica. Spettacolo tutt’altro che perfetto, cantanti censurabilissimi ma lo ricordo come una delle serate più straordinarie della mia vita, la bellezza del capolavoro di Berlioz mi aveva letteralmente soggiogato. “La Prise” iniziava nel pomeriggio, poi una lunga pausa e si riprendeva alla sera con “Les Troyens à Carthage”, alla fine del primo spettacolo avevo le lacrime agli occhi. Peccato davvero non si sia reso giustizia a una tale musica.

  8. Monsieur Pappano su Classic Voice di questo mese ha rivelato a Mattioli (genuflesso come non mai, anzi anche più del solito) che nel 2015 ha in cantiere un’Aida di studio con Kaufmann e la Harteros… Rabbrividiamo…

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