Leggere e tradurre i giornali II. Leggere, pensare e…comparare.

Deutsche Zeitungen in NordamerikaAd una prima e superficiale lettura poco o nulla hanno in comune i due pezzi di quotidiano stranieri, che proponiamo ai nostri lettori per esercitare la mente in questa domenica di pausa dall’estate. Da un lato Mr Gelb, che trae conclusioni, se non catastrofiche, quasi riguardo lo stato attuale dell’opera e dall’altro la notizia, che, grazie alla caritatevole generosità ambrosiana, gli sciali di herr Pereira in Salisburgo sarebbero stati ripianati. Poi a leggere bene e con cura vediamo che il festival austriaco, reputato il più prestigioso delle estati musicale (anche se alcuni dei “grisini” da almeno un trentennio ossia non da ieri dubitano della communis opinio) starebbe ponendo in essere una politica di riduzione degli spettacoli, di riproposizione di precedenti produzioni, ufficialmente per contenere i costi, non dover assumere nuovi dipendenti cui non sembrerebbe essere certo di garantire il futuro non immediato. E qui arriva la comunanza fra lo stato del teatro di New York il cui direttore dichiara di avere perseguito tutte le vie possibili per sostentare, implementare ed infine salvare da risultati prefallimentari e quello austriaco, che sembra applicare il principio “prevenire è meglio che reprimere”, perché fra le righe appare chiaro anche lo stato del festival di Salisburgo calo di pubblico calo di interesse, difficoltà di proporre spettacoli ed artisti che garantiscano il livello (quello per noi -ripetiamo- perso da molti e molti lustri) il che accomuna le due famose istituzioni.
Gelb appare ben più chiaro i tentativi di teatro di regia, che viene ritenuto la panacea di tutti i guai canori negli Usa (neppure nella più acculturata mela) attecchisce, gli altri non lo dicono, ma essendo Salisburgo da tempo feudo di questa ultronea e depravata modalità di allestire l’opera, le scelte programmate sono sulla medesima lunghezza d’onda di quelle nordamericane, ispirate dagli stessi dubbi. Frau Rabl Stadler sintetizza il tutto con la frase “non viviamo sopra le nuvole”.
Insomma tanto per ripetere concetti già esposti e disaminati da tempo la tecnologia, elementi assolutamente estranei al teatro d’opera non sono in grado di garantirgli la sopravvivenza rappresentata in principalità dalla conquista di un nuovo e più giovane pubblico. Quasi superficiale dire che se ritornassero in scena le voci, le grandi efficienti bacchette il pubblico tornerebbe a riempire le sale ad applaudire e a pagare i biglietti. Detto una volta per tutte troppo costosi in epoca di soffocante congiuntura economica, perché la Muzio al Met durante la crisi del 1929 e subito dopo si correva, comunque, ad applaudirla e le stagioni dei massimi teatri italiani sfidavano impavide il razionamento bellico ed i bombardamenti.
E tutto questo serve solo a far vedere che qualche grisino conosce bene inglese e tedesco ed è così a “ la page” da far rassegna stampa con fonti straniere?
Spiacenti è ben altro il motivo, che ci impone questa pubblicazione; risiede nel fatto che, a conti fatti, se il massimo teatro milanese può permettersi il lusso di far beneficienza ad istituzioni stabili in nazioni ben più solide, oculate ed oneste nell’utilizzo di pubblico finanziamento e di sponsorizzazioni, significa che l’ambrosiana istituzione ad onta della penosa situazione del Paese dispone ancora di copiosi mezzi, frutto della pubblica generosità, che obla in nome della fama del teatro milanese e che consente a chi dirige e presiede lo stesso teatro di largheggiare in un’epoca in cui largheggiare è folle e, prima ancora, immorale. Come immorale, facilone e disonesto dire quando non per propri meriti, ma per altrui generosità, sopravvivenza della fama (rappresentata anche e non solo dalla competenza del pubblico che talvolta dissente dal prono coro dei laudatores) la cassa sia ben piena che il teatro rischi perché ci sono i cattivi, che contestano e fischiano. Togliamo, censuriamo ed emarginiamo i cattivi, esponiamoli alla berlina ed avremo aggiunto alla cura per la malata lirica un farmaco letale, che, inesorato, accelererà quell’esito esiziale, che più oculati od onesti Mr Gelb e Frau Rabl Stadler hanno preconizzato. Su quest’ultimo funesto presagio vogliamo ancora illuderci e lottare.
( Ringrazio frau Kurz, la regina del trillo, per la collaborazione al lavoro di traduzione )

IL Metropolitan di P. Gelb “sull’orlo del precipizio”

(http://www.theguardian.com/music/2014/jun/06/new-york-met-opera-house-edge-precipice)

La lirica sta morendo a causa dell’ invecchiamento del pubblico, dice Peter Gelb general manager di uno dei più grandi teatri d’opera del mondo, il Met di New York. Il teatro da 3800 posti a sedere sta combattendo su vari fronti una battaglia persa, e fa intravedere lo spettro della bancarotta nel giro di 3 anni, afferma Gelb, e crede che la crisi del Met debba essere un monito per altri grandi teatri. Il conflitto con i sindacati che dura da anni è solo uno dei tanti problemi.
Gli incassi non si sono incrementati mentre l’occupazione dei posti in sala è scesa all’80% nell’ultima stagione, mentre i costi si sono alzati: l’opera ha recentemente speso $ 169.000 nello spettacolare campo di papaveri allestito per la nuova produzione del Principe Igor di Borodin. L’innovazione maggiormente vantata del Met, quella del live HD nei cinema, copiata da altri teatri d’opera nel mondo incluso il Covent Garden di Londra, è piuttosto un “extra” per un pubblico esistente ed in calo, afferma Gelb, che non mezzo di creazione di uno nuovo.
“Ciò che abbiamo fatto, in realtà, è ampliare la vita dello spettatore d’opera. Negli Usa il 75% del pubblico dei cinema è over 65 e più. E il 30% è di over 75. Queste persone che sono così vecchie da non poter andare al Met, a teatro, o altrove.
L’avviso di Gelb non potrebbe essere più duro, ma la sua analisi è respinta dal Alex Beard, capo esecutivo del Covent Garden.” Non voglio polemizzare con il Met, ma questo stato di cose è assai distante dalla nostra esperienza. L’opera va alla grande. Da sempre l’amore, la morte, la nostalgia e la disperazione sono parte della nostra esperienza di vita, e la gente vuole ascoltare grandi storie che parlano attraverso la musica, l’opera ha un futuro” dice. Beard dice che le produzioni sono esaurite, con recite nelle stagioni dei cinema spesso ancor più esaurite. Afferma che al Covent Garden la composizione degli acquirenti dei biglietti sta cambiando, ed è convinto che i live nei cinema, per i quali saranno introdotti biglietti per studenti nella prossima stagione, aiuteranno nella formazione di un nuovo pubblico, come altre iniziative presso le università, formule per giovani etc…. “ Dovremo accogliere i giovani frequentatori d’opera alla loro prima volta a teatro, ma anche pensionati alla loro prima volta a teatro” afferma. “Non solo al Covent Garden. English National Opera sta avendo una stagione di crescita, come altre compagnie e teatri d’opera. John Berry, direttore artistico alla ENO, rifiuta l’analisi negativa di Gelb. “ Noi stiamo avendo una stagione impressionante, il nostro pubblico non sta morendo, anzi è sempre più giovane”.

Comunque i problemi di Gelb al Met sono reali. Entro la fine di luglio deve incontrare le 16 unioni sindacali che rappresentano i lavoratori del Met per scongiurare ogni forma di intoppo,dato anche il clima di acrimonia che ha circondato le trattative prima degli incontri iniziali del 5 maggio. Gelb afferma di non avere aspettative che la vicenda si risolva prima del 31 luglio, e che si potrebbe andare oltre.” La battaglia che deve essere vinta è quella esistenziale. Se non siamo in grado di creare un modello maggiormente sostenibile per questo business, sappiamo che andremo incontro alla bancarotta nei prossimi due o tre anni”.
Come è possibile che il teatro più grande, ricco e forse anche di maggior successo del mondo sia ridotto a quello che Gelb definisce “ il bordo del precipizio “? Stando ai sindacati è tutta colpa di Gelb: Alan Gordon, direttore esecutivo della American Guild of Musical Artists, uno dei principali sindacati del Met, rappresentante dei membri del coro e dello staff di produzione, afferma che Gelb spende troppo, specialmente per quelle nuove produzioni che non sono supportate dalla vendita dei biglietti e le produzioni HD che cannibalizzano il pubblico in sala, avrebbe reso il Met finanziariamente insostenibile.
Non sorprende che questa posizione venga contraddetta dalle cifre stesse del Met, che mostrano come 200 dei 300 milioni di dollari annui vengano assorbiti da stipendi e benefits dei dipendenti. “Anche se sono stato il peggior manager del mondo”, afferma Gelb,” noi dobbiamo comunque salvare loro”.
Ha pure sottolineato l’estrema cautela con la quale avrebbe speso i soldi per le nuove produzioni del Met – difendendo il campo di papaveri da $169.000 come giusto valore per un elemento scenico spettacolare che riempiva l’intera scena per tutta l’opera. I musicisti del Met guadagnano assai più di ogni loro altro equivalente inglese, un corista percepisce circa $ 200.000 all’anno. I loro contratti, stando a Gelb, garantiscono che vengano pagati anche quando non lavorano. I finanziamenti da altre fonti sono in calo – il nucleo delle sovvenzioni del Met proviene da donazioni e non vi è virtualmente alcun finanziamento pubblico per il Met, come per nessun altro teatro americano.
Le broadcast HD che interessano 2000 cinema in 66 paesi in ogni continente sono la più famosa innovazione di Gelb. Ha ispirato altri teatri a stendere una programmazione analoga, che potrebbe essere maggiormente incisiva ,consentendo a più persone di far parte di una esperienza lirica che forse diverrà anche una nuova forma d’arte ibrida, tra opera e cinema. Ed invece, anzichè celebrare l’esistenza di un nuovo pubblico, Gelb afferma di aver “catturato un pubblico già esistente. Ci sono centinaia di migliaia, forse milioni, di persone che amano l’opera la fuori. Ma stanno via via diminuendo”.
Recenti ricerche sono dalla sua: un report della English Touring Opera afferma che il pubblico dell’opera nei cinema conosce già l’opera ed ama questa forma d’arte. Ed il fatto che i dati di affluenza del Met siano sotto l’80% dell’ occupazione dei posti avvalora l’asserzione di Gelb che “ non c’è un pubblico nuovo che rimpiazzi il vecchio. Non è un segreto che la frequenza di chi va all’opera sia in calo negli USA”.
Nonostante la sua mission, da quando Gelb ha preso in mano la gestione del Met nel 2006 per rinvigorirne lo stile, per connettersi ai giovani, per rendere l’opera rilevante nella vita della gente, non ha ottenuto risultati al botteghino. Anche la chiusura della New York City opera – un disastro per i melomani – non ha fatto aumentare le affluenze al botteghino.
I critici affermano che Gelb potrebbe fare di più per rendere il Met più attraente per il pubblico nuovo e più giovane.
Ma Gelb vede una questione culturale più profonda alla base del problema: “L’opera dove viene insegnata nelle scuole pubbliche ? non so in quale luogo, certo non in America. Nel resto del mondo questo è diffuso. I bambini sono presi dai maghi della tecnologia etc.. Come educarli ad amare l’opera, che dura tre quattro ore in una lingua straniera? Da tempo il governo non è interessato all’educazione artistica, penso che siamo in una situazione “catch 22″. Come possiamo sperare di creare nuovo pubblico per questa forma d’arte se noi non vi introduciamo i bambini o non li educhiamo ad essa ?”

Come vanno gli altri teatri

Vienna State Opera
Box office: 98.8% occupancy; €33.1m income; 599,724 tickets sold
Annual running costs: €109m
Government grant: €58.7m
Private donations: €2m

Bavarian State Opera
Box office: 95.2%; €34.7m; 539,827
Annual running costs: €99.3m
Government grant: €61.8m
Private donations: €4.1m

La Scala
Box office: 95%; €32m; 425,000
Annual running costs: €115m
Government grant: €43m
Private donations: €34m

Royal Opera House
Box office: 95%; £37.1m
Annual running costs: £114.6m
Government grants: £27.4m
Private donations: £24m

Il festival di salisburgo post Pereira

(http://www.salzburg.com/nachrichten/spezial/festspiele/salzburger-festspiele/hinter-den-kulissen/sn/artikel/weniger-subventionen-fuer-weniger-festspiel-programm-109084 )

Meno sovvenzioni per meno programmazione del festival.

Il Festival di Salzburg sarà piu più piccolo dal 2015 ma percepirà più denaro pubblico.
Questo è il risultato di una riunione del consiglio di amministrazione del Festival.

Il 2014, l´ultimo anno di Pereira, è anno di nuovi record. “Non seguiremo la strada di Pereira però nel futuro“ dice Wilfried Haslauer. „Con una crescita`come avvenuta negli ultimi tre anni dovrebbero anche crescere le strutture. Con soli incrementi di orario lavorativo non lo si può fare, non si può crescere all´infinito”.
Nel 2015 avremo solo 173 recite invece di 223, ed il budget da 64,8 milioni di Euro scenderà a 58,9 Mio. I biglietti messi in vendita si ridurranno da 234.000 a 224.000. “Rinunceremo agli spazi più piccoli a favore di una maggior sinergia tra le grandi sale”, così Hauslauer…

Allontanarsi dalla via di Pereira
Il piu grande festival di musica classica si riduce anche sul piano artistico. “ Noi abbandoneremo il principio di Pereira di presentare soltanto nuove produzioni. Il suo principio non è finanziabile ” commenta Helga Rabl Stadler, Presidente del Festival. In futuro ci saranno soltanto 3 nuove produzioni di opera, tre riprese e tre opere in forma di concerto. Nel 2015 saranno Fidelio, Nozze di Figaro e la prima stesura dell ‘opera di Gyorgy Kurtag. Noi rappresenteremo opere del festival di Pentecoste in estate: perciò la Norma del 2013, grande successo, verrà ripresa nel 2015. Ed anche il Trovatore del 2014 tornerà nel 2015, dato anche l’overbooking di domande al botteghino per quest’anno. Solo la premiere avrebbe potuto essere venduta cinque volte”, dice la Rabl Stadler.
Il fatto che Pereira avrebbe fallito con la sua concezione tutta tesa alla crescita ed all’ingrandimento, non viene peraltro detto esplicitamente dalla Rabl Stadler e da Hauslauer…

Il Festival si deve rapportare alle sovvenzioni
Buone notizie per il festival giungono dal governo.E’ stato garantito per iscritto dal governo un incremento dei finanziamenti di 1 milione di euro. Ciò significa che il festival dal 2015 potrà contare su 2,5 milioni di euro. “La mano pubblica non ha più aumentato le sovvenzioni da 16 anni” dice Haslauer. Un grosso problema è che il festival paga più tasse dirette rispetto alle sovvenzioni che riceve. Perciò questo denaro più che una sovvenzione rappresenta in realtà, un investimento. Sarebbe una follia sul piano commerciale abbandonare un impresa redditizia come il festival” afferma Hauslauer, che rispetto all’impegno del governo ritiene che non si tratti di fondi una tantum.

“Non vivere sulla luna”
La Rabl Stadler ancora sulla responsabilità artistica ed economica del festival. “Io credo che sia stato capito che noi non viviamo nel mondo della luna e che comprendiamo la situazione economica generale. Il record di aver radunato 12 milioni di euro di sponsorizzazioni, che Pereira ed io abbiamo conseguito nel 2014, non si è fatto da solo. Nel 2015 credo che il massimo che potremo reperire saranno 9 milioni.”
La tanto discussa vendita delle scorse settimane di opere da parte Salisburgo alla Scala, dove Pereira sarà Sovrintendente dopo Salzburg, sembra affare fatto. In tutto viene calcolato 1,1 milioni di euro per 4 opere nei budgets del 2012, 2013 e 2014.

60 pensieri su “Leggere e tradurre i giornali II. Leggere, pensare e…comparare.

    • la scuola deve a mio avviso aprire le menti ai suoi studenti dare loro stimoli e spunti per crescere culturalmente. Giusto qualche sera or sono discutendo con un amico precisavo che se insegnassi letteratura italiana in un liceo per far comprendere l’estensione della poesia nell’800 proporrei o il testo di “casta diva” o del monologo di Beatrice davanti la statua di Facino Cane. Se poi tocchi alla scuola far conoscere l’opera ( e allora anche la cameristica, la sinfonica, la liederistica e perché non il folk) avanzo molti dubbi ad onta del fatto che il melodramma almeno dal 1825 in poi rappresenti per almeno mezzo secolo la peculiarità e, forse, senza essere crociani la più alta espressione artistica italiana. se posso dire la mia storia la passione (o mania) nacque grazie alla famiglia seppure non melomane, ma moderatamente appassionata di musica classica. Scuola MAI.

      • Concordo: la scuola deve far altro. Deve aprire la mente, dare gli strumenti culturali, ma non “insegnare” o “imporre” la passione o l’interesse per la musica. La storia della musica dovrebbe essere inserita nei programmi di letteratura o di storia. Ma da un paese che riduce al minimo l’insegnamento di Storia dell’arte alle superiori che cosa ci si aspetta?

  1. Non c’è dubbio che l’opera lirica, vale a dire la forma di spettacolo più straordinaria che l’occidente moderno abbia inventato, ha perso oggi centralità culturale: da ciò discende tutto il resto. Il motivo principale è dovuto all’incapacità – da almeno un secolo – di produrre opere in grado di recuperare un contatto con il pubblico. Cosa resa impossibile – come vien fatto di credere – non da situazioni oggettive ma da fattori estetici e ideologici contingenti su cui sarebbe ora troppo lungo discutere. Un dato di fatto è che con Berio, Nono, Stockhausen, Manzoni, etc. ci si annoia così tanto da produrre il fenomeno della rimozione: per il mondo reale si tratta di fenomeni inesistenti. A buona ragione.
    Secondariamente all’opera si va di meno perché le giovani generazioni non ne sospettano l’esistenza. Non esiste nei canali culturali e flussi informativi frequentati dai giovani. L’opera non è più presente nei media – parlo anche livello di semplice notizia o di banale comunicazione, di esposizione dei suoi protagonisti.
    Terzo: quand’anche se ne sospetti l’esistenza diventa difficile comunque accostarsi all’opera per semplici motivi di accessibilità finanziaria. Un biglietto di platea alla Scala costa più di 200 euro. Un posto scomodo di un teatro minore non meno di 40 50 euro. Stiamo scherzando?
    Quarto: i mass media, con ovviamente la tv ma anche il mondo informatico e digitale, ha notevolmente rincoglionito la popolazione, depotenziando le capacità di una fruizione estetica appena un minimo complessa.
    Che al declino contribuisca poi la modestia del livello interpretativo contemporaneo è fuori discussione. Ma non è solo uno dei fattori.

    • Noi andiamo controcorrente in tutto e per tutto . ascolti free, giovani che amano il canto, i 78 gg soprattutto, interesse culturale….eppure la maggioranza del pubblico va a teatro come si vede dai Face dei cantanti, ove la gente scrive solo bravissimo, stupendo, etc ma ignora tutto. No, il tema è più complesso

  2. Mah… a mio avviso, stiamo pagando le conseguenze di quindici anni di scelte finalizzate a divinizzare le gnocche e i fustacchioni, disinteressandosi della bravura vocale. Magari i giovani sono piú saggi di noi e pensano che spendere un centinaio di euro per vedere una bella donna o un bel palestrato sia una cifra eccessiva, quando sfogliando una rivista di moda o andando al cinema ne puoi trovare a volontá e a prezzo minore

  3. Quando andai alla Scala per l’Anna Bolena con la Caballè, mi aspettai di vedere uno spettacolo sontuoso…Grande delusione, le scene che resero celebre la callas erano di cartapesta…lo spettacolo era LEI.
    Ora mi riallaccio a Mozart, e dico: pompate le Garanca, le Fleming, i Kaufmann fin che volete, ma a parte gli ammiratori del “BELLO SCENICO” nulla trovate da raccontare ai vostri figli. Io sono vissuto con una tradizione familiare dell’ascolto dell’opera alla radio ( Lì fusti, gnocche e quant’altro non si vedono) ma le voci le distinguevo anche al buio. Caro Pasquale non occorre istituire scuole per insegnare che cosa? che il Kaufmann ha i ricciolini ?
    Vi ricordate del fisico di Pavarotti? o della Anita Cerquetti..No! ma la loro voce la ricorderete sempre….
    Purtroppo si è privilegiata una altra parte dell’opera e questa senza voci ….langue, langue e poi sarà zac!
    La lingua latina è vissuta fin che ci sono stati scrittori di peso e qualità..poi il lamguor l’assalì e fu tutti sanno come è finita..

  4. Il tema è davvero più complesso di quel che giornali, statistiche o rivendicazioni di nostalgici (perché è inutile nascondersi: noi siamo tutti dei nostalgici) lascerebbero intendere. I conti sono spietati e incontestabili: l’opera è un gioco molto costoso, la qualità è un miraggio neppure troppo inseguito, il pubblico è in calo quasi ovunque, la funzione culturale resta un’utopia. Non ha senso additare i colpevoli – veri o presunti – per poi scagliarsi contro di essi e contro la decadenza dei tempi, ma è opportuno chiedersi come si è arrivati a questa situazione. A mio giudizio il problema fondamentale è l’approccio populista e massificato degli ultimi decenni: l’opera per tutti, la cultura per tutti, la semplificazione, l’abbassamento degli standard e delle pretese per favorire l’immaginario accesso ad un pubblico più vasto e meno preparato…tutto ciò ha snaturato l’identità di una forma d’arte – non certo la più straordinaria (perché esiste anche altro), ma sicuramente tra le più nobili – che è necessariamente elitaria. Lo è sempre stata (tranne, forse, a metà ‘800, con la diffusione/invasione del melodramma). E non c’è nulla di male in questo. A furia di semplificare l’approccio, di inseguire al ribasso il già basso livello culturale del pubblico medio, si finisce con l’ottenere due effetti: allontanare l’ascoltatore più preparato ed esigente (che certamente non può vedersi propinare la solita minestra per decenni e con gli ingredienti sempre più scadenti) e banalizzare l’opera a spettacolo simil circense che attira comunque pochi neofiti. Rassegnamoci: la musica classica non avrà mai il bacino di fruizione del pop, sia in termini numerici che anagrafici. E’ inutile immaginare che schiere di ragazzini di 18 anni – magari istruiti dalla scuola (chissà in che modo poi) – si trasferiscano in massa dagli stadi o dai palazzetti per bussare alle porte di un teatro ed ascoltare 3 ore di Mozart! Così come sarebbe una follia immaginare che il pubblico tradizionale dell’opera vada a sbraitare allo stadio per ascoltare rock sparato da casse e chitarre distorte. Ogni genere ha il suo pubblico. E’ naturale. Innaturale è forzare il cambiamento o le conversioni, col risultato di scontentare un po’ tutti. Ecco perché trovo fastidiosa la retorica degli spettacoli di musica seria in prima serata, magari in contesti che ammiccano all’intrattenimento più volgare. La massificazione dell’opera è la causa principale della sua crisi. Non certo le case discografiche – da sempre bersaglio ingiustificato dell’ascoltatore più tradizionalista – che annaspano con l’opera e la classica e certamente non vendono dischi in maniera sufficiente a drogare il mercato (non si incide quasi più nulla e anche i fenomeni più commerciali – come la Bartoli o Domingo o Kaufmann – vendono in maniera incommensurabilmente inferiore rispetto al pop). La massificazione e la semplificazione hanno trasformato i teatri, soprattutto in Italia, in attrazioni per turisti che inseriscono l’Aida o il Barbiere di Siviglia alla Scala o all’Arena nel pacchetto del tour operator. Questo si riflette ovviamente sulle programmazioni, che inseguendo un botteghino illusorio, tendono ad assomigliarsi quasi tutte nella ricerca di repertori poco impegnativi oppure si rivolgono ai fan dei cantanti di giro che li seguono dappertutto. Idem per quanto riguarda i “gggiovani” che vanno a teatro per esibizionismo (come la squallida “primina” scaligera con consueto codazzo di giornalisti idioti che la celebrano con lo stesso entusiasmo dei vecchi cinegiornali di regime) e che passano più tempo a scattare foto con gli smartphone da condividere sui social che a capire quel che stanno ascoltando. E intanto i costi salgono, gli sponsor non bastano, lo stato paga (troppo) e nessuno è responsabile personalmente di deficit e fallimenti. Che fare dunque? Ripensare al teatro d’opera come forma d’arte e non come mero spettacolo. Ripensarlo come cultura: aperta a tutti, ma non per tutti. Rivedere il repertorio e non ostinarsi a proporre gli stessi titoli e gli stessi generi che piacciono sempre di meno. Abbattere i costi fissi che sono quelli che ammazzano il bilancio di ogni teatro (non certo le produzioni milionarie). Riorganizzare il teatro come spazio: il confronto tra teatri italiani e quelli europei (in particolare anglosassoni) è imbarazzante. Da noi non ci sono servizi di nessun genere (e i pochi che ci sono funzionano malissimo), permane un’assurda divisione classista degli interni (perché mai alla Scala chi sta in galleria non ha accesso al foyer e, ad esempio, al bookshop?). Infine ripensare alla politica di biglietteria, prenotazioni, promozioni: non ripeto quello che ho già scritto, ma si faccia un minimo confronto con la ROH e l’Opéra… Certo la soluzione migliore non è il “colpo di genio” avuto da Gelb – quella dell’opera al cinema – che è “miracolosamente” riuscita a svuotare la sala: e non poteva che essere così…chi spende 300 $ quando può spenderne 10 e starsene in un cinema con il suono digitale e le riprese cinematografiche? Non ci voleva un genio a capire che l’opera al cinema avrebbe reso poco in termini assoluti (la solita storia: il pubblico che va al cinema a vedere La Cenerentola non è lo stesso che riempie le sale per i Transformers) e avrebbe inciso negativamente sullo scarso numero di chi va a teatro.

    • Sottoscrivo in pieno l’ analisi di Duprez. Ricordo quello che disse Alfredo Kraus in una intervista del 1992 al Daily Telegraph: “Tanti anni fa nessuno usava la parola popolarità a riguardo dell’ opera. Questa è una folie de grandeur della democrazia. Questo è un ragionamento politico: se dai tutto alla gente, perché non anche la cultura? Io dico ok, ma stiamo attenti. Volgarizzandola non la si rende più popolare”.

  5. Mah, io credo semplicemente che il problema sia in sostanza politico. Dalla fine degli anni Ottanta un capitalismo sempre più sfrenato nei modelli consumistici che propone ha devastato a tutti i livelli la cultura. L’opera non fa eccezione. Anche se sembra che si tratti di cose lontane, la decadenza dell’interesse per l’opera, con la conseguente impossibilità di capirne il mondo, ha un’origine simile. Ma questa è una fase storica; quindi per definizione reversibile. Quando il modello politico, sociale ed economico che sta strangolando l’Europa e non soltanto l’Europa avrà mollato la presa (penso sarà abbastanza presto), la cultura e quella sua nobile espressione che è l’opera torneranno a risplendere. L’Italia degli anni Settanta, per esempio, pur tormentata dal terrorismo e dalla crisi petrolifera, aveva tuttavia in sé ancora una concezione alta della cultura. I teatri erano pieni di gente entusiasta, combattiva, rissosa, pronta a dividersi su tutto; in una parola, viva. Adesso sembra morta; ma non sarà per sempre.
    Marco Ninci

    • all’apparenza posso anche essere d’accordo, ma ritengo che negli anni settanta le basi per lo scempio e la distruzione fossero già state ben poste, anche se sentivamo (limitandoci all’opera) cose ancora interessanti. E qui la pianto perché sul punto con tanto di nomi e cognomi abbiamo già avuto motivo di discutere
      ciao

  6. comunque, è vero che forse bisogna pensare che ogni genere ha un suo bacino di utenza,come dice Duprez,anche se in realtà,ai limiti del “recinto” c’è un certo miscelamento,non è detto che chi piace l’opera o la musica classica non piace il pop,penso che Mozart su questo con me è d’accordo,dipende anche dal sistema per fare avvicinare un pubblico neofita ,e giovane alla musica classica( per l’opera il dicorso è un po piu complicato) un esempio qui a Torino l’anno scorso ,in piazza San Carlo ,per la rassegna di concerti dedicati a Beethoven,un grande successo di pubblico di tutte le eta tantissimi giovani,intere famiglie ( ne avevo riferito l’anno scorso in chat quando rientravo a casa dopo i concerti) un successo tale che quest’anno tra un mese viene replicato con musiche di Mozart ,qui c’è il programma http://www.seetorino.com/festival-mozart-torino/
    mi è rimasto in mente la sera del 7 settembre 2011 per MITO al
    Palasport Olimpico Isozaki dove c’ è stato il concerto” Le Sacre du Printemps di Igor Stravinsky e i Carmina Burana di Carl Orff”
    eravamo in quasi 7000,tantissimi giovani oltre ai “meno giovani ”
    quindi una politica di contenimento dei prezzi ( alla base del successo della rassegna MITO) e il modo di coivolgere facendo apparire queste rassegne un facendo parte della comunita della citta ..non una anicchia dove andare ad ascoltare.
    La scuola,beh mica deve essere un conservatorio per i bebe che cominciano a scrivere,ma almeno fare studiare la storia musicale del nostro paese ,i nostri compositori,provate a chiedere un ragazzo chi era Bellini,cadrà dalle nuvole,gia in tv nei programmi serali se si parla un po di opera ,dicono i soliti due nomi, Verdi,e Puccini,gli altri non esistono,ecco si cominci a insegnare ai bambini almeno il nostro passato musicale,e che siano fieri,perche quella è l’età che si forgia un persona,e ci si ricordi che nel mondo se conoscono che esiste la linqua italiana, e quando cantano le romanze e le opere italiane,odio dire certe cose,ma durante il ventennio ai bambini ( con molti sbagli ) veniva inculcato il concetto di essere fieri della nostra storia e del nostro essere come nazione,adesso per un ragazzo ad essere fiero è solo quello di avere un bel smartphone,parlare di quelli in mutante e magliette che tirano calci a un pallone guadagnando una barca di soldi,mentre gli stupidi in strada si picchiano,e se chiedi chi è Donizetti,ti rispondono ..in che squadra gioca?….mai sentito…

    • il problema è che se penso a tutti gli insegnanti di lettere che conosco, spesso miei coetanei, se chiedessi loro che è Donizetti o Jommelli, ma anche Hayez o Serpotta raglierebbero con alte grida!!!!

    • I concerti di Piazza San Carlo? Io sono sempre molto perplesso sul successo di eventi gratuti, vorrei vedere quante persone ci andrebbero se dovessero pagare anche solo 10 Euro di biglietto.

      Perchè bisogna anche dire che tanta gente si lamenta dei prezzi alti a teatro e poi magari spende la stessa somma senza problemi per vedere un concerto rock o addirittura una partita di calcio….

  7. Scusate, ma anche nell’università il modello è consumistico. Si scrivono cose che sia possibile citare senza che sia necessario leggerle. Fatte di tanti pezzettini slegati. Quando un testo, per essere compreso, ha invece bisogno di una lettura integrale, nessuno lo legge. Questa è decadenza culturale, è la stessa cosa della crisi dell’opera, è predominio dell’hic et nunc. E’ la citazione presente in internet, presa da Google. E’ l’improvvisa e inaspettata presenza di un vocabolo straniero, in genere inglese, in un discorso in italiano, senza che ce ne sia la minima necessità. E senza visione generale non esiste cultura, è sempre così.
    Marco Ninci

  8. I problemi, secondo me, sono sempre prima di tutto sociali, politici, economici. Quando la ricchezza diventa un valore volatile, istantaneo, sottratta ad ogni processo, nell’immaginario collettivo raggiungibile in attimo, la cultura segue. Diventa un abbellimento, un orpello personale, un’etichetta sociale, non esiste più se non nel suo riflesso soggettivo. Di qui l’aspetto fisico dei cantanti, di qui tanti ragisti dilettanti, di qui tante cose.
    Marco Ninci

  9. Per quanto si possa girare e rigirare la frittata: L’opera lirica era un fenomeno popolare, or non lo è più! Kaufmann potrà raddoppiare i ricciolini, Domingo potrà fare una terza carriera, ma la qualità è scaduta a livello insopportabile…e allora vi prego di spiegarmi una cosa: Perchè Lauri Volpi riempì l’Arena di Verona con gli Ugonotti, al punto di dover ricorrere alle Luci dell’esercito, (un’opera insolita ed ostica ancor oggi) e ne fece una esecuzione da sballo.

    • Non tutta l’opera è fenomeno popolare. E certamente l’Arena non è un posto da prendere a modello. Il problema è diverso: oggi – almeno da 40 anni – si è inseguita la fola della “cultura per tutti”. Il livello si è abbassato sempre di più per facilitare e semplificare. Cioè si è fatto il contrario di quel che si sarebbe dovuto fare: invece portare il pubblico alla musica classica (elevandolo ad una forma di cultura che necessita una certa preparazione e attenzione), si è preferito portare la musica classica al pubblico, abbassandone il livello sino a renderla apprezzabile a chiunque, anche a chi è musicalmente analfabeta. E così si arriva ai concerti di piazza, al Beethoven davanti a 7.000 persone, ai Carmina Burana canticchiati dal pubblico o ripresi sullo smartphone, al festival MiTo con il suo crossover da fighetti. Questo è un orrore. Sarebbe come se si smettesse di usare il congiuntivo (in romanzi e saggi) perché il grande pubblico ha difficoltà ad usarlo, e invece di educare la gente – interessata – al suo uso corretto, si impone per tutti l’infinito o l’indicativo presente…

  10. non sono d’accordo,ai concerti di piazza,dove ho testimonianza diretta il pubblico era ben attento,e preparato più di quando si creda,non è devono poi fare una recensione da musicologo,è chiaro che dipende anche della musica che si dà,musica complessa di certe sinfonie,è chiaro richiede preparazione,e un pubblico idoneo,ma è difficile che queste composizioni vengono esequite in piazza,la piazza bisogna concepirla come un filtro,chi vuole approfondire,perchè si prende la passione,andrà nei luoghi deputati come gli auditorium ecc. ..se ha i soldi

    • E’ qui il punto: non c’è bisogno di filtri, di piazze, di popolarizzare. Un concerto in piazza è e resta un orrore, perché all’aperto, davanti a migliaia di persone rumorose non si fa musica, si fa il circo. Chi vuole ascoltare Beethoven va già in auditorium o in teatro, non ha bisogno, prima, della piazza col panino e la birra…e magari un pianoforte amplificato e distorto. E chi va in piazza poi non va certo a teatro…manco sa chi è Beethoven (che conosce al massimo perché ha strimpellato “Per Elisa” su di un pianoforte scalcagnato al bar o a casa di un amico). Finché si crederà che portare la musica in basso serva a diffonderla, si otterrà solo la volgarizzazione della musica stessa, non l’elevazione del pubblico – che bestia è e bestia rimane! E poi finiamola con questa novena dei soldi…nessuno di noi è milionario, e ti assicuro che con 10 € vai ad ascoltare qualsiasi cosa. A chi si lamenta sempre che la musica classica costa, vorrei fare i conti in tasca e vedere quanto spende in partite di pallone, aperitivi, serate più o meno alcoliche, macchina, moto, sigarette, moda, telefonini, tablet etc… Sai quanto costa andare ad ascoltare una qualsiasi porcata pop o rock? Non meno di 60 € per stare assiepati in uno spazio maleodorante a 3 cm da gente con igiene personale scarsa, tra fumo di tabacco e droghe leggere, birra, rutti, flatulenze varie e orecchie sfondate da casse pompate oltre ogni norma di legge e buon senso. E nessuno si lamenta. Sai quanto costa andare in certi locali ad ascoltare DJ di nome? Almeno 50 € per passare una serata da impasticcati? Sai quanta gente va a concerti “alternativi” in centri sociali vestiti da barboni e con i bottiglioni di plastica riempiti di alcolici casalinghi per risparmiare, ma TUTTI con reflex da 3.000 € o tablet da 1.000 (perché se non sei Apple sei cheap)? Mi spiegate perché solo la musica classica dovrebbe essere gratuita? O la musica classica torna elitaria, così come la cultura e l’arte, oppure andrà tutto a catafascio. Ripeto, l’arte e la cultura devono essere aperte a tutti, ma non per tutti: non sono un diritto, ma una scelta consapevole. Qualche giorno fa doveva venire a Milano Zimerman – forse il massimo pianista vivente – non a suonare in piazza OVVIAMENTE, ma al Conservatorio e a prezzi più che abbordabili…credi abbia fatto il tutto esaurito? Macché!

  11. Duprez.io non sò che piazze frequenti ,ma ti assicuro che in piazza san Carlo non c’era niente di quello che tu scrivi,anzi tanta educazione,e poi sottovaluti il pubblico,i concerti sono stati molto seguiti ,proprio perchè c’era Bethoven, mai visto tante facce estasiate nell’ultima sera sull’ultimo movimento della 5 sinfonia,tanto che il maestro ha concesso il bis,serata indimenticabile

  12. Vedo che viene ricordata un’intervista di Alfredo Kraus al Daily Telegraph in cui si dice: “Tanti anni fa nessuno usava la parola popolarità a riguardo dell’ opera”. Non si può certo pretendere da Kraus, oltre al fatto di cantare bene, di avere letto Gramsci, che tra l’altro scrive ” (…) in Italia, oltre alla letteratura, non sono popolari neanche le arti figurative e sono popolari invece Verdi, Puccini, Mascagni, etc. ” Non c’è infatti dubbio che l’opera, in Italia, sia stata – perlomeno dal Verdi della “trilogia ( per l’appunto ) popolare” fino a metà del secolo scorso – un fenomeno popolare. L’affermarsi di egemonie culturali di altra specie ha prodotto la progressiva estinzione di tale fenomeno. E’ vero che è da un secolo a questa parte si parla di “morte dell’opera” ( è proprio vero che non c’è nulla di nuovo sotto il sole ) ma l’opera – a dispetto di tutto e tutti – è riuscita a sopravvivere ai suoi profeti di sventura. Io credo fermamente nella sua fenomenale vitalità. Educare all’ascolto dell’opera e della grande musica non significa, come è stato giustamente osservato, allestire baracconi e piazzate. In piazza si fa il circo: sacrosanto. Non vedo però dove quando e come si sia seguita – come detto sopra – la fola della cultura per tutti. A me sembra che la cultura per tutti – aspirazione semanticamente nebulosa ma tuttavia degna del massimo rispetto – non sia stata di certo una priorità perseguita perlomeno dalle nostre parti. Io ho notato piuttosto l’affermarsi della tendenza contraria: la cultura per nessuno e dunque solo per chi abbia – per motivi di elezione – possibilità di accedervi. Ed è chiaro che la cultura per tutti si diffonde solo predicando il rigore, lo studio e l’applicazione: non la semplificazione piazzaiola. Abreu e Abbado insegnano. Né credo che il neofita non vada all’opera perché Kaufmann canti senza appoggio, non usi correttamente la maschera e difetti spesso d’intonazione e di stile. Concetti che hanno un significato unicamente per chi già frequenta, con qualche cognizione, l’opera e che – magari mugugnando – continua tuttavia frequentarla. Concluderei invitando a non sottovalutare l’aspetto finanziario: sono convinto che i biglietti d’opera siano oggi troppo cari.

    • Quella che chiami “fola della cultura per tutti” è quanto si è programmaticamente imposto a partire dagli anni ’70… La cultura non solo aperta a tutti, ma diritto di tutti, o meglio alla portata di tutti. E qui sta l’errore, perché “abbassare il livello” (come si fa con i concerti in piazza, con l’Arena in TV, con le trasmissioni televisiva a mezza strada tra circo e intrattenimento, con i “cantanti lirici” presentati immancabilmente con eredi di Callas e Pavarotti e sbattuti in cose tipo Sanremo…) e favorire l’accesso ad ogni strato di pubblico significa uccidere una forma d’arte che richiede un minimo di volontà e preparazione. Paradossalmente la cultura “per nessuno” (ossia un minestrone indefinito di robaccia volgare e qualitativamente pessima) è il risultato della cultura alla portata di tutti. Ribadisco, comunque, che la cultura deve essere aperta a tutti quelli che vogliono fare un minimo sforzo per comprendere determinati linguaggi. Non si può abbassare il linguaggio sino al semianalfabetismo per correre incontro a gente che neppure si sforza di imparare qualcosa. Certo non è questione di tecnica, ma questione di etica. L’etica del ribasso: la nostra. Quanto all’aspetto finanziario…Gianmario, sai che alla Scala entri con 15 €? Che all’Auditorium assisti a splendidi concerti con 13 €? Che al Conservatorio stai sui 20 € (e con promozioni anche molto meno)? Che la Società del Quartetto vende a 5 € per gli under 26? E questo per restare a Milano….se andiamo che ne so, a Cremona i prezzi scendo ancora. Quindi non prendiamoci per i fondelli: non ci sono solo posti da 300 €…e chi dice di essere frenato dal costo del biglietto dice il falso. Ma poi mi spieghi perchè solo per la musica classica si deve pretendere di entrare gratis???

  13. insomma la scuola non serve,invitare la gente in piazza per ascoltare concerti,e un orrore,perche in piazza va bene giocare a bocce,come diceva il severo Toscanini,insomma per ascoltare musica classica bisogna appartenere a un elit di prescelti,non capisco di cosa,non penso che occorra una laurea in musica per poter accostarsi all’ascolto della musica colta,oltre a una buona dose di danaro,per esempio qui a Torino basta guardare gli opuscoli per vedere una numerosa programmazione di eventi musicali tra Regio ,auditorium ,Lingotto ,conservatorio ( nelle serate a pagamento) teatro Vittoria ecc ecc ..ottimo ,peccato che tra minimo 50 euro al Regio per le serate d’opera un 30 /40 al Lingotto,20 euro ,da un altra parte,25 da un altra parte e 10 da un altra parte ancora,e continuando cosi,se una persona è assidua nell’andare a tutti questi eventi ,e a questo bisogna abbinare il fatto di essere ” all’altezza ” di comprenderla visto che è musica colta…va beh ..
    Io fino a 13 di età ero a Lucera (FG),prima che mi portasserò in Piemonte,in quel paese nelle feste che duravano tre giorni ( 14 -15 -16 agosto) per santa Maria la padrona del paese,era ( ed é ancora ) uso nelle due piazze principali allestire due grandi palchi circolare dove per i tre giorni di festa,orchestre e filarmoniche eseguivano con cantanti anche all’epoca importanti,romanze ,arie di scene d’opere,e sinfonie,mi ricordo che c’è sempre stata una grande partecipazione di gente che veniva anche dal circondario,all’epoca ( anni 50 )non è che tutti avevano a casa dischi o radio,quindi erano molto seguite queste manifestazioni,quindi non sono una novità questi concerti in piazza,si sono sempre fatti senza suscitare scandalo…ed erano popolari con la P. maiuscola,è chiaro riferendomi a un mio commento di prima ,che si programma una musica più alla portata di un pubblico “semplice” in queste situazioni, anche la gente “semplice ” ha diritto di ascoltarla questa musica ,se piace..

    • Nessuno pretende la laurea in musicologia, ma uno sforzo per comprendere un linguaggio sì. L’ascolto deve essere consapevole. Così come per leggere un libro occorre un certo impegno e una certa convinzione, ugualmente dovrebbe essere così per la musica. E invece si pretende che tutti debbano ascoltare tutto (e quindi si semplifica e si volgarizza: si allestiscono 100 Traviate e 200 Barbieri). E in più si pretende che tutto sia pure gratis! Tu quando vai al bar pretendi di consumare senza pagare il conto? Non credo… E allora mi spieghi perché un cosiddetto giovane (che spende cifre anche importanti per ogni genere di cazzata) trova “insostenibile” spendere 10 o 20 € per un concerto???

      • spendere 10 o 20 euro per un concerto certo che è sostenibile,anche per un giovane che ogni tanto si permette di spenderli per una cazzata,oppure anche il doppio per un concerto pop,ma una volta,non è che può spendere sempre queste cifre una sera si e tre sere no,perchè se si vuole veramente seguire con passione questi eventi alla fine dell’anno viene fuori una somma abbastanza importante,lasciando perdere le recite d’opere..
        comunque quando vado all’auditorium,vedo sempre un pubblico sempre variegato anagraficamente,e nelle serate anche normali ( almeno quando ci sono io ) il pubblico è numeroso,o nelle serate tipo la messa da requiem di Verdi con la Pizzolato ,e altri cantanti importanti,l’auditorium era esaurito.
        invece di solito al Regio nelle recita il pubblico è abbastanza maturo,c’è anche da dire che al regio hanno ridotto le recite pomeridiane con prezzi più contenuti ,spesso con un secondo cast ,adesso il minimo sono 55 euro,nei pomeridiani sono 35 euro,ma queste recite sono state ridotte..

  14. Dalla discussione si rischia di uscire ciascuno con le sue idee, e considerare la critica solo un modo di profetizzare sventura.
    Ho citato la mia infanzia e come allora si ascoltava la musica senza VEDERE lo spettacolo…converrete almeno che se non c’era voce alla radio i ricciolini di kaufmamm nulla potevano, così pure le ere vocali di Domingo, senza suoni ben impostati altrettanto, Le Carteri, i Bergonzi, i kraus, persino il pavarotti se non cantavano ad arte potevano dire addio alla carriera; Oggi però con il prevalere della sceneggiatura o del bello visivamente parlando, non si va da nessuna parte NONOSTANTE LA VOCE.
    Ciò che latita fino allo spasimo è (messeri miei) quel quid vocale che ti fa “amare” una voce, e ti provoca emozioni che poi nella vita ti tornano ad allietare…Senza questo elemento tutti i ricciolini del mondo, e le prosperose forme, nulla lasciano.
    Provate a chiedere ad un melomane senza fisime di sorta cosa ricorda della horne o della Gencer, di Bonisolli, anzichè di Windbergh, di Kraus o di kaufmann.
    e scoprirete che i ricordi veri non sono legati alla parte fisica ma alla voce.
    Io sono convinto che se il teatro d’opera non si impegna a trovare voci, e non sciantose, o palestrati, il futuro è assai, ma assai triste

  15. Sparare a zero sulla politica anni ’70 della “cultura per tutti” è legittimo fin quasi all’ovvietà per tutte le ingenuità che la pervadevano, ma non credo sia da identificare tout court con il livellamento al basso: tra le recite scaligere “operaiste” e la Clerici vestita da Butterfly passa comunque una certa differenza.
    Che oggi il pubblico della Scala sia un coacervo irritante di dandy in plastica, trafficanti di organi russi in vacanza, fighetti milanesi “certificato-presenza” e checche-claque non dipende da alcuna politica culturale sinistrorsa (come mi pare invece qui si sostenga velatamente anche nell’articolo su MiTo): la tendenza fondamentale è molto più profonda.

    Ma soprattutto è da illusi contrapporvi l’età aurea della “popolarità dell’opera”, come fosse stato il tempo della genuina familiarità delle masse con l’ Arte: certo possiamo giudicare migliore la media delle esecuzioni dell’epoca, ma se oggi avessimo attorno gli ascoltatori medi di allora, beh, il Corriere sarebbe il primo a trovarli superficiali. (Quanto di apprezzabile vi si troverebbe sarebbe solo il riflesso dell’abitudine a un certo modo -questo sì, oggettivamente altissimo – di proporre l’opera. Non che oggi si ascolti meglio, chiaro: si ascoltano peggio esecuzioni peggiori e con più supponenza, ma non per questo avrei nostalgia del vecchio stile.)
    Questa contrapposizione (si potrebbe dirla “anni 50 (o 30, o 20, secondo l’ammirazione che si ha per il fine melomane Farinacci) versus 70”) fallisce per meschinità: per sospetto verso la “pedagogia culturale bolscevica”, che procederebbe a colpi di Lulu, Monarchi in Ascolto, Ole de fuerza y luz, Grandi Soli Carichi d’Amore ecc., si esalta un modello di pubblico provinciale e plebeo visto come “più genuino”.

    Ma tanto la “cultura per tutti” (venga dal bolscevismo culturale o dalla cultura da supermercato) quanto l’idealizzazione di quel pubblico appiccicaticcio e nazional-popolare, che fa tutt’uno di cabalette e bresaola, evitano il nodo centrale del rapporto con l’opera: il fatto ch’essa richieda, oggi che il genere non è piùà vitale, studio, conoscenza, consapevolezza, come ogni cosa seria; e paiono entrambi identificare col “favore delle masse” la sanzione ultima della dignità dell’arte. Gli “operaisti culturali” vogliono la cultura per le masse comunque, purché sia, e almanaccando pedagogia sociale favoriscono il livellamento; i loro oppositori invece stendono l’elegia sul pubblico-popolo di una volta, che era tanto bravo e caro, ah, che ricordi signora mia!…

    “Crisi dell’opera”, comunque, non si dà; al massimo, crisi del rapporto con essa. Qualcosa quindi di diffuso, di evidentemente problematico, ma che non tocca l’essenza dell’opera: questa è stata, e il suo valore non dipende dal giudizio dei molti, che pure oggi l’avvicinano guardando a ricciolini e polpaccioni anziché alle glorie di Pindo e d’Elicona.

    • Caro Hans, ti rassicuro sul fatto che non intendo affatto attribuire l’odierna crisi fruitiva della musica classica con politiche sinistrorse, quanto, invece, la mercantilizzazione della stessa, la sua trasformazione in evento mediatico sempre più basso (culturalmente) al fine unico di attirare il pubblico più generalista e meno preparato. Non idealizzo affatto l’immaginaria età dell’oro del melomane da romanzo. Né sono così ingenuo da credere che la colpa risieda in programmi di culturalizzazione forzata. Non è la contrapposizione tra cripto bolscevismo anni ’70 o nostalgie “farinaccesche”, ma la constatazione di una tendenza ormai inarrestabile a confondere il tanto col bene. La musica classica, l’opera e l’arte in genere richiede un minimo di conoscenza di un determinato linguaggio, una disposizione d’animo a impegnarsi per due o tre ore. Oggi invece si tende a negare il valore di questa forma di conoscenza tacciandola per elitaria o esclusivista, favorendo un accesso libero e indiscriminato (addirittura gratuito) con il miraggio che così facendo il pubblico si allarghi. Purtroppo o per fortuna non è così, perché chi assiste a certi “eventi” da piazza (dove si ascolta Beethoven amplificato o l’aria “Vincerò” dallo “Turandò” o la Clerici vestita da Madama Butterfly) non farà certo passi ulteriori: non andrà certo a comprare (a 10 € magari…cifra “astronomica”) un biglietto per Sokolov in Conservatorio. Al massimo metterà su FB un certo numero di foto taggandosi con gli amici. Lo stesso accade con la primina scaligera. L’articolo sulla rassegna MiTo è da leggere in questo senso: musica e arte ridotte a discount per fighetti.

      • Egr. Duprez, grazie della risposta: credo tu colga nel segno evidenziando come attualmente la mera messa a disposizione degli “eventi” (un termine che davvero fa soffrire) sia intesa come sostituto di quella dose di studio, disponibilità di tempo e concentrazione, fatica insomma, che è indispensabile per capire la musica (e soprattutto per goderne).
        Ricordi che tutto quanto richieda un minimo di sforzo per “uscire da sé”, tutto quanto non è riducibile a stimolo nervoso immediato e superficiale, viene ipso facto definito “elitario”;
        ora, in questo atteggiamento così infantile qualcosa di vero c’è: la cultura non è “democratica”. Richiede sforzi che altrove si ignorano, e non basta esservi esposti come a un ventilatore per “acculturarsi”, come vuole la pia illusione delle politiche culturali attuali e delle programmazioni teatrali.
        In un certo senso, oggi la diffusione della cultura (termine ormai insopportabile e ricattatorio) si sta realizzando mediante la negazione della cultura, cioè di questa fatica necessaria per accedere alle sue espressioni. Quando arriveremo al “principio di realtà” per cui la diffusione della cultura non può prescindere da quanto la cultura comporta di duro, probante, difficile da penetrare e da far nostro?

        • mi pare che recenti studi di area germanica dimostrino con la forza delle cifre che all’espansione delle spese e delle offerte per la “cultura”, in tutte le sue forme anche extramusicali, non corrisponda una altrettanta espansione del pubblico e delle entrate. anzi, pare che oltre il 5% della popolazione il fenomeno cultura non si ampli, a fronte di una “adeguata” e politically correct risposta della popolazione a favore delle spese per la cultura, ossia, nessuno dice ” non non mi interessa”, oppure ” no, non è lecito per un paese continuare a spendere oltre certi limiti “. Intervistata, la gente si dichiara formalmente d’accordo, ma poi nella realtà delle cose la fruizione reale resta sempre attestata su quel 5%.
          Si parla comunque anche del concetto di “cultura per tutti”, che avrebbe implicato una svendita del prodotto culturale con sistemi di offerte, biglietti per giovani, anziani, gruppi , e robe simili: si afferma che più la si svende, per metterla a comoda disposizione di tutti, e meno interessa, meno attira il pubblico per il quale il senso di “valore”, di “specialità” del prodotto culturale viene meno.
          a fianco di questa realtà si registra la degenerazione della “cultura” in “informazione” e “comunicazione” : il contenuto si annacqua, si svaluta, si diluisce in una percezione e fruizione superficiale ed esteriore del prodotto culturale. in tal senso basta pensare al fenomeno attualissimo delle mostre d’arte organizzate sempre più raramente da studiosi, ma da “industriali” del prodotto espositivo, che realizzano utili ma non sono in grado di mantenere alto il livello dei contenuti e del lavoro scientifico

          • Esattamente: tutto si trasforma in “evento” mediatico. Il fine ultimo è attirare pubblico raccogliticcio che non fa alcuno sforzo per rapportarsi all’opera d’arte vista o ascoltata. Si va alla mostra perché la pubblicizzano in TV o perché “ci si deve andare” (e possibilmente condividere sui social network). Tutto deve essere pronto e disponibile, come in un discount. Tanto che si taccia di snobismo elitarista che considera il percorso di avvicinamente all’opera d’arte come necessario: perché non è l’arte che va portata a domicilio, ma il contrario. Perdere questo valore (che non è la mera “preparazione” o lo “studio”, ma qualcosa di più profondo e più raggiungibile da chi ha buona volontà, ossia la disposizione dell’animo a “faticare” per rapportarsi ad un fenomeno complesso) significa banalizzare la cultura ad “evento”. Certo che è “difficile” seguire un concerto o un’opera o un percorso museale o leggere un saggio, ma la soluzione non è semplificarne i contenuti, quanto sforzarsi di comprenderli.

          • ma…io non ritengo che la cultura venga svalutata,se dei concerti vengono offerti in piazza,o con sconti vari,chi si accosta alla musica classica,o opera,viene offerto qualcosa che può essere facilmente recepito, e invogliato,poi per chi veramente si appassiona,e ha dei soldi sufficienti va poi nelle sedi dedicate( come ho scritto precedentemente) dove si eseguono musiche non per i semplici neofiti,insomma partendo da una popolarissima traviata ,una persona si appassiona,e va vedere roba piu “pesante” scusate se insisto, una persona prima di prendere una laurea,deve avere prima la maturità imparando da materie piu semplici,prima di passare a materie più complicate,certo non si offre in piazza o a un neofita,come “antipasto” le composizioni per cembalo di François Couperin…

          • Continui a non capire quel che scrivo: tu credi che i mega concerti di piazzi e la musica regalata favoriscano la sua diffusione? Amen. Peccato che i fatti smentiscano tale assunto e l’unico effetto è quello di favorire stagioni tutte uguali e con qualità ribassata al minimo. Non è questione di roba “pesante” o “leggera”. Beethoven in piazza amplificato non è più fruibile, ma è una schifezza che non c’entra nulla con la musica. Comunque la storia dei soldi è una favoletta: mi spieghi – una buona volta – perché mai la musica classica dovrebbe essere l’unica forma d’arte gratuita? Per far risparmiare i “neofiti” così si comprano lo smartphone da 1.000 €?

  16. Tanto per riportarvi con” i piedi per terra ” (se non con il culo…) vi avverto che oggi in conferenza stampa Pereira , oltre a chiedere “generosità” nei confronti dei poveri cantanti spaventati alla sola idea di esibirsi alla Scala, ha promesso molta Bartoli in salsa barocca….

  17. Condivido e sottoscrivo molte cose fin qui sostenute. Vorrei solo sottolineare che ritengo il fine genericamente detto della “cultura per tutti” non solo assolutamente legittimo e di grande dignità, ma imperativo per qualunque contesto civile che si rispetti. Si tratta però d’intendersi: i grossolani eventi mediatici in cui tutto si banalizza e tutto si volgarizza non sono un esempio o paradigma di ciò che s’intende per cultura per tutti: sono anzi il il contrario, la negazione stessa di tale concetto. Il punto è questo: non “abbassare” la cultura al livello degli ignari, ma emancipare gli ignari dalla loro condizione per consentire loro di accedere alla cultura “alta”. Non è certo la cultura progressista, che sbagliava ma in senso opposto, a considerare cultura per tutti il concertone dei tre tenori o roba simile. Anzi: ci si illudeva che cultura per tutti fosse portare i metalmeccanici alla prima del Gran Sole Carico d’Amore. Immane stronzata ma di direzione diametralmente opposta. Non appartiene alla sinistra il pensare che abbassare il livello sia il modo migliore per diffondere la cultura. Sfido chinque a dimostrare il contrario. Le piazzate circensi sono roba di destra. La sinistra ( occidentale ) ha altre, non meno gravi, responsabilità. Ad esempio la stolida intransigenza storicistica: il pensare cioè che le avanguardie di oggi saranno il pane quotidiano di domani. Non è stato così né sarebbe potuito esserlo. Tra parentesi: Duprez mi segnala che per entrare alla Scala bastano 15 euro. Certo: basta fare una fila estenuante ( con meccanismi che ne precludono l’accesso a chi venga da fuori ) e accontentarsi di vedere quasi nulla in piedi da posizioni assurde. Non è questa l’accessibilità ai teatri che auspico.

  18. Duprez chi ha parlato di musica classica gratuita? io solo ho detto che certe offerte sono una forma per invogliare un pubblico ad ascoltarla,farla conoscere,a chi non ha possibilità, o interesse perche non ha occasione ,tutto qui..
    D’altronte anche la musica leggera viene offerta gratis in piazza piu di quando si pensi,comunque penso che la nostra discussione sia anche un po anacronistica,con l’avvento della RETE .
    ormai tutti per chi ha interesse e curiosità possono avvicinarsi a qualsiasi tipo di musica,e a gratis …motivo della grande crisi dei dischi.
    quindi teoricamente anche la musica “colta ” e alla portata di tutti…se interessa
    naturalmente c’è anche gente che non dispone di un computer,o della banda larga,ma questo è un altro discorso..

    • Vogliamo fare un bilancio? Negli ultimi vent’ anni, per avvicinare chi non vuole fare alcuno sforzo per comprendere la musica, abbiamo introdotto i Tre Tenori e “Vincerò” dalla “Turandò”, il Beethoven amplificato in piazza, i Rigoletti in diretta da Mantova, i soprani e i tenori col fisico da copertina e le serate con la Clerici. Cosa abbiamo ricavato da tuttto questo? Nulla, visto che stiamo qui a discutere sulla carenza di pubblico.

  19. Ah ah ah. La “cultura per tutti” esiste già: non c’è l’obbligo scolastico fino a 16 anni (dicasi 16)? Non puoi con soli miseri 10-15 euro comprarti la Critica della ragione pura e viverci per anni? O ancora meglio passare in una biblioteca e prenderla a prestito gratis? Non trovi su streaming i film di Carné e Truffaut? Ecc. ecc. ecc. E allora! Ma no: “per tutti” non significa più OPPORTUNITA’ data a tutti; significa inculcare la “cultura” nella mente di tutti (parola a questo punto sinistra), anche degli zucconi, dei superficiali, dei semplici, degli interessati ad altro. Ah ah ah. E questo è proprio “di sinistra”. Guardare le riforme di Luigi Berlinguer per credere.
    @ Duprez. D’accordo. Aggiungo questo: a partire da Baumol e Bowen, che teorizzarono la necessità dell’intervento pubblico per garantire la sopravvivenza del teatro d’opera, del balletto, ecc., si è ritenuto che far piovere soldi fosse il modo migliore (o comunque obbligato) per “salvare” la cultura musicale. Risultato: la domanda, che nel mercato determina l’offerta, perde di quel potere. Gli appassionati di opera (la domanda) determinano sempre meno l’offerta, perché l’opera ha comunque altre fonti di approvvigionamento, che fatalmente divengono i veri padroni del teatro d’opera.

  20. Sai, Zagreo, se la cultura fosse determinata dalla logica della domanda e dell’offerta, dalle librerie sparirebbe la “Critica della Ragion Pura” come anche la “Scienza della logica”. Ci sarebbero solo i libri di Gian Antonio Stella, con cui sfogarsi delle proprie difficoltà sputando sulla corruzione, e i gialli dell’ultimo autore americano, meglio se pieni di sangue e di sesso. Te li sogneresti “Die Soldaten” o “Mathis der Maler”. Ma forse sarebbe meglio così.
    Ciao
    Marco Ninci

  21. Con la mera logica della domanda e dell’offerta in effetti il rischio è quello di accelerare nella direzione qui da tutti deprecata. Ampliamento del target di mercato a prescindere e con ogni mezzo : dunque banalizzazione, volgarizzazione, eterna riproposizione della stessa collaudata e redditizia minestra. Non è un caso che Wagner poté fare quel che fece anche perché trovò il modo di emanciparsi dalla logica di mercato.

  22. @Marconinci. Quale portento! Forse sugli scaffali delle librerie troverebbe Kant, se nessuno lo comprasse? Mi creda: le case editrici non sono istituti di beneficenza; e se anche lo fossero, sarebbero pazzerelle a pubblicare roba destinata al macero. Senza lettori (la famigerata domanda), persino Rimbaud finisce al macero. E poi, non se la prenda a male, ma lei è un po’ furbetto: la quaestio non è “se LA CULTURA sia determinata dalla logica della domanda e dell’offerta”. Qui cultura non si capisce neanche cosa significhi. Il pensiero? L’ideazione? La creazione artistica? No: il punto è che vi sono cose la cui esistenza dipende dalla disponibilità di un terzo allo scambio, e son tutte quelle che hanno un costo di produzione (ciò che si verifica anche nel caso di un produttore che sia unico consumatore; esempio: poesie chiuse nel cassetto e mai divulgate). Così, caro amico, ragionano gli economisti di qualsivoglia scuola (dagli anarco-capitalisti a Marx, per dire gli estremi). Alla logica della domanda e dell’offerta, se lei vede, non tutto è sottoposto, ma precisamente ciò che dipende dallo scambio. E dalla disponibilità allo scambio dipende la diffusione di libri, musica, ecc. Crede davvero che Kant abbia avuto meno lettori di Matilde Serao?

  23. @Gianmario. La sua osservazione è interessante, e sembra una obiezione micidiale, ma non lo è davvero, perché – e mi scuso se per ragioni di tempo la risposta è breve – libertà di scelta e necessità economica non sono in conflitto.

  24. Caro Zagreo, posso permettermi di darti del tu? Non me la prendo a male; la permalosità non è una cosa che mi riguardi, come potranno confermarti tutti coloro che scrivono qui, visto poi che i miei rapporti con l’ambiente non sono sempre stati dei più facili. Che in un rapporto economico di scambio si debba tener conto della domanda è fuor di dubbio. Tu citi Marx; ma Marx il valore di scambio lo voleva abolire, perché giustamente lo considerava un’espressione dell’alienazione capitalistica, e intendeva sostituirlo col valore d’uso. L’esempio che ho riportato forse non è stato dei più felici. Tuttavia, quello che io intendevo dire è che il finanziamento pubblico, che non ha fini di lucro, serve proprio ad andare oltre i limiti della domanda; a dare spazio a cose per le quali la domanda è scarsa. Kant è indubbiamente più letto della Serao; che lo sia più di Stephen King avrei qualche dubbio.
    Ciao
    Marco Ninci

    • Capisco che lei non ha fatto studi di Economia da come parla di Marx e del concetto di valore: fraintendendo tutto. Intanto non ha senso dire che “in un rapporto economico di scambio si debba TENER CONTO della domanda”, definendosi lo scambio come incontro della domanda e dell’offerta. Mi limito a questo. Quanto a Marx: il discorso economico e quello politico hanno oggetti diversi; la politica può impedire lo scambio, a patto di renderci tutti servi brutalizzati, ma questo non interessa l’economista.
      Quanto al finanziamento pubblico, passeremmo una giornata a soppesarne i pro e i contro. Quel che è certo è che determina una modifica dell’offerta, tale per cui essa non è determinata dalla sola domanda degli acquirenti i biglietti, ma da una sommatoria, tra i cui addenti figurano i politicanti di turno, che hanno (come naturale) fini loro. Se questo risultato sia desiderabile o meno, non è cosa che interessa l’economista.
      King è sicuramente più letto di Kant per il periodo 1980-2014. Embè?

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