I 300 anni di Gluck – parte I

Christoph_Willibald_Gluck_painted_by_Joseph_DuplessisOggi, 300 anni fa, nasceva a Erasbach nella Baviera centrale, Christoph Willibald Gluck. Il nostro omaggio a questo anniversario ingiustamente sotto tono, si dividerà in due parti: nella prima verrà analizzato il retroterra culturale in cui il compositore maturerà l’idea della sua riforma; nella seconda ne verranno analizzati i frutti e l’eredità. La riforma si pone come spartiacque nella moderna storia dell’opera, rectius così è sempre stata rappresentata: l’immagine di un Gluck che “uccide” l’opera barocca e apre la strada alla “musica dell’avvenire” è tanto diffusa e suggestiva quanto eccessivamente riduttiva e ingenua. In tal senso appare assai condivisibile la riflessione del Dent che nel suo saggio “Il teatro di Mozart” scrive: “La storia dell’opera del XVIII secolo è stata in buona misura mal compresa per il fatto che tutti i nostri testi hanno tratto le loro informazioni da fonti tedesche; ed è stata tendenza invariabile degli storici tedeschi quella di esagerare l’importanza di Gluck, suggestionati dal fatto che Gluck è un compositore tedesco. Non voglio per un solo istante affermare che Gluck in quanto musicista sia stato sopravvalutato, ma è del tutto sbagliato immaginare che egli abbia distrutto in un soffio la vecchia immagine dell’Opera Seria e aperto la via a Wagner e a Richard Strauss”. Quando Gluck inizia la sua parabola artistica (Artaserse nel 1741) – dopo i primi studi musicali, scientifici e filosofici tra Praga e Vienna – in Europa trionfava l’opera seria su modello metastasiano. L’opera barocca era arrivato al suo apice con Haendel (che proprio nel ’41 si ritirò dalle scene con la sua ultima opera: Deidamia), Hasse, Telemann e la tradizione italiana. Il declino era prossimo ed inevitabile: l’albero aveva cessato di dar frutti e le sue radici erano destinate in poco più di 40 anni ad avvizzirsi. Il pubblico più progredito si era ormai stancato di una modalità espressiva inchiodata in una codificazione rigida e ormai sterile, fatta su misura per le bizze di castrati e primedonne e non più rispondente alle esigenze culturali del tempo. Il mondo cambiava e con esso la società, la cultura, l’arte. L’opera barocca che aveva reso splendide le corti dell’Europa a cavallo tra XVII e XVIII secolo con la sua estetica della meraviglia, lentamente veniva travolta dal nascente classicismo, dall’universalismo illuminista e dal razionalismo. Era l’epoca delle grandi querelles filosofiche, artistiche e musicali in cui parevano scontrarsi due mondi: quello nuovo che mordeva il passo e cercava di sciogliere le briglie che ancora lo trattenevano e quello vecchio che con dignitosa ostinazione si aggrappava alla sua stessa tradizione. Gluck esordisce in questo particolare momento della storia musicale europea e lo fa nel modo più classico e scontato: scrive opere serie, replica un modello ormai stanco e manierato, producendo un numero elevatissimo di titoli poco distinguibili tra di loro (se non per scheletri di trama e ambientazione), al servizio di ricchi committenti, principi e governanti. E’ questo il Gluck che nel 1745 incontra Haendel a Londra: due mondi differenti che non possono capirsi (in questo senso va interpretato il racconto di Burney che riferisce le parole di Haendel sul giovane compositore: “non sa di contrappunto più del mio cuoco Waltz”! Ma a Gluck non interessa più “saperne di contrappunto” di quel contrappunto e di tutte quelle regole che erano l’ubi consistam dell’opera seria). E così, dopo 20 anni di interminabili serie di recitativi secchi inframezzati ad arie tripartite, a narrare le improbabili storie di eroi, sovrani, dei e miti (così come cristallizzati dai versi di Metastasio) l’incontro a Vienna con Ranieri de’ Calzabigi e con i più avanzati ambienti dell’illuminismo riformista, prese il via l’idea della riforma dell’opera (in un progetto di complessiva riforma dell’arti e del rapporto tra uomo e arte, secondo una nuova estetica del bello che alla meraviglia barocca sostituisce il dominio della ragione e dell’adesione alla natura: una natura ordinata e perfetta in sé senza il bisogno di inutili abbellimenti o interventi, ma che solo deve essere lasciata libera di esprimersi attraverso l’intelletto). Dopo Sofonisbe, Re Pastori, Antigoni, Semiramidi e Clemenze di Tito (in libretti riciclati decine di volte per vestire i panni differenti delle differenti primedonne), Gluck e il suo librettista – ma sarebbe più corretto parlare di coautore, vista la pari importanza di musica e parola – rivolsero lo sguardo all’antico, ma non per ricalcare trame e miti ormai desueti e stanchi, piuttosto nel tentativo di restaurare la classica semplicità della tragedia greca (certamente in una visione profondamente condizionata dal sentire comune del secolo dei lumi) e di trasformare quello che era un mero esercizio intellettuale o un gioco spettacolare per ricchi e annoiati mecenati in una forma di ricerca della verità attraverso gli strumenti della logica e della poesia. La ricerca della verità svelata nella sua profonda e coerente razionalità (una verità ideale, certamente, ma che rappresentava l’idea di natura in chiave mimetica).  Lo spirito della riforma gluckiana si rivolge sia alla struttura dell’opera sia al suo contenuto. Innanzitutto viene semplificata l’azione drammatica (con una drastica riduzione di personaggi e situazioni in modo da evitare divagazioni e perdita di attenzione), vengono eliminati gli orpelli tipici dell’estetica barocca, gli effetti decorativi, le distrazioni di puro edonismo vocale (il ruolo del cantante – e di conseguenza le sue eccessive libertà – viene ridotto al minimo), viene perseguita la perfetta simbiosi tra testo e musica – inscindibili l’uno dall’altro – con l’abolizione delle forme chiuse, dell’interruzione dell’azione, del virtuosismo: fine supremo era dare il massimo rilievo al testo che diviene fondamento della musica, sorgente del flusso melodico. Il recitativo secco viene sostituito con quello accompagnato e la forma chiusa dell’aria cede il passo ad un arioso libero che segue senza soluzione di continuità il recitativo evitando cesure nell’azione. Anche l’orchestra assume un rilievo differente e una vera e propria funzione drammatica così come il coro che conquista uno spazio paragonabile a quello dell’antica tragedia greca. Esemplificativo del portato di questa rivoluzione è la prefazione al libretto di Alceste, che ben chiarisce i termini della riforma: “Altezza Reale, quando mi accinsi a scrivere la musica per Alceste, risolsi di rinunziare a tutti quegli abusi, dovuti od a una malintesa vanità dei cantanti od a una troppo docile remissività dei compositori, che hanno per troppo tempo deformato l’opera italiana e reso ridicolo e seccante quello che era il più splendido degli spettacoli. Mi sono sforzato di ricondurre la musica al suo vero compito di servire la poesia per mezzo della sua espressione, e di seguire le situazioni dell’intreccio, senza interrompere l’azione o soffocarla sotto inutile superfluità di ornamenti. Ritenni che ciò si poteva realizzare nello stesso modo in cui i colori violenti influenzano un disegno corretto e armonicamente disposto con un contrasto ben assortito di luce e di ombra, il quale vale ad animare le figure senza alterarne i contorni. Così mi guardai dal fermare un attore nella più grande foga di un dialogo per cedere il posto ad un seccante ritornello; né mi compiacqui prolungare la sua voce nel bel mezzo di una parola unicamente per sfruttare una vocale favorevole alla sua gola; non mi lasciai indurre a mettere in mostra la sua agilità di canto con un passaggio tirato in lungo; né mai volli imporre una pausa all’orchestra affine di permettere al cantante di accumulare il respiro per una cadenza. Non mi permisi di trascurare la seconda parte di un’aria le cui parole sono forse le più appassionate ed importanti, affine di ripetere, secondo la regola, quattro volte quelle della prima parte o di finire un’aria quando il testo non risulta ancora concluso allo scopo di indulgere al cantante che desidera sfoggiare quanto capricciosamente sa variare il passaggio in diverse guise. In breve, ho cercato di abolire tutti gli abusi contro i quali buon senso e ragione hanno fin qui protestato invano. Ho ritenuto che la overtura doveva apprendere allo spettatore la natura dell’azione drammatica e condensare, per così dire, la sua trama; che gli strumenti concertati dovevano essere introdotti proporzionalmente all’interesse ed alla intensità delle parole e non creare stridente contrasto tra l’aria e il recitativo; che non si doveva spezzare irragionevolmente un periodo né sconsideratamente intaccare la forza ed il calore dell’azione. Inoltre volli che la mia più grande attenzione fosse diretta alla ricerca di una bella semplicità, ed ho evitato di fare sfoggio di difficoltà a scapito della chiarezza; né mi parve lodevole di andare alla ricerca del nuovo quando ciò non fosse suggerito dalla situazione e dalla espressione, e non vi è regola che io non abbia messo spregiudicatamente da parte per lo scopo di raggiungere un logico effetto. Tali sono i miei principii. Per buona fortuna le mie concezioni furono meravigliosamente realizzate dal libretto nel quale il celebre autore, mirando ad un nuovo schema drammatico, ha sostituito alle descrizioni ridondanti, ai paragoni sforzati e pedanti la rigida moralità, il linguaggio accorato, le forti passioni, le situazioni interessanti ed uno spettacolo senza fine variato. Il successo del lavoro ha giustificato le mie massime e l’approvazione concorde di una città così illuminata ha chiaramente consacrato che semplicità, verità e naturalezza sono i supremi principii estetici in tutte le manifestazioni artistiche. Per tutto ciò, benché parecchie persone insistessero perché io mi decidessi a dare alle stampe questa mia opera, io non mi nascondevo il pericolo di attaccare così decisamente e profondamente i pregiudizi radicati. Volli perciò rafforzarmi con la potentissima protezione di Vostra Altezza Reale il cui nome augusto, che raccoglie gli omaggi dell’Europa colta, prego mi concediate di mettere come intestazione. Il grande protettore delle arti belle il quale regna su di una nazione che ebbe la gloria di farle nuovamente sorgere dalla universale oppressione e che ne ha dati sublimi esemplari, in una città che fu sempre la prima a scuotere il giogo dei pregiudizi volgari ed a preparare la via alla perfezione, può lui solo intraprendere la riforma di quel nobile spettacolo nel quale tutte le arti belle hanno un compito così importante. Se ciò riuscirà, la gloria di avere rimosso la prima pietra (della vecchia costruzione) toccherà a me, e con questa pubblica testimonianza dell’appoggio concessomi da Vostra Altezza Reale ho l’onore di sottoscrivermi con umilissimo rispetto, di Vostra Altezza Reale umilissimo, devotissimo e obbligatissimo servo Cristoforo Gluck”. In meno di 10 anni Gluck e Calzabigi rivoluzionano il mondo dell’opera, ponendosi come inevitabile punto di riferimento per chiunque scrivesse musica: l’influenza della riforma conquista anche gli ambienti più tradizionalisti (vedremo la querelle con Piccinni) e accompagna i progressi dell’illuminismo nei principali centri culturali europei. Orfeo ed Euridice (1762), Alceste (1767), Paride ed Elena (1770), segnano le prime tappe della liquidazione dell’opera seria tradizionale che, pure laddove sopravvive – per esigenze contingenti – nella forma esteriore (penso alla mozartiana Clemenza di Tito) è stravolta nel suo interno. Certamente Gluck non veniva dal nulla e non demolì improvvisamente l’opera barocca quasi prefigurando l’avvento di altre musiche dell’avvenire: era uomo immerso nel suo tempo, ma più di altri seppe cogliere un sentimento di crisi ed ebbe l’intelligenza, il talento e la genialità per trasformare la decadenza di un modello in occasione di progresso (perché il mondo va avanti comunque e nessuna restaurazione o nostalgia può interrompere o portare indietro le lancette della storia). Nella seconda parte analizzerò più compiutamente i frutti di questa riforma, la sua eredità e la sua attualità. Buon ascolto.

Gli ascolti:

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