Musica proibita: L’amore dei tre re (1913)

zoagli_castello_sem_benelli_-_partAmore dei tre è il titolo più famoso di Italo Montemezzi (1871-1953),  amatissimo da almeno due grandi direttori coevi all’autore ossia Arturo Toscanini, che lo diresse la prima rappresentazione il 2 gennaio 1914  al Met e Tullio Serafin, direttore della prima esecuzione assoluta alla Scala. L’opera piaceva anche ai cantanti d’opera  soprattutto  bassi  (Mardones e Pinza) perché il truce Archibaldo è il vero protagonista maschile ed alle prime donne magari dotate di avvenenza come la Bori, la Ponselle e soprattutto la  divina Claudia Muzio, se aggiungiamo che  Montemezzi dal 1939 stabilì la propria residenza e le proprie attività professionali negli States capiamo il successo americano e le numerose rappresentazioni nei teatri del nuovo mondo.

Aggiungo che con le coeve Parisina e Francesca da Rimini, andate in scena a breve distanza di tempo costituisce un tris di opere, che vanno viste ed accettate quale tentativo, più o meno riuscito di superare il Verismo ed anche Puccini (che proseguirà per un ulteriore decennio una grande carriera) verso le spiagge del simbolismo e del decadentismo,  unite da elementi che vanno ricercati nel tanto raffinato quanto spesso verboso libretto, che mette testo musicale e testo poetico in strettissima connessione, nella ricerca di nuovi orizzonti musicali, anch’essi improntati alla raffinatezza ed alle tendenze straniere, che spesso si risolvono in  eclettismo, nella ricerca di argomenti molto prossimi al noir e costruiti con un’attenzione che spinge verso la nascente filmografia, con cui condivide un’ulteriore (ultima per l’opera) declinazione  del mito della prima donna, perché Fiora o Francesca sono differenti nella psiche e parzialmente nel canto da Fedora o Adriana. Aggiungo che tutti questi elementi dai quali la nostra cultura si è molto allontanata rende difficile comprendere la  fama e la popolarità di questo titolo, impossibile capire Parisina e di poco più facile capire il messaggio e la fama di Francesca da Rimini, perché ne facciamo la prossima congiunta di Adriana e Fedora.

Partirei dall’argomento  un noir di grande potenzia visiva e figurativa (degna delle grandi attrice come la di Lorenzo, Irma Gramatica o anche le dive del muto stile Borelli): una storia, anzi storiaccia  in origine dramma di Sem Benelli (1877-1949) di infedeltà coniugale consumata sotto il tetto del marito Manfredo  baritono,  cornuto e succube del padre vecchio e cieco, per certo innamorato della nuora,  ministro della duplice vendetta prima contro la moglie infedele  e, poi, verso l’amante e lui medesimo vittima della propria vendetta perché del veleno sparso sulle labbra della morta dal suocero tutti i maschi moriranno perché tutti baceranno le amate labbra. Labbra che sono simbolo e metafora che invade tutta l’opera.

Archibaldo il vecchio cieco  incarna uno dei più pregnanti aspetti dell’opera e del testo letterario ovvero la fine del mondo classico, ormai debosciato e decaduto e l’inizio di quello barbaro, come lo stesso Archibaldo spiega nel proprio primo monologo. La scelta deve essere vista quale esemplificazione per metafore della critica, che Sem Benelli portava ambientando i propri drammi ambientati in epoche diverse dalla propria e che gli costò conflitti e censure ad opera del regime fascista. L’utilizzo dell’inizio del Medioevo e la fine della classicità ara assai cara ed utilizzata all’epoca in quanto concepita come  l’inizio delle individualità nazionali e la fine della decadenza dell’impero romano (decadenza, che comincia molto molto dopo la data, che su presupposti soltanto letterari viene fatta coincidere o quasi con la fine della repubblica). Ma era chiaro che  quel mondo barbaro e post romano offriva una vitalità ed una  forza, che nella tradizione letteraria il debosciato mondo tardo antico non poteva avere ed era facile  utilizzarlo quale critica alla propria contemporaneità. Non dimentichiamo che gli anni dell’amore dei tre re coincidono con quelli in cui la storiografia dell’arte riscopre l’arte del primo medioevo e se l’oggetto privilegiato è per ragioni di reperibilità del manufatto quello sacro  certo è che l’interesse si estendeva anche all’edificio profano. Basta leggere la descrizione della sala in cui si svolge il primo atto per  trovare quagli elementi che sono gli interessi degli studiosi del tempo ovvero l’arte musiva e la coine del linguaggio  architettonico “le colonne ed i capitelli, incroci bizzarri , ma armoniosi di stili, s’intrecciano e s’incrociano paurosamente”.  E’ la descrizione di un ambiente costruito sui principi dell’ecclettismo, che imperversava in quegli anni nel tentativo di ritrovare l’arte post classica, come il lungo primo monologo di Archibaldo è il proclama della vis barbarica. Per capire meglio il senso di queste parole basterebbe più di ogni altro discorso l’esame della villa di Sem Benelli  a Zoagli. Tacciata per anni di essere “orrenda paccottiglia” (autore Pier Giuseppe Mancini rettore del Politecnico di Milano, ma anche scenografo per Benelli in occasione della prima della Rosmunda nel 1918) oggi può essere intesa come uno dei più completi prodotti dell’architettura dei primi anni del ‘900 nel tentativo di superare l’architettura tardo ottocentesca, quella per intenderci di Camillo Boito.

Ma con riferimento all’argomento tratto da un dramma di Sem Benelli emerge un altro  elemento essenziale che era tipico del dramma del tempo ovvero l’erotismo. Fiora alla scena seconda quando promette all’amante Avito  “l’ infinita pace” parla lo stesso linguaggio di Francesca, creatura d’annunziana  (non dimentichiamo che con il consueto aceto fiorentino Giovanni Papini definì Benelli “una ciabatta d’annunziana” e forse non gli si può dar torto davanti a versi come “nelle orecchie sento i fuchi ronzarmi i loro incanti” cantato da Avito che un po’ fuco davanti alla ape regina Fiora lo è).  Il primo assolo di Fiora quando la protagonista declama: “Dammi le labbra e tanta ti darò di questa pace!… e poi la rivorrò implorandola disperatamente chè senza le tue labbra non ho pace” non lascia alcun dubbio sul fatto che parlando di labbra di altro si parli uno dei più  forte richiami erotici del teatro italiano, sull’esempio del personaggio, ancor più sensuale della produzione di Benelli ovvero la Ginevra di Cena delle Beffe. Le labbra di Fiora sono i fiori della “digitale purpurea” o del “gelsomino notturno” di Pascoli, il cui messaggio e non perché si tratti di un epitalamio è tanto simbolico da non essere simbolico. Permettetemi l’esagerazione!

Quando, poi, il tenore all’inizio dell’incontro,  l’ultimo prima del femminicidio (delitto d’onore per il codice etico e penale del tempo dell’azione e del tempo della composizione dell’opera) proclama “addio Fiora, ; se vuoi darmi un bacio che sarebbe principio di vita fammi toccare quel tuo velo bianco che certo sa la tua fragranza”  il richiamo all’amplesso ed all’amore carnale è piuttosto esplicito, come mai lo  era stato prima nella letteratura e come in quegli anni ad opera non solo del solito d’Annunzio, ma anche del Pascoli sarà sempre più evidente. Tre eroine nate negli anni precedenti il primo conflitto mondiale ovvero Francesca, Fiora e Parisina sono la più estrema declinazione della sensualità fatta di metafore dedicate alla pace che segue l’amplesso, contrapposta all’ansia irrefrenabile, che lo precede.

Queste tra figura, cui  si aggiungerà, tratta da un altro drammone di  Benelli la Ginevra de “la cena delle beffe” in scena ad opera di un musicista e di un librettista italiano il superamento del fascino e della seduzione di Tosca e di Fedora (creature di Sardeau e che  non parlano e cantano mai un linguaggio erotico così evidente, pur essendo, soprattutto per Tosca,  il suo fascino e  la sua femminilità il motore del dramma. Per ricostruire questa ulteriore evoluzione riflettiamo anche sul fatto che nel 1907 il mondo musicale italiano aveva conosciuto la più  violenta rappresentazione scenica dell’erotismo con Salomè. Ma quello di Salome,  avvolto nei panni dell’icona biblica, era la declinazione dell’erotismo perverso e malato tutte caratteristiche e  di cui Fiora è priva e per ciò assai più femmina di Salome perché, come si richiede nel comune immaginario, l’amore rende la donna ingannatrice e menzognera, come, infatti, accade quando il suocero Archibaldo innamorato della sposa la interroga per sapere se la notte in attesa del marito sia stata notte di sonno o, come giustamente sospetta di sesso extraconiugale. Precisiamo nessuna idea di peccato, perché nessuna idea di religione appare nel testo di Benelli, a differenza del bigotto perbenismo di Scarpia e Tosca.

Insomma una immagine per il tempo molto forte e, aggiungo, permeata di  simbolismo, che trova la sua massima espressione nel duetto d’amore del secondo atto dove il sesso e l’amplesso ( più suonati in orchestra che cantanti perché il canto è assai prossimo al declamato) vengono espressi con la metafora della bocca come abbiamo già detto  e  con quella del  velo.

Andiamo ancora oltre in questa esaltazione del simbolo. Bocca e labbra femminili che se sono il simbolo della vita sono anche il simbolo ed il veicolo della morte chè tutti personaggi muoiono avvelenati per il bacio sulle labbra della morta Fiora, sparse di veleno dal perfido  e vendicativo Archibaldo.

Quindi  amore come vita amore come morte  e non solo nel finale perché che l’amore distrugga lo canta Fiora,  rivolta ad Avito, dicendo “come sei bianco, come sei diafano sembri un giglio”. Che l’amore distrugga e uccida lo incarna sopra tutti, nella sua barbarie, Archibaldo, che uccide la nuora dopo averne scoperto l’adulterio e l’inganno e soprattutto nel truce finale dove tutti per amore e per mezzo dello strumento dell’amore, che la  morale del tempo consentiva essere indicato con la bocca (ma non dimentichiamo il nome della protagonista e quale metafora,  nella letteratura italiana a partire da Dante, il fiore rappresenti).

Il crudele Archibaldo assetato di vendetta è l’omaggio al gusto  per il noir che nell’opera italiana del ‘900 prende piede. Due sono gli indiscussi noir del melodramma italiano Fedora e Tabarro, ma anche  l’omicidio quasi sacrificale che Archibaldo compie è l’omaggio ad un gusto che nella letteratura italiana di fine ottocento e primi novecento prendeva piede. Al clima del noir non è del tutto estranea la vicenda della Figlia di Jorio, pur permeata di richiami al mondo arcaico ed ancestrale, ma in fondo il protagonista della parte noir è il personaggio che per sua stessa definizione incarna il mondo barbaro. Un barbaro un po’ teatrale e forse costruito a tavolino se pensiamo al raffinato supplizio che escogita per scoprire chi sia l’amante della nuora, in pratica il rivale in amore.

E poi abbiamo al di là del testo letterario, che è essenziale l’esperienza musicale.

In primo luogo due elementi possono aiutare a capire l’autore ed il suo modus operandi ovvero la sua origine  middleuropea (come Zandonai  e come Smareglia)  con la innata tendenza al sinfonismo ovvero ad affidare all’orchestra piuttosto che al canto la sottolineatura dei momenti più drammatici  e poi, conseguenza in parte dell’origine e del periodo in cui prodotta l’opera,  la definizione stessa de “L’amore dei tre re” non come dramma, melodramma, tragedia, ma come poema tragico, forma questa riferibile alla musica sinfonica piuttosto che all’opera. Questi due elementi soprattutto nella gestione del “drammome”  di Sam Benelli devono essere ricordati perché una indiscussa caratteristica del titolo di Montemezzi e del libretto è che i fatti accadano con  rapidità e stringatezza, si pensi alla tragico chiarimento fra Manfredo ed Avito, ormai morente,  mentre i sentimenti dei personaggi soprattutto amore passione ed erotismo vengono cantanti e celebrati soprattutto per mezzo dell’orchestra. Ovvero l’autore con questo superando l’estetica verista non si preoccupa di raccontare gli episodi dal vero, ma di descrivere, celebrare, amplificare quello che i protagonisti –soprattutto gli innamorati- sentono e provano.

L’episodio orchestralmente più ricco è, quindi, nel secondo atto il duetto d’amore fra i due amanti che declamano mentre in loro vece l’orchestra canta l’amore. Non sarà causale l’autentica passione che sia Toscanini che Serafin e più tardi il solito Marinuzzi, che sentiva vivo il richiamo della musica del 900, provarono eseguendo il titolo del maestro di Vigasio e non sarà neppure casuale definire Montemezzi si guadagnò  fama e taccia di epigono del wagnerismo.

Che il modello di questa scena  sia il duetto del Tristano inutile negarlo;  inutile negare che gli autori successivi a Puccini lottarono per superare le formule del Verismo, girando fra le tendenze europee; inutile negare che  ci sia nella vocalità, soprattutto di Fiora nel duetto d’amore al secondo atto o  che nel finale secondo dove esplodono crudeltà e violenza di Archibaldo, richiami al Verismo inteso come vocalità declamata; ancora non si può negare l’eredità o meglio l’ ulteriore suggestione wagneriana quando i suoni delle trombe, richiamo della caccia del Tristano o del Lohengrin, ma con questa argomentazioni e dimenticando tutte le precedenti parlare di epigono, tenuto anche conto che spesso con riferimento a Montemezzi si è evocato anche Debussy (altra passione toscaniniana)  mi sembra faciloneria.

Quella faciloneria che con il condimento di argomentazioni revisionistiche ha  criticato tutta la produzione italiana differente da Puccini o dalle prime opere veriste perché i duetti degli innamorati italiani, sino al 1910, circa sono ancora figli della sintesi verdiana e fatto ed azione ovvero esplosione d’amore o di gelosia sono rapide e fulminee che si tratti di Tosca o di Fedora o di Chenier non l’estenuata lussuria di Fiora ed Avito, di Paolo e Francesca, come le orchestre di Montemezzi e Zandonai ci dimostrano.

 

I. MONTEMEZZI
L’AMORE DEI TRE RE

Fiora……………….Grace Moore
Avito……………….Charles Kullman
Manfredo…………….Richard Bonelli
Archibaldo…………..Ezio Pinza
Flaminio…………….Alessio De Paolis
Maid………………..Lucielle Browning
Young Woman………….Maxine Stellman
Old Woman……………Anna Kaskas
Youth……………….Nicholas Massue
Shepherd…………….Reno Mabilli

Metropolitan Opera House
Conductor……………Italo Montemezzi

February 15, 1941 Matinee Broadcast

Atto I

Atto II

Atto III

12 pensieri su “Musica proibita: L’amore dei tre re (1913)

  1. Dunque è questo l’ascolto succulento promesso da Donzelli! Opera davvero bella ed interessante, giusto l’accostamento con l’architettura dell’epoca. Peccato che non la si senta praticamente mai. Io l’avevo sentita 9 anni fa al Regio di Torino, dove era stata rappresentata con un certo successo, anche perchè – come è d’uopo (se non erro le due incisioni dell’opera hanno come protagonisti Bruscantini e Siepi) – c’era un buon basso per cantare Archibaldo, cioè Roberto Scandiuzzi in gran forma (difatti applauditissimo). Ed anche in quel caso la protagonista femminile era dotata di una certa avvenenza, come da tradizione. C’era stata una buona direzione di Oleg Caetani e – cosa incredibile – pur essendo la messa in scena coprodotta con un teatro tedesco, non c’era il solito armamentario da Teatrodiregia. Questo accadava nel periodo in cui a Torino si cercava anche di rappresentare il novecento italiano e si otteneva un gran successo di pubblico e critica con L’assassinio nella cattedrale di Pizzetti (lo proporrete?) che, dopo anni di oblio, dopo le recite di Torino ed il successone avuto era stato ripreso in altri teatri italiani, Scala compresa.
    Per tornare a Montemezzi e al Dannunzianesimo (ma questa volta quello originale), c’è la possibilità di senitre qualcosa de “La nave” e, magari, fare un confronto con le musiche di Pizzetti?

  2. per adesso avrai inteso che le prossime musiche proibite si chiamano Parisina di Mascagni e Francesca da Rimini, poi ti posso anticipare che arriveremo sino agli anni ’50…….e non ci occuperemo solo di opera, ma ad un certo punto ci sarà altro

  3. Interessante disanima: vorrei ricordare che ci fu, prima che a Torino, negli anni Ottanta una ripresa al Teatro Filarmonico di Verona. Un allestimento bellissimo, decadente e floreale…
    Morire mi ricordassi gli interpreti.
    Son vecchio e sempre più smemorato.
    A proposito di “anni 50”, vorrei spezzare una lancia in favore del teatro, assai prolifico, di Giancarlo Menotti. Ovviamente guardato con disprezzo e sospetto da tutta l’intellighenzia musicale che conta, ma che io -avendo studiato a Trieste tra il 1970 ed il 1979- mi sono sbobbato (scherzo, ne?) in quasi tutta la sua integrità e di cui serbo ricordi musicali e teatrali vivissimi.
    Saluti

    • Forse si tratta di questa recita?

      Italo Montemezzi
      L’Amore dei tre Re
      Verona, Teatro Filarmonico, 27 January 1991

      Archibaldo – Michail Ryssov
      Avito – Vincenzo Scuderi
      Fiora – Renata Daltin
      Manfredo – Elia Padovan
      Flavinio – Max Rene Cosotti
      Un giovane – Aldo Orsolini
      Ancella – Ivana Turchese
      Una giovane – Mimi Park
      Una vecchia – Lucia Massari

      Roberto Abbado, conducting

    • L’allestimento proveniva da Palermo dove era stato dato (mi pare – ma non sono affatto sicuro – ci fosse come protagonista femminile Marilyn Zschau) nel 1989, la regia era di Sequi le scene di Crisolini Malatesta.
      Concordo con il Dott. Sonvecchiomarobusto – Impiccioneviaggiatore circa Menotti, musicista pieno di meriti e non solo come compositore (Spoleto docet) e fenomenale regista. Solo la scorsa settimana mi sono riascoltato “Amelia al ballo” nella celebre edizione con la Carosio, Prandelli, Panerai e Campi. Operina deliziosa. La musica di Menotti sarà pure – come sostengono taluni, forsi rosi dall’invidia – un puccinismo adattato al gusto degli States, ma è musica, non cacofonia, e piaceva e piace al pubblico. Menotti scriveva per il pubblico, non per le masturbazioni mentali di pochi pseudo esperti. Forse l’opposizione di Nono – a prescindere dai suoi estremismi politici – a far rappresentare una sua composizione al Maggio musicale fiorentino del 1972 perchè davano anche quell’opera “reazionaria, filoamericana ed antisovietica” che era “Il console” era dettata anche dall’invidia che Menotti era applaudito dal pubblico “normale”, lo stesso pubblico di Verdi, Rossini o Puccini, pubblico che le noniane lagne le rifuggiva come la peste bubbonica, sì che temeva di perdere di larga misura il confronto per quanto attiene al gradimento di chi paga il biglietto… Mi hanno raccontato di una persona che, per errore, anni fa, a Venezia, ebbe la cattiva idea di andare ad ascoltare “Prometeo – tragedia dell’ascolto”…. ne fuggì inorridita, annoiata ed esaurita: una vera tragedia! Io, a Torino, ho sentito “Il console” e non sono mica fuggito, anzi, ho apprezzato molto l’opera! Ed il teatro non era mica vuoto, anzi…

  4. Gli autori di Parisina, Francesca e Amore dei Tre Re sono stati per queste opere chiamati Tristan’s Children . Wagner in effetti c’entra molto ma coniugato, ovviamente, con il bernoccolo del maestro di musica italiano. Esatto l’accostamento e molto opportuno riproporre la riflessione su tali titoli, i primi due – a mio avviso – veri e propri capolavori. L’Amore dei Tre Re non possiede la genialità di Parisina o il fascino di Francesca, ma credo valga comunque la pena conoscerla. Opera molto più amata in America che da noi. Il Grout ( nientemeno ) si profonde in elogi davvero impressionanti : “particolarmente notevole l’eleganza stilistica (… ) momenti di memorabile ampiezza classica (… ) la linea melodica si sposa splendidamente a una tessitura sinfonica continua , etc. etc. ( scusate le citazioni ma – data l’autorevolezza della fonte – secondo me potrebbero contribuire , in aggiunta all’ottimo articolo di Donzelli, a stimolare l’attenzione per Montemezzi ). Il teatro Grattacielo di New York, benemerita istituzione dedita a frequentare verismo e dintorni, ha ripreso L’Amore dei Tre Re nel 1997 e La Nave ( sempre Montemezzi ) nel 2012: se ne trova traccia anche in rete. (Mi unisco poi a sonvecchiomarobusto nel caldeggiare la causa di Menotti: ho motivo di sperare che qualcosa ne si potrà leggere in futuro).

  5. Ho sempre apprezzato quest’opera.
    Non domentichiamo un’edizione con Giorgio Tozzi è l’americana Phyllis Curtin che fu data in inglese alla televisione americana.
    Sul ‘Tube’ troverete un’edizione commuovente della menottiana ‘Amahl and the Night Viditors’, opera in un atto, che dovrebbe far parte delle ‘offerte musicali’ annuali che ci propongono le reti televisive a Natale. Una volta in America era così…
    C’era una volta l’America.

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