Lady Macbeth del distretto di Mcensk al Comunale di Bologna.

lady_macbeth_helikonLa stagione del teatro bolognese giunge alla sua conclusione con un’edizione della Lady Macbeth del distretto di Mcensk, assente dalle scene felsinee dagli anni Sessanta, quando era stata proposta nella sua seconda versione (che sostituisce nel titolo, all’allusione shakespeariana, il nome della protagonista e presenta diffuse edulcorazioni testuali) dai complessi dell’Opera di Zagabria. Insomma per la Lady Macbeth propriamente detta questo era un debutto nella città petroniana e, malgrado la scarsa affluenza di pubblico (comunque non meno numeroso, alla pomeridiana di sabato 6 dicembre, rispetto alla prima rappresentazione del Tell dello scorso ottobre), lo spettacolo proposto è stato all’altezza della situazione. Ovvero a un livello incommensurabilmente maggiore di quello degli altri titoli della stagione del Comunale, con la sola eccezione, per quanto concerne la direzione musicale, di Tosca. In quello come in questo spettacolo la bacchetta era affidata a un concertatore differente dal direttore musicale del teatro, cui destinati in esclusiva gli spettacoli di maggiore richiamo in questa e nella ventura stagione. Direttore principale del Teatro Helikon di Mosca, da cui provengono peraltro anche i principali solisti di canto nonché l’allestimento (già visto in Italia alcuni anni fa al Festival di Ravenna, nell’ambito di una tournée del teatro moscovita: nihil novi sub sole, insomma), Vladimir Ponkin ha portato l’Orchestra e, a un livello inferiore, il Coro bolognese a eseguire con slancio e precisione la non certo facile partitura di Shostakovich. Il suono orchestrale, pur nella nitidezza con cui emergono gli interventi dei singoli strumenti, possiede sempre il colore più appropriato alla circostanza drammatica, alternando il languore e la sensualità delle scene riservate alla protagonista e alla seduzione operata da Serghei, il ritratto grottescamente caricato della grettezza degli Izmailov padre e figlio, la tensione della “violenza domestica” e l’impietosa satira dell’ambiente provinciale, tra religiosi, borghesi e poliziotti egualmente ottusi e conformisti. Del pari notevole la capacità del direttore di reggere sempre con esattezza le fila del discorso musicale, evitando di “perdere per strada” singoli cantanti o sezioni orchestrali. Peccato veniale da parte del maestro Ponkin quello di coprire, a tratti, il canto di alcuni solisti, nessuno dei quali dotato, peraltro, non già di voce torrenziale e tonante, ma della più banale capacità di proiettare adeguatamente la voce in una sala di modeste dimensioni come quella del Bibbiena. La protagonista, Elena Michailenko, recita con sufficiente disinvoltura e ha un’ottava centrale di adeguata tenuta, anche se la voce, più che da soprano drammatico, è al massimo da lirico. Purtroppo la salita agli acuti rimane un mistero assoluto e le non rare escursioni nelle zone più impervie del pentagramma danno luogo a suoni regolarmente bianchi, a volte anche stonati. Nulla che non si senta, oggi come oggi, anche nel repertorio italiano e francese in parti di analoga complessità, e soprattutto nulla che non si rinvenga, in misura più o meno consistente, in quelli che sono i capisaldi della discografia per questo titolo. Circa gli altri interpreti sarebbe anche inutile scendere nei dettagli, ma il Sergej di Ilija Houzic, che più che segnato dalle frustate dei padroni sembra interessato dalla laringotomia o da audaci esperimenti di castrazione fisica e/o chimica, il belante marito di Dmitrij Ponomarev, la stridula Aksin’ja di Maja Barkovskaja e l’ingolata Sonetka di Larisa Kostjuk fanno risaltare, per contrasto, la tutto sommato decorosa prestazione del soprano e, al netto di un’emissione ingolfata e slaveggiante, del Boris di Aleksej Tichomirov (purtroppo privo della cavata del basso autentico, che competerebbe al vero antagonista della vicenda narrata). Essenziale ed efficace lo spettacolo di Dmitrij Bertman, caratterizzato da un décor unico (una struttura di tubi intrecciati e gabbie metalliche) che racchiude, o per meglio dire imprigiona, la vicenda e ne svela (grazie anche all’uso violentemente antinaturalistico delle luci, ridotte ai colori primari) il carattere simbolico. Katerina tenta di sfuggire al proprio destino di reclusa e finisce per contemplare la sua stessa rovinosa caduta: Sonetka è letteralmente “un’altra Katerina”, identica a come appariva nelle prime scene dell’opera la donna, che anche nella condanna ai lavori forzati mantiene il proprio candido abito nuziale, mentre gli altri personaggi della vicenda (il primo marito, il suocero, il pope, la cameriera) non cessano di perseguitarla, sottolineandone il fallimento. La dannazione di questa Lady Macbeth della profonda provincia russa è quella di non riuscire a uccidere neppure se stessa: al calare del sipario l’omicidio-suicidio non si è ancora compiuto, si trascina in una lancinante agonia che restituisce in tutto il suo orrore sospeso il carattere di autentica disperazione della musica di Shostakovich. Non mancano sottolineature di dubbio gusto (la sensualità fin troppo caricata della scena di Aksin’ja, il bambolotto fatto a pezzi dalla protagonista nel prefinale), ma un’idea registica (per giunta compatibile con quanto previsto dall’autore) è presente, la capacità di realizzarla, in linea di massima, anche. Vorremmo poter dire lo stesso di altri allestimenti, ben più blasonati e, quel che più conta, profumatamente pagati.

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