Die Soldaten alla Scala: anestesia di un capolavoro

bernd-alois-zimmermann100~_v-img__16__9__l_-1dc0e8f74459dd04c91a0d45af4972b9069f1135Confesso che nemmeno nei sogni più audaci avrei immaginato di poter vedere il capolavoro di Zimmermann rappresentato in quel di Milano: alla Scala poi! Eppure sabato 17 gennaio Die Soldaten ha fatto il suo debutto sul placido palco del Piermarini: lo stesso palco che accolse il Wozzeck di Berg tra urla belluine e “viva Verdi” sbraitati polemicamente…un bel passo avanti, dunque, visto che la prima di sabato scorso non ha destato particolare scandalo, né reazioni di rifiuto (anzi, si può parlare di un franco successo con una sala certamente non esaurita, ma neppure semi deserta). Zimmermann compose l’opera – tratta da un lavoro teatrale di Jakob Lenz – nel 1960, ma fu eseguita solo 5 anni dopo e in una versione ampiamente rivista dall’autore: in origine infatti erano previste dodici orchestre e una quarantina di parti (tanto che Sawallisch definì l’opera “ineseguibile”). Die Soldaten è composta secondo la tecnica seriale (dodecafonica), pur con ampie deviazioni ispirate al jazz, alla polifonia rinascimentale e ai corali bachiani e prevede un organico complesso: 26 parti (cantate e recitate), un’orchestra di almeno 100 elementi (con strumenti particolari che vanno dal clavicembalo ad un vasto assortimento di percussioni), una jazz band, un secondo gruppo di percussioni, nastri con musica registrata da diffondere tramite amplificatori in certi punti della sala, proiezioni, voci e rumori. La materia suddivisa in 15 scene non collegate tra loro da specifiche connessioni temporali (in contrasto all’unità aristotelica, rigettata polemicamente da Lenz nel suo dramma), tratta il tema della brutalità del mondo militare e dell’orrore della guerra che trasforma gli uomini in bestie e che travolge nel suo abisso di immoralità anche le creature più innocenti: è la storia di Marie, figlia di ricchi borghesi che rinuncia ad una relazione onesta per passione di un nobile viziato il quale, stancatosi presto della donna, la trasforma nella puttana del suo reggimento, offrendola ai suoi attendenti sotto gli occhi disgustati del primo fidanzato (arruolatosi per conoscere la sorte della sua amata). L’opera si conclude con Marie – la protagonista – che ormai priva di ogni dignità morale si prostituisce in strada ed elemosina un po’ di carità a suo padre, che neppure la riconosce e la scaccia schifato. Un lavoro di forte impatto, violento e spietato che denuncia con rabbia di musica e testo la disumanità della guerra che divora uomini e valori. Questo tema incandescente è svolto da Zimmermann con un uso virtuosistico dell’orchestra che spazia in ogni genere pur rimanendo ancorata al rigore del serialismo e all’adozione di formule classiche: ognuna delle 15 scene è scritta secondo uno stile musicale differente (strofa, ciaccona, notturno, corale, ricercare, toccata, rondò…etc. recuperando persino forme preclassiche). Gli strumenti creano un magma sonoro in cui si alternano delicate e diafane strutture sonore intessute di lirismo a tellurici movimenti di percussioni e fiati a cui si intrecciano gli effetti registrati, i suoni provenienti dalla sala e le voci. La scrittura vocale è di estenuante difficoltà e complessità pari a quella orchestrale: il canto si alterna al parlato e allo sprechgesang senza soluzioni di continuità e le tessiture sono proibitive tra vere e proprie colorature, intervalli dal grave al sovracuto ed elaborati contrappunti di difficilissima esecuzione. Di tutto questo “pugno nello stomaco” alla Scala si è sentito solo una parte: sia nell’esecuzione musicale  che nella realizzazione scenica. Proprio da questa comincio. Com’è noto lo spettacolo è stato pensato per Salisburgo, precisamente per l’immenso palco della Felsenreitschule che si sviluppa in orizzontale lungo una teoria di archi. Alvis Hermanis è dunque costretto a ripensare l’impianto in verticale: gli archi sono ricostruiti su due piani così che mentre a Salisburgo le diverse azioni si svolgevano lungo il palco, ora si svolgono su due livelli. La scena è fissa e rimanda ai diversi ambienti con pochi ed efficaci elementi decorativi. L’ambientazione può essere ricondotta al primo conflitto mondiale. Il regista però, messo di fronte alla violenza di un testo di rottura, opta per una scelta discutibile (forse motivata dall’intento di rendere più fruibile l’opera): edulcora il messaggio attraverso un naturalismo che normalizza la violenza, la storicizza e, in sostanza, la anestetizza in quadri di vita borghese. Sparisce il sangue, sparisce la rabbia, sparisce la sopraffazione morale e fisica…pure il sesso – dichiarato dal regista come motore mobilissimo della vicenda di sopruso – è più accennato che reale e vitale: il tutto si esaurisce nella proiezione di vecchie fotografie (dei primi del ‘900) che ritraggono donne nude secondo una “pornografia” vintage che non scandalizzerebbe nemmeno il più intransigente moralista, nel mimare un accenno di masturbazione collettiva (con le mani pudicamente nascoste nei pantaloni) e in scene di presunti stupri in realtà rese invisibili dalla paglia. Ma Die Soldaten deve scandalizzare, deve disturbare l’occhio e, soprattutto, la coscienza di chi guarda. Certo lo spettacolo rimane coinvolgente e ben fatto, ma l’opera di Zimmermann perde, secondo me, uno dei suoi tratti peculiari. Lo stesso problema emerge nella didascalica realizzazione musicale di Ingo Metzmacher: precisissimo e attento concertatore che riesce a dominare una partitura di estrema complessità, ma che sacrifica alla chiarezza espositiva quella violenza disturbante che è cifra fondamentale del capolavoro di Zimmermann. L’orchestra risponde molto bene alla bacchetta espertissima in tale repertorio (solitamente rifuggito dai direttori più in vista in un curioso parallelismo col melodramma italiano), si nota la preparazione e la concentrazione, ma oltre alla bellezza formale del suono e alla sua compostezza non traspare quella rabbia che esplode dalle pagine della partitura. Tutto è perfettamente chiaro e ogni effetto è studiato e riprodotto con precisione, ma sembra come trattenuto per non urtare troppo la sensibilità del pubblico. A ciò contribuisce anche la discutibile scelta di non includere nel finale le registrazioni previste in partitura: alla Scala – come a Salisburgo – l’opera si chiude con il soliloquio di Marie alternato al Pater noster sull’incalzante ostinato dei timpani che si accresce in tensione e volume sino all’urlo finale per poi dileguarsi nel RE all’unizono tenuto sino a svanire nel silenzio. In quel putno Zimmermann aveva invece previsto l’intrecciarsi delle voci dei soldati e il passo cadenzato della marcia sino allo strillo non della sola Marie, ma collettivo in una pessimistica espressione di tragica angoscia (nella concezione di Zimmermann le voci delle vittime di un’esplosione atomica). Anche in questo caso si perde un tratto peculiare dell’opera: l’abisso generale che diviene fossa comune delle coscienze sigillata dall’urlo di sfogo collettivo è banalizzato in una borghese vicenda di decadimento individuale, come una Butterfly qualunque che muore sola nella sua singolarità. Intendiamoci: anche la realizzazione musicale è stata superiore alla media scaligera, ma mancava quel senso di angoscia comune che deve colpire, smuovere e scandalizzare l’apatia del pubblico, non anestetizzarne la coscienza. Poche parole sul cast che è stato nel complesso molto buono e ha saputo venire a capo dell’immensa partitura, con menzione particolare per la Marie di Laura Aikin, il Desportes di Daniel Brenna (che deve affrontare una scrittura delirante) e lo Stolzius di Thomas Bauer. La veterana Gabriela Beňačková, invece, pare davvero affaticata, in una parte che comporta pericolose scalate in acuto. Infine non manca un po’ di fauna e colore locale: Die Soldaten non deve piacere certo a tutti, ma chi va ad ascoltarla a teatro dovrebbe essere consapevole che non si tratta di Rossini o Verdi…ma siamo pur sempre a Milano e così non è mancato chi al termine si è sonoramente lagnato perché “preso in giro” e perché “siam messi male a fare quella roba qui”… Sì, siamo messi malissimo se un certo settore del pubblico (che per età avrebbe potuto vedere dal vivo la Ponselle) imputa a Zimmermann di non essere Donizetti.

Si offre in ascolto non una selezione dell’opera, ma la sinfonia vocale che Zimmermann scrisse tra il 1959 e il 1963 tratta dalla materia musicale della prima versione del suo lavoro.

Gli ascolti:

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4 pensieri su “Die Soldaten alla Scala: anestesia di un capolavoro

  1. Olivia mi invio’ un DVD mi pare con l’esecuzione di Salisburgo del 2012,ed io avevo solo ascoltato , in CD, quella di Stoccarda del 1989 ( bellissima !)
    A mio modesto parere andrebbe eseguita piu’ spesso, senza edulcorare niente.

  2. Ero in sala sabato sera, e concordo con te sull’importanza dell’evento, a prescindere dalle modalità discutibili con le quali la produzione è stata importata da Salisburgo. Non sono invece molto d’accordo con quanto dici sul carattere anestizzante della regia. In generale non credo che la parte visiva avrebbe dovuto essere più diretta e “scioccante”, visto che in realtà il libretto di Zimmermann conserva in gran parte il carattere di “tragedia borghese” del dramma di Lenz (si tratta comunque di un caso di Literaturoper). Poi certo, Zimmermann trasfigura la sua fonte a un livello di significati universale e sovratemporale: ma non è tanto l’orrore della guerra e la disumana condizione dei soldati ad essere al centro (anche se il tema è recuperato un po’ in extremis nell’ultima scena con le didascalie che alludono a una fantasmagorica sfilata dei caduti), quanto più in generale all’inevitabile condizione umana di sconfitta e sopraffazione. Per cui anzi, per me di sesso e violenza ce ne è stato fin troppo, e non per pruderie ma per il solito buon vecchio discorso, che se vale per il Gesamtkunstwerk di Wagner tanto più deve valere qui: Zimmermann ha pianificato l’opera nei minimi, complicatissimi dettagli sia dal punto di vista musicale che da quello scenico-visivo. Eppure anche qui si è attuata la consueta dicotomia: attento rispetto delle indicazioni musicali con spazializzazione, altoparlanti in sala ecc., mentre le complesse indicazioni sceniche sono state allegramente disattese. A soffrirne è stata soprattutto la prima scena del quarto atto, che nelle intenzioni di Zimmermann doveva stagliarsi sul resto del dramma come un momento a sè, onirico, brechtianamente straniato e multimediale, con la proiezione di tre filmati deputati a narrare momenti chiave della vicenda. Qui invece i tre proiettori prescritti non ci sono stati, e le modalità rappresentative non si sono sostanzialmente discostate dal resto dell’opera. Ecco, questo sì che avrebbe dovuto risutare un momento scioccante, anche perché il nucleo drammarico della scena è lo stupro subito da Marie: solo che la regia ci ha precedentemente mostrato Marie rimanere incinta e abortire (situazioni completamente assenti in Lenz e in Zimmermann) per cui anche il momento della violenza è risultato in realtà piuttosto depotenziato. Un precedente eccesso di invenzioni “forti” ha in sostanza indebolito la climax. Detto questo, lo spettacolo mi è sembrato visivamente buono, ed è certamente vero che, in questo contesto culturale e musicale, situazioni sceniche caricate ed eccessive risultano meno estranee e fuori luogo che in Haendel o in Donizetti: e probabilmente se la regia avesse “osato” ancora di più, secondo i tuoi desideri, avrebbe effettivamente funzionato. Resta però che Zimmermann ha certamente riflettuto sui minimi dettagli della sua realizzazione scenica ben più di quanto avrebbero potuto fare Haendel o Donizetti, ma di quanto da lui ideato si è visto solo una parte…

  3. Io credo che proprio l’aver uniformato il carattere di ogni scena con timidi richiami all’aspetto sessuale (accennati in modo da non disturbare, ma reiterati per tutti i quattro atti così da assuefare lo spettatore), abbia compromesso – e non poco – l’impatto di alcune scene, oltre ad aver ridotto la complessità del messaggio ad un’unica componente borghese. Francamente credo che la vicenda di Marie sia solo un pretesto, per Zimmermann, per parlare d’altro, ossia della disumanizzazione attraverso la perdita di valori in un vortice che pare non salvare nessuno. L’aspetto di tragedia collettiva – e la guerra ne è solo l’occasionale esemplificazione, d’accordo, così come il riferimento al militarismo è funzionale a veicolare il messaggio – è sacrificato a favore della vicenda individuale. Mi è sembrato ricondursi troppo a Wozzeck che – pur modello tenuto presente (e abbondantemente citato dai commentatori dell’opera) – mi pare ideologicamente distante. Critiche analoghe vi sono state anche all’indomani dello spettacolo di Salisburgo (eccessivamente rassicurante e didascalico). Ben altro impatto ha avuto, per me, l’edizione messa in scena a Monaco (che vidi in streaming sul sito del teatro). Dal punto di vista musicale, pur riconoscendo i meriti di Metzmacher e la sorprendente performance dell’orchestra scaligera, ribadisco le mie sensazioni e continuo a trovare poco giustificabili le omissioni di una parte fondamentale (ma credo che fosse funzionale alla visione registica, tutta incentrata sul dramma borghese). Così come sbagliata è stata l’omissione delle proiezioni.

    • Ho assistito all’opera Martedì scorso, e sono felice di non essermela persa!

      Contrariamente alle impressioni che ho avuto ascoltando alcune registrazioni dell’opera per “prepararmi”, dal vivo ho trovato la musica splendita, sempre coinvolgente, a tratti commovente.
      Complice l’impeccabile bacchetta di Metzmacher, che ha reso con meticolosa precisione la monumentale partitura, conferendo, a mio avviso, un’atmosfera ancora più inquetante in quanto il pianificato e consapevole cammino verso la rovina non sembra riferirsi a eventi di brutalità eccezionale, come può essere la guerra.
      In questa lettura sembra che nessuno sia veramente cattivo o perverso, o meglio, lo sono tutti ma all’interno di limiti socialmente accettati e ciò che accade non può essere imputato a nessun evento catastrofico se non all’uomo stesso.

      Per questo motivo ho apprezzato molto anche la regia di Hermanis, che, risparmiandoci scene troppo violente o “scandalose” a cui, ormai, siamo comunque anestetizzati, ha invece messo il punto su come la guerra sia solo un pretesto per enfatizzare quella perdita di valori che ha travolto l’umanità, ponendoci in una situazione di confronto diretto con la musica senza assolverci come se si parlasse di qualcosa che non riguarda noi o la nostra epoca.
      Ho trovato, in questo senso, particolarmente azzeccato l’utilizzo della paglia, che mi ha ricordato gli “Hollow Men” di eliottiana memoria a simboleggiare questa assenza di punti di riferimento (ma probabilmente questa è solo una mia elucubrazione mentale).
      L’ineluttabile catastrofe si intuisce sin dal momento in cui Desportes sistema i covoni di paglia che porteranno l’inesperta Marie a rimanerne con lui avvinta, tanto da restarne presto fecondata.
      Ormai riempita da questo senso di vuoto interiore non può più farne a meno, per questo scapperà dalla sua unica possibilità di salvezza, preferendo rimanere ingabbiata, ma comunque “alimentata” da questa sorta di droga di cui ha sempre più bisogno, rendendole ormai impossibile ogni rapporto con chiunque ne sia estraneo, compreso il padre.

      Insomma, credo che la complessità del messaggio non sia stata disattesa, anzi, penso che la mancanza di scene di forte impatto metta ancor più l’accento sull’aspetto di tragedia collettiva a cui giustamente fai riferimento, e che (forse) l’inserimento di scene più urtanti, non avrebbero arricchito il messaggio, che comunque a mio avviso è uscito palese e inequivocabile.
      Spero di poter assistere presto a un’altra rappresentazione (magari più cruenta) in teatro in modo da poter fare un adeguato confronto.

      Rimane comunque una bellissima Opera. Non fosse stata l’ultima rappresentazione l’avrei rivista di sicuro una seconda volta!

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