Vivaldi secondo Manuel Garcia

VivaldiAntonio Vivaldi rappresenta un bizzarro e decisamente anomalo caso di “fortuna sfortunata”. Pochi compositori italiani (e non) possono vantare la fama internazionale e successo discografico pari quella di cui gode il prete rosso. Peccato però che sia allo stesso tempo uno dei meno veramente conosciuti e forse più sottovalutati della storia della musica occidentale. Le immani fatiche che critici, storici della musica e musicisti (dal Alfredo Casella e Pier Francesco Malipiero in poi) hanno compiuto e continuano a compiere per far andare oltre il pubblico attuale lo stereotipo di Vivaldi “compositore delle Quattro Stagioni” hanno certo dato i suoi frutti. Pochi, non sempre buoni, e soprattutto non sempre accolti positivamente dal pubblico.
Questa sfortuna però non è certo recente, anzi, si potrebbe addirittura far risalire agli ultimi anni di vita di Vivaldi quando, abbandonata la brillante carriera da concertista e maestro di musica presso l’Ospedale della Pietà e convinto dal brillante successo dell’ “Ottone in Villa” (1713), decise di riciclarsi come impresario teatrale. Dopo quasi 26 anni di produzione (fino al 1739) e circa 50 opere composte (in parte o totalmente), Vivaldi iniziò a non riscuotere più il successo degli anni giovanili: le sue opere, spesso “pasticci”, nella morbosa necessità di nuovo del pubblico europeo, finirono presto nel dimenticatoio. Stessa sorte, anche se più lenta, la ebbe la sua musica strumentale che però riuscì pallidamente a sopravvivere grazie al lungimirante editore francese radicato ad Amsterdam Estienne Roger che ne permise una estesa diffusione e ad un compositore che sui concerti di Vivaldi formò la sua esperienza musicale, trascrivendone alcuni per tastiera: Johann Sebastian Bach.
Dopo la sua morte, la musica, strumentale e non, per secoli venne completamente dimenticata riemergendo qua e là grazie ad alcuni metodi ottocenteschi per violino (metodi che però prediligevano le musiche di un Corelli o di un Tartini) e ad alcuni intraprendenti violinisti quali Fritz Kreisler che attorno al 1905 attribuì a Vivaldi dei pastiche in stile “veneziano” composti di suo pugno per provare a stimolare un certo interesse in questo allora ignoto violinista barocco. Questo silenzio si iniziò a rompere attorno agli anni 20′ e 30′ del XX secolo quando vennero ritrovati a Torino una quantità innumerevole di concerti, sonate e melodrammi di Antonio Vivaldi, spartiti che di lì a poco avrebbero costituito il ricchissimo fondo Giordano – Foà. Le prime esecuzioni di queste affascinanti scoperte iniziarono ad essere eseguite, per un pubblico estremamente ristretto, durante un Festival diretto da Alfredo Casella presso l’Accademia Chigiana (1930-1941), senza però riscuotere una immediata diffusione in scala nazionale, anche perché in quegli anni l’Italia aveva ben altro a cui pensare…
In questa piccola avventura il ruolo più sfortunato è spettato senza alcun dubbio alla musica sacra. La musica strumentale infatti, riuscì a trovare, dopo le effimere esecuzioni senesi, un terreno fertile forse anche perché fu capace di colmare, nel pubblico e più in generale nel mondo musicale italiano, quel vuoto sinfonico o strumentale che aveva caratterizzato la nostra storia musicale. Fatto sta che i vari concerti per violino o per più strumenti iniziarono poco a poco a diffondersi nel gusto e nei programmi delle sale da concerto, prima grazie a bacchette come Arturo Toscanini e Gino Marinuzzi (commovente ammiratore del barocco italiano) e alle loro trascrizioni e poi ad esperienze più consolidate come quella de “I Musici”, fondati a Roma nel 1952.
La musica sacra, dicevamo, ebbe invece una storia ben diversa. A parte il celeberrimo e bistrattato Gloria in Re Maggiore RV 589, i vari mottetti, salmi, cantate e il grande oratorio “Juditha Triumphans” rimasero in silenzio. Basti pensare che le incisioni riguardanti questo repertorio, prima del 1965, includevano solo il Gloria RV589, il Nisi Dominus RV608, il Dixit Dominus RV595 e il Magnificat RV610. Solo negli anni 70′ emersero alcune interessanti incisioni tra cui vale la pena citare quella del suddetto Gloria e del Magnificat RV 611 (ed. Malipiero) nel 1977 con Riccardo Muti, Lucia Valentini-Terrani e Teresa Berganza, cantante che negli stessi anni incise, con scarso successo discografico, alcuni mottetti tra cui lo splendido “Nisi Dominus”. Questo primo ciclo di registrazioni vivaldiane si concluse con l’incisione integrale, ma non felicissima sotto il profilo vocale, del “Juditha Triumphans” con Julia Hamari e Birgit Finnilä nel 1975. Da quel momento in poi il silenzio…disturbato nel nuovo millennio dalle infelici vocine di Simone Kermes e Patrizia Ciofi e dei vari controtenori di cui credo superfluo indicare i nomi. Voci che, oltre ad alimentare il loro vuoto divismo grazie alle grandi ed affamatissime major discografiche, hanno offerto al grande pubblico delle incisioni musicali, travestite da falsa filologia, che hanno trasmesso un messaggio non solo spiacevole nella forma ma addirittura errato nel contenuto. Forse l’unico merito, bisogna riconoscerlo, è stato quello di risvegliare nel pubblico un certo interesse verso questo repertorio prima quasi totalmente sconosciuto.
L’opportunità di rivolgersi alla musica sacra venne offerta ad Antonio Vivaldi dall’assenza di Francesco Gasparini, suo collega presso l’Ospedale della Pietà, dove svolgeva l’incarico di maestro di coro. Un documento del 17 marzo del 1715 indicava Vivaldi come il destinatario di una eccezionale retribuzione di cinquanta ducati “per le vertuose composizioni in musica contribuite dopo l’absenza del maestro Gasparini”. Considerando gli incarichi a cui i maestri di coro erano tenuti a compiere presso gli Ospedali veneziani (come indica una “Incombenza dei maestri di Choro” di Venezia datata 6 luglio 1710), Vivaldi avrebbe dunque dovuto sostituire l’anziano collega (che sarebbe morto nel 1727) nella composizione di due messe e due vespri nuovi per le Feste di Pasqua e per la “Visitatione della Beatissima Vergine” (a cui era ovviamente dedicata la cappella dell’Ospedale della Pietà), oltre a due mottetti a scadenza mensile e “qualunque altra compositione li venisse ordinata”. A ciò si sarebbe aggiunto l’obbligo di assistere in coro a tutte le Feste del Calendario Liturgico e lasciare copia di tutte le sue composizioni di cui l’istituto si riservava il diritto di esecuzione. Occorre però, prima di procedere, soffermarci più precisamente sulle attività e sul funzionamento di questo Ospedale concentrandoci ovviamente sulla parte vocale e corale delle sue attività a cui le informazioni fino ad ora esposte fanno riferimento.
Per “ospedale” a Venezia si intendevano istituzioni di beneficenza che accoglievano orfane, trovatelle, figlie illegittime o povere per crescerle fino all’età adulta (e quindi per sposarsi). Tra le diverse attività che venivano svolte in questi istituti centrale era appunto quella della musica, attività per la quale l’Ospedale della Pietà, tra i quattro presenti nella città lagunare, godeva della fama più grande. Fondato nel 1346, questo istituto arrivò a contare nel XVII secolo più di 500 fanciulle (nel XVIII pare che il numero avesse raggiunto il migliaio). Queste fanciulle erano divise in due gruppi: le “figlie di comun”, che ricevevano un’educazione generale, e le “figlie di coro” destinate invece ad intraprendere un percorso musicale strumentale e vocale. Lasciando da un lato il primo percorso su cui le informazioni sono più sicure, i dati storici sull’insegnamento della musica vocale appaiono ancora oggi parzialmente incerti. Quello che sappiamo è che il coro comprendeva circa 18 elementi (dati risalenti al 1745, pochi decenni dopo la docenza vivaldiana), divisi nelle quattro sezioni tradizionali, soprani, contralti, tenori e bassi, guidati nell’insegnamento e nell’esecuzione dal maestro di coro. Se, è inutile sottolinearlo, non vi è alcun dubbio su chi cantasse i registri dei soprani e contralti, trattandosi appunto di composizioni per la maggior parte scritte per istituti femminili, per quanto riguarda invece i registri maschili ancora oggi vi sono grandi incertezze. Se erano tutte donne, chi cantava le parti maschili? Secondo Walter Kolneder, autore di una delle prime grandi biografie del Prete Rosso pubblicata nel 1978, queste parti venivano cantate da elementi esterni, ossia da coristi provenienti da cappelle vicine. Michael Talbot, autore di un più recente studio critico mette però in discussione questa ipotesi sostenendo che i maestri di sesso maschile avevano particolare attenzione nel mantenere le distanze dalle allieve. Secondo il musicologo inglese infatti, i registri di tenore e basso venivano cantate dalle stesse fanciulle, causando ovviamente un notevole stupore in un pubblico che se era abituato a sentire ruoli femminili cantati da maschi, di certo non era avvezzo alla situazione opposta. Qualunque sia stata la realtà in questo senso (anche se l’ipotesi di Talbot mi pare un po’ più forzata), possiamo però affermare con certezza che nel repertorio sacro, di castrati, a parte qualche raro caso, non si vedeva manco l’ombra. Interessante in questo senso appare la lista, giuntaci completa, del “cast” del primo oratorio vivaldiano, di cui non ci è però giunto lo spartito, “Moyses Deus Pharaonis”, eseguito presso La Pietà nel 1714: Moyses – Barbara; Aaron – Candida; Elysabeth Aaron Uxor – Silvia; Maria soror Moysis et Aaron – Michielina; Pharao Egypti Regi – Anastasia; Sapiens primus – Soprana; Sapiens secundus – Meneghina. Dunque, al di là del sesso e in alcuni casi dell’età (di solito ragazzine poco più che adolescenti), poco altro si sa sulle prime interpreti delle musiche sacre di Antonio Vivaldi. Poco si sa sulle loro qualità vocali, così come sulle esecuzioni vocali. Le fonti, spesso celebri e ben dettagliate, riguardano quasi solamente i concerti strumentali guidati dallo stesso Vivaldi, concerti la cui qualità secondo alcuni superava persino quella della celeberrima orchestra dell’Opera parigina. Per quel che riguarda l’esecuzione vocale, pur non avendo fonti dirette, possiamo però dire che un Ospedale di tal fama, il più famoso a Venezia e capace di attirare intellettuali e sovrani da tutta Europa, difficilmente avrebbe potuto permettere uno squilibrio qualitativo tra esecuzioni strumentali e vocali. Squilibrio che oltretutto nessuno degli eccellenti compositori che per secoli hanno insegnato in tale istituzione avrebbe potuto consentire.
La musica sacra di Vivaldi non desta mai particolare interesse. Di certo non raggiunge la profondità e la grandezza delle cantate di Bach o degli oratori di Handel ma presenta delle caratteristiche decisamente interessanti e che forse la rendono addirittura più suggestiva sotto molti punti di vista rispetto al repertorio operistico, repertorio che invece presenta aspetto meno originali. Quello che emerge subito è l’abile uso orchestrale di inconfondibile stampo vivaldiano, spesso apparentemente ripetitivo nella organizzazione di incisi ritmici e armonici così come nelle frasi melodiche ma comunque caratterizzato dal solito gusto fresco e ampio, ricco di attraenti e brillanti ritornelli. La linea vocale è sempre sapientemente scritta, e, pur tendendo ad apparire come non particolarmente complessa nel virtuosismo e nel contrappunto (nel caso di più voci), presenta però elementi e momenti che comunque riescono a mettere a dura prova anche le voci più solide dando loro anche l’opportunità di sfoggiare qualità quali il fraseggio, discreto gusto espressivo, mezze voci e legato. Tutto ciò, e tanto altro, è la musica sacra di Antonio Vivaldi, un raffinato ed interessante testimone del grande barocco veneziano, su cui credo sia necessario fare un po’ di luce al di là di astratte e accademiche elucubrazioni filologiche.
Dunque, iniziamo oggi un breve percorso che, a tappe settimanali, affronterà con chiarezza e semplicità alcuni dei salmi e mottetti più significativi (uno spazio a parte sarà riservato all’oratorio “Juditha Triumphans” la cui genesi e struttura musicale richiede appunto un’analisi diversa) non solo per cercare di andare oltre quello che alcuni interpreti contemporanei vogliono venderci come autentico e filologico (e che spesso altro non è se non frutto di geniali politiche discografiche), ma anche e soprattutto per cercare di liberare l’immagine di Vivaldi da tutti quei oscuri preconcetti che certa musicologia ci ha abituato ad avere nei suoi confronti e spolverare un repertorio che per troppo tempo è stato messo da parte.

Manuel Garcia

40 pensieri su “Vivaldi secondo Manuel Garcia

  1. Francamente trovo che oggi Vivaldi sia molto eseguito e inciso. Altro che silenzio o la solita tirata contro la filologia vista come male assoluto! Oggi Vivaldi lo fanno pure a teatro, cosa inaudita solo 30 anni fa (a parte i tentativi non certo riusciti del pessimo Scimone). E poi, scusa, ma quali sarebbero le majors del disco che pubblicano il Vivaldi modaiolo? A parte che l’ossessione per tali presunte majors è quanto meno superata – mi pare analoga a quella di Berlusconi per i comunisti – ma sai chi pubblica la maggior parte delle incisioni vivaldiane di questo millennio (perché piaccia o no siamo nel 2015 e la vita continua anche senza i cilindri a cera)? La Naive, la Hyperion, la Naxos, la CPO (con l’ottimo Sardelli), la Tactus, la Oiseu Lyre…e queste sarebbero majors??? Quanto alla crociata contro la filologia mi chiedo che senso abbia oggi. Poi le mezze voci e le legature: mi piacerebbe vedere dove sarebbero scritte in partiture assai parche di segni espressive. Prima di parlare di elucubrazioni bisognerebbe avere un maggior atteggiamento critico verso la cosiddetta tradizione, troppo spesso qui ritenuta un dogma di fede.

    • Beh Decca e Naive credo che comunque valgano come majors, ma non è la fama della casa discografica (anche se ormai sono due case famose) ma quel che c’è dietro il disco che rappresenta il problema delle recenti incisioni.
      Qui non è questione di tradizione o no, è questione di fatti storici, di vibrato o non vibrato, di corde di budello costruite in certo modo rispetto alla verità, di tecniche e pratiche di canto che non hanno alcuna base storica. La tradizione ha il suo ruolo è non va affatto disprezzata: questo non vuol dire amare il bach strumentale di busch e disprezzare quello di pinnock (il più bello). Si tratta di coerenza, qualcosa che gli interpreti barocchi a volte mi pare lascino da parte per supportare teorie fragili ed inesistenti.

    • ” L’ ottimo Sardelli” ? Con i suoi tempi di volta in volta nevrotici o catatonici, le strappate degli archi, lo sferragliare ferroviario del cembalo, le dinamiche casuali e meccaniche, la (ricercata ?) secchezza e bruttezza del suono, il nessun gusto interpretativo, Sardelli è l’epitome (per ora) dell’ incomprensione vivaldiana: una specie di Bartoli della musica strumentale. Dico “per ora”, perché il peggio non è mai morto…

      • Ma che stai dicendo? Evidentemente non sai di cosa parli o non hai mai sentito Sardelli o ti confondi con altri o pensi che Vivaldi debba suonare come nelle orribili incisioni di Karajan o come Rondò Veneziano o trasformato in melodramma con birignao dei residuati bellici a cera… E poi che palle con la storia del tanto peggio tanto meglio e dell’eterna decadenza…

        • Caro Duprez, calma e camomilla. Ho sentito Sardelli (i suoi dischi, cioè) e ne ho tratto la motivata impressione che ho esposto. Lei non dice nulla che serva a farmi cambiare parere. Il Vivaldi di Von Karajan non mi piace; il Rondò Veneziano lo lascio a lei. Ma il Vivaldi di Bernardino Molinari, o dei Musici, tanto per fare qualche esempio, continua a piacermi molto più di Sardelli e soci. Del resto, se i suoi gusti vivaldiani sono conformi al suo stile di prosa e alla mentalità che ne traspare, non mi stupisco che le piaccia Sardelli.

          • Caro Ernani, se credi mi interessi farti cambiare parere ti sbagli di grosso…anche perché del tuo parere “francamente me ne infischio” (o me ne sbatto o me ne frego…scegli tu): non si può cavare il sangue dalle rape. Ti lascio volentieri Rondò Veneziano e l’orizzonte estetico che rappresenta…e pure la crociata contro filologia o interpretazioni diverse da quelle a cui sei abituato (non sia mai che un dubbio scalfisca le certezze più granitiche). Quanto alla mia prosa e alla mia mentalità direi che non è una questione che ti riguardi. Se trovi entrambe insopportabili non leggermi, non te lo prescrive il dottore di certo. Non sentirò assolutamente la mancanza. A proposito, dici di aver motivato il tuo parere…a me non pare (salvo il copia/incolla delle consuete fesserie da profeti della decadenza), ma ripeto, me ne frego pure di quelle.

  2. L’apertura di una rubrica su Vivaldi è una bellissima iniziativa, però – perdonatemi – mi sembra che l’incipit sia davvero infausto: in che modo commentare altrimenti la frase “La musica sacra di Vivaldi non desta mai particolare interesse” ? Allora – verrebbe da rispondere – perché ne stiamo parlando?
    E poi, eccolo lì, inesorabile ed onnipresente, il confronto con Bach ed Haendel. Si potrebbe rispondere che pagine come il Gloria, il Nisi Dominus, lo Stabat Mater, per non parlare del sublime Credo RV591, sono lì a dimostrare la statura del Prete Rosso, ma vorrebbe dire stare al gioco, a questa assurda smania di confrontare tra loro realtà musicali che si incrociavano – è vero – ma mantenevano comunque profonde differenze stilistiche. E’, insomma, l’eterna disputa Verdi-Wagner che si ripresenta, mutatis mutandis. Proprio non si riesce, nel 2015, a superare l’ideologia del “superiore/inferiore”, per passare a quella del “differente”?

    • Beh in realtà confrontare non significa giudicare. Personalmente trovo molto interessante confrontare le diverse realtà tra loro contemporanee perché la musica nkn va a compartimenti stagni e solo storicizzandola se ne comprende l’evoluzione. Lo scontro Verdi-Wagner è opera solo dei tifosi (soprattutto del primo), ma non porli a confronto è sciocco

      • Caro Duprez, sai benissimo che lo scontro Verdi-Wagner è, in primis, opera di Wagner stesso, che faceva finta di non sapere chi fosse e cosa scrivesse Verdi. Quanto ai tifosi di Wagner, non sono meno grotteschi di quelli verdiani, sono solo meno ruspanti e più travestiti da fini intellettuali…

        • Capisco che la tua fede verdiana ti porta a ridisegnare la realtà, ma mi spieghi come è mai possibile che lo scontro fosse voluto da Wagner quando Wagner non ha MAI parlato o scritto di Verdi??? Al contrario dell’italiano che non spese certo parole gentili per il collega tedesco. Francamente poi, non trovo scandalose le “guerre” tra compositori (o meglio tra diversi modi di concepire la musica): ci sono sempre state…dalla “querelle des buffones” alla rivalità Gluck/Piccinni, dalle resistenze alla rivoluzione wagneriana ai contrasti tra tardo romantici e “moderni”. Sono molto più penose le odierne guerre tra fan…

          • C’era davvero bisogno di mettere in discussione la mia lucidità mentale?

            (e pensare che nella seguente discussione sulla filologia ero pure d’accordo con te…)

          • Ma chi mette in discussione la lucidità mentale? Ribadisco che il problema, come sempre, sono i fan…personalmente ho avuto le peggiori esperienze coi “verdiani” osservanti

    • “non desta mai…” nel senso che il pubblico non ha mai mostrato particolare interesse né reagito con interesse verso questo repertorio. Infausto come inizio? Beh forse… m aspero i prossimi ascolti siano in grado di cambiare questa sua idea…
      Se ne parla perchè è un repertorio che merita maggiore attenzione. Così come si è fatta la Verdi Edission ai tempi analizzando opere poco conosciute e non sempre di altissimo valore del Cigno di Busseto, così oggi, con le dovute differenze, si affronta un momento essenziale della storia della musica italiana.

      Il confronto credo che sia essenziale soprattutto in un’epoca di grande dialogo culturale tra le varie zone geografiche. Essenziale per capire elementi, fenomeni, strutture e caratteristiche del linguaggio musicale dell’epoca.

      • Credevo fosse evidente che con “confronto” non intendevo lo studio delle differenze e delle similitudini stilistiche, ma l’assurda gara o gerarchia che si vuole a tutti i costi stabilire (ho concluso con <>).

          • Siccome non ci si intende, il mio riferimento era alla frase “Di certo non raggiunge la profondità e la grandezza delle cantate di Bach o degli oratori di Handel” che esprime una gerarchia, un giudizio di superiorità/inferiorità, una valutazione quantitativa, chiamala come vuoi, che – oltre a non condividere – mi pare rappresenti un approccio poco felice e da auspicarsi superato.

  3. Le Quattro stagioni sarebbero ,a mio avviso,l’ideale punto di partenza per iniziare a conoscere la musica classica.Io le proporrei nella versione di karajan con il primo violino dei berliner,forse esagerato ma sempre meglio di quei gracchianti,scordati e filologici violini che mi e’capitato di ascoltare.Nella musica sacra mi sembra vengano riproposte,in una certa misura,le caratteristiche di quella strumentale,sicuramente un po’ripetitiva,ma affascinante ed innovativa in cui prevale il virtuoso violinista.

    • Provocazione? A me sembra solo pessimo gusto musicale e un’antifilologia assurda e ottusa…contento tu. Evidentemente non hai mai ascoltato quelle esecuzioni e parli solo per partito preso e per ideologia.

  4. Ma che vuol dire Manuel??? Quindi se una casa discografica è famosa allora è il male? Ma chi lo dice? La EMI è (era) una major, ma ci ha dato la Callas o le incisioni di Klemperer e Furtwaengler! La DECCA è una majors, ma ha avuto sotto contratto una cantante che sicuramente tu apprezzi, ossia la Sutherland. La tua beneamata Berganza era sotto contratto con la DGG. Quindi? La crociata contro le majors è un’ossessione e, oggi, una fesseria: quanto credi che incida un disco di musica classica nei bilanci della Sony? “Le majors del disco” è un mantra come quello dei comunisti che mangiano i bambini.
    E poi è un demerito essere una casa discografica famosa? La NAIVE – che includi nel novero del “grande Satana” – ha il grandissimo merito di pubblicare TUTTO il fondo Foa-Giordano in un’impresa discografica che non ha eguali nella storia del disco! Bisogna essere solo grati alla NAIVE per l’ottimo lavoro che sta facendo con la Vivaldi Edition che prosegue a ritmo sostenuto nonostante le vendite, immagino, non saranno certo paragonabili ai dischi del Concerto di Capodanno!
    Ancora questa menata della tradizione! Ma che è questa tradizione? E’ solo un fatto storico…qui invece pare che sia un dogma. Ti ricordo quel che disse giustamente Furtwaengler sulla tradizione. Tutto va storicizzato altrimenti si finisce per sostituire arbitrio ad arbitrio nel nome di un fantomatico “rispetto”. Ogni tempo suona in modo differente e oggettivamente non posso dire cosa sia giusto o sbagliato. Se non con atti di fede.
    Parli di fatti storici. Che le corde fossero di budello mi pare incontestabile (certo le tecniche di costruzione saranno differenti), che il vibrato fosse una forma di abbellimento e non il modo di suonare (manco fossimo in pieno tardo romanticismo) pure. Così come è un fatto storico che le partiture di Vivaldi fossero praticamente prive di indicazioni quali legato o mezze voci (e pure portamenti o altre svenevolezze canore).
    Infine perché non si dovrebbe amare il Bach di Busch? E magari pure quello di Pinnock (che per te sarà il più bello, ma per me no)? O non gradire entrambi? O preferire i complessi di Suzuki (per me il più bello)?
    Cosa vuol dire coerenza? Eseguire tutto allo stesso modo? Magari con orchestrone wagneriane e canto operistico declinato in chiave tardo ottocentesco? Rispettare il feticcio della tradizione? Perché se parli di teorie fragili degli interpreti barocchi, lo stesso vale per qualsiasi approccio. Francamente trovo assai poco interessante dividere l’interpretazione musicale in buoni e cattivi.

  5. Hai ragione probabilmente si tratta di gusto ma in quanto tale insindacabile.proprio in base al gusto preferisco oistrakh a manze o richter ad harnoncourt,come kubelik a pinnok ( nella water music di handel ) o il giulio cesare di rudel rispetto a quelllo di jacobs.Se ti va puoi seggerirmi qualche ascolto( cosi da megliorare il pessimo gusto musicale ) .dico davvero perche’fino ad ora non ho trovato nulla che mi piaccia.

    • In realtà non mi piace imporre ascolti o suggerimenti: ognuno ha i suoi gusti e, pur non condividendoli, li rispetto (a patto che altrettanto faccia l’interlocutore, evitando – magari – di ridurre mezzo secolo di ricerca filologica a presunti violini stonati). Posso solo elencartene qualcuno: da Hogwood a Café Zimmermann, da Suzuki a Bonizzoni, da McCreesh a Savall e molti altri…

  6. Perdonami se ti ho offeso ma sono cresciuto amando il barocco ed attingendo a piene mani dai fautori della reinassance ,quindi un po’li conosco.poi ho mutato gusto(forse orribile come dici tu ).come giudichi ad esempio il giulio cesare di rudel?

    • Trovo che il Giulio Cesare di Rudel sia veramente pessimo (Sills a parte). Pesante e monotono…non era certo un buon direttore, ma qui, secondo me, da il suo peggio trasformando l’opera di Haendel in una specie di melodramma, con una distribuzione demenziale delle parti (il Cesare di Treigle è tremendo) e tagli tanto scellerati da ridurlo, praticamente, ad una mera selezione. Neppure, sempre secondo me, ha il fascino delle incisioni storiche (come il Giulio Cesare di Leitner in tedesco), ma è un mero veicolo di esibizionismo per la primadonna di turno.

  7. D’accordo sui tagli che rendono quasi ingiudicabile l’opera stravolgendola.pero’io la trovo spettacolare,romantica,emozionante.sicuramente non rispetta le singole parti ma da’nel complesso una vitalita’e drammaticita’che non riesco a ritrovare in altre interpretazioni.certo c’e’da chiedersi quanto ci sia di handel.

  8. Infatti la premessa e’che nn e’sicuramente fedele all’originale ma una volta accettato cio’,secondo me,puo’anche far emergere quella viva drammaticita’romantica.Come nelle cantate di bach dirette da richter.una via di mezzo tra rudel e jacobs potrebbe essere un ariodante cn la sciutti degli anni ’70 pieno di tagli nei recitativi e nelle arie ma molto vitale e senza controtenori o falsettisti,che a me nn piacciono.

  9. Diciamo che io tendo ad estremizzare i concetti ( il richter romantico e’per indicare quel suono corposo e a volte anche un po pesante,rispetto alle agilita’e alle strutture piu snelle ma a volte un po graffianti dei koopman o bruggen)per esemplificare due posizioni molto diverse che certo hanno delle vie mezzo,penso alla pulizia di suono di hogwood,anche se non mi piacciono particolarmente i suoi brsndeburghesi,o di un rousset,di cui ho un bellissimo riccardo I.La mia e’pero’una posizione da dilettante,ne’da musicista professionista ne’da storico della musica.

  10. Scusate… ma in tutto questo vocio la musica dov’è finita?
    La mia posizione: d ragazzo ho odiato Vivaldi (lo giudicavo stucchevole, svenevole, “palloso”) dopo essermi sorbito le quattro stagioni con Ayo e i Musici. Poi mi capitò tra le mani il disco di Scherchen, che mi fece riflettere e rizzare le orecchie: nel “largo” dell’inverno si sentivano veramente le gocce d’acqua e poi… quel tempo teso, quasi rapinoso…
    Poi ascoltai Harnoncourt: non era bello e forse neppure originalissimo (oggi sembra stravecchio) ma… anche qui la voglia di descrivere, emozionare, forse stupire.
    A quel punto cominciai ad ascoltare più o meno tutto quello che veniva pubblicato scegliendo di volta in volta tra chi seguiva la prassi originale (non chiamiamoli “baroccari”, simili facezie lasciamole allo stadio e agli ultras con la fronte bassa) e chi trascriveva su strumenti moderni (eh, sì cari signori, molta tradizione è in realtà trascrizione, per cui esecuzioni barocche come quelle di Karajan – per altro coerente e alla fine meglio dei noiosi Musici anni ’50 – sono trascrizioni nè più nè meno di quelle bachiane di Wendy Carlos per sintetizzatore).
    Quindi mi sento di dire che posso perdermi dietro al tentativo splendente e riuscito di Bernardino Molinari di far digerire le Stagioni a persone che vedevano in benedetto croce (il minuscolo è d’obbligo) un arbitro di estetica, oppure ascoltare con piacere immenso l’infedele versione di Cantelli (la più estrema nel suo sinfonismo, tanto estrema da farmi pensare che se fosse vissuto più a lungo il grande maestro si sarebbe convertito alla prassi barocca), ma poi scegliere di ascoltare tutta la vita Carmignola e i Suonatori della Gioiosa Marca, che ho sentito pure dal vivo e che sono mostri di intonazione e forza espressiva.
    Musica Sacra? Persino le edizioni di Vittorio Negri facevano vedere la grandezza di Vivaldi. A proposito: non dimentichiamo che nel ’64 l’Angelicum pubblicò un’eccellente (per l’epoca e non solo) Juditha Triumphans con Zedda e la Dominguez)
    Opere e musica vocale? Viva Sardelli anche quando esagera (diverte sempre, da buon “Vernacoliere”). Ci sarà pure un motivo per cui è lui oggi il curatore del catalogo Vivaldiano del Ryom. Ma poi, sì anche a Rousset e agli altri che tolgono la patina del tempo da partiture spesso bistrattate da revisioni fuorvianti (anche quelle di GIAN – non Pier – Francesco Malipiero o di Casella, lo sono).
    De hoc satis, non fosse che sentir lodare Rudel e il suo giulio cesare (minuscolo ut supra) mi fa accapponare la pelle. Se proprio vogliamo un baritono come protagonista del Giulio Cesare, ascoltiamo Fischer – Dieskau con Richter – non al suo meglio ma sempre direttore affidabile, poi però passiamo a Christie!

  11. Salve! Mi chiamo Diomede, sono un amante della lirica, e mi piace molto Vivaldi e l’opera barocca.
    Ho appena scoperto questo blog e ho capito che un suo concetto basilare è quello dei “baroccari”, su cui pesa un giudizio assolutamente negativo. Con questo post mi son detto che forse capivo cosa fosse ritenuto come buon barocco, e invece capisco meno di prima.
    Magari potrebbe ciascuno spiegare quali interpreti d’opera vivaldiana considera buoni, quali cattivi e perché. Sarebbe interessante sapere che si pensa dei barocchisti/baroccari attuali o recenti (Sardelli, Spinosi, Minkowski, Curtis, etc.), in confronto con i dischi di Scimone, Malgoire, Clemencic…
    E comincio pure io: se prendo le tre incisioni dell’Olrando vivaldiano che ho, quella di Scimone mi sembra assurdissima, quella di Sardelli me sembra pessima e quella di Spinosi mi sembra una figata. Se poi prendo le due Olimpiadi, quella di Clemencic mi sembra una tortura, e quella di Alessandrini molto carina.
    Se scrivo qua non è per esprimere le mie opinioni e opporle ad altre, ma per cercare di capire meglio e considerare altri punti di vista. Quindi, benvenuto lo scambio d’impressioni e d’idee!
    Tanti saluti.

  12. Sono d’accordo con il fatto che il giulio cesare di rudel e’una mistificazione ma nella discografia per me resta il migliore.sn un amante di handel,per me il piu grande ma non ho mai trovato un’edizione discografica che mi appagasse.di nessuna opera.Sicuramente e’un errore offendere i filologi ma quando in un post precedente l ho fatto avevo appena sentito un concerto di vivaldi su youtube in cui il violinista( molto famoso) stonava di continuo.ho sbagliato a generalizzare.detto cio’il mio ottimo vivaldiano e’ad esempio menuhin per i concerti come lo e’grumiaux per le sonate di corelli.

      • Duprez potrei chiederti, da non esperto di musica sinfonica e direzione, cosa non andrebbe ad esempio nelle incisioni di Bolena (secondo me la migliore nel complesso specie per Sills e Verrett), Puritani, Thais tanto per dire quelle che conosco meglio? Grazie mille e non prenderla come una provocazione o una polemica, vorrei solo capire il tuo punto di vista e le motivazioni di chi di certo ne sa molto più di me. Chiudo dicendo che a me le suddette incisioni sembrano bellissime e non ci vedo orrori, ma sarà principalmente per i cast quantunque non perfetti in tutto.

        • Ti rispondo volentieri: trovo Rudel pesante, avaro di sfumature, chiassoso in molti punti, rumoroso quasi sempre. Il suo suono è poco curato e il suo orizzonte termina inesorabilmente ai desiderata dei cantanti. Ti faccio un esempio riferito ad una delle mie opere preferite: Puritani. Rudel si accontenta di accompagnare i suoi solisti (splendidi per carità), ma non esprime alcuna idea o suggestione…l’opera di Bellini sembra piatta e scombinata, quasi rozza e volgare. Al contrario Bonynge – direttore che non amo – esprime qualcosa in più, racconta, suggerisce. La vicenda assume gli aspetti di un affresco storico e il suono ti avvince, magari ingenuamente (Bonynge sottolinea l’aspetto melodrammatico, di cappa e spada), ma per 3 ore ti incolla all’ascolto. Con Rudel senti una serie di brani musicali separati, ognuno per sé e ognuno fine a sé stesso (con un virtuosismo canoro spesso esibito senza senso e stile), vien voglia di saltare inter brani…annoia. Idem per Bolena: Rudel non coglie nulla del personaggio e dell’affresco storico (pure la Sills non lo coglie). E così per tutte le sue esecuzione: manca carattere e personalità. Banale. Poi in Giulio Cesare raggiunge il livello più basso…lo riduce a musical.

          • Grazie della risposta Duprez :)
            Effettivamente sul fatto che ogni tanto sia un poco (non eccessivamente) rumoroso sono d’accordo, ma è oro in confronto ad altri (tipo Parry). Forse è vero che gli manca la conoscenza di certo repertorio che aveva Bonynge (che preferisco nella sua incisione dei Puritani) e quindi un senso dell’insieme così unitario, eppure trovo che Rudel sia spesso più teatrale e sanguigno (cosa che non mi dispiace se fatta con moderazione in questo repertorio) anche se meno elegante e rifinito. A me Rudel non annoia, ma questo credo sia soggettivo. Sul fatto che lasciasse fare ai cantanti invece trovo che sia un pregio, lo stesso vale per Bonynge.

            L’Anna Bolena di Rudel trovo che sia la migliore in assoluto principalmente perché integrale e per l’eccezionalità delle protagoniste femminili (anche il basso non è da buttare comunque e il tenore ha una certa eleganza). Nn trovo la direzione brutta, anzi l’ascolto è scorrevole anche se alcuni passi sono forse troppo rapidi con i tempi, ma i cantanti se la cavano senza problemi e sono affiatati. Non capisco invece cosa non ti convinca della Sills, che esegue tutto in modo fenomenale ed è una grandissima e fantasiosa interprete pur con la voce “modesta” che si ritrovava (non certo quella di una Callas o di una Sutherland).

            Ti ringrazio ancora e le prossime volte che riascolterò qualcosa di Rudel farò più caso a certe cose sulla base delle tue considerazioni!

          • :) Sì, la Bolena di Rudel ha il pregio – innegabile – dell’integralità, ma – a mio gusto naturalmente – trovo che manchi quel senso di unitarietà, di affresco storico, di quadro d’insieme che altre edizioni invece hanno o curano maggiormente. Sui cantanti lasciati a briglia sciolta non sono molto d’accordo, perché pur trattandosi di un repertorio dove sicuramente il ruolo dei cantanti è rilevante, si corre il rischio (e Rudel lo dimostra) di lasciare la sensazione di un lungo concerto di arie e pezzi d’insieme inframezzate da recitativi. Certo nella Bolena, più che nei Puritani, gli interpreti neppure suppliscono all’inerzia e/o al rumore prodotto dal podio: la Sills è sempre la funambolica macchina da agilità che conosciamo, ma il personaggio della regina è trattato con superficialità, la Verrett è quella che ne esce meglio di tutti, Plishka più che il terribile Re enrico è solo terribile e Burrows è totalmente inadatto al ruolo di Percy perché privo di gran parte delle note necessarie (sopra il LA è inascoltabile…). Paradossalmente le Bolene che preferisco hanno tutti difetti più o meno gravi, ma nel complesso mi convincono molto più dell’incisione di Rudel: ovviamente quella con la Callas, anche se si tratta di poco più di una selezione (visti i tagli forsennati di Gavazzeni); quella di Bonynge che pur scontando un cast con non straordinario, salvo Ramey, e la zeppa di una Sutherland ormai in prepensionamento, comunica un’atmosfera storica entusiasmante (e poteva essere molto meglio se – come pare – la “stupenda” non avesse messo il veto su interpreti che l’avrebbero messa in ombra, come il previsto inizialmente Percy di Blake); e quella quasi del tutto integrale (manca qualche recitativo) diretta da Varviso con la Souliotis e la Horne.

  13. Non sono d’accordo sul giulio cesare.opera che amo come handel.purtroppo non si puo chiedermi di amare gli interminabili recitativi secchi delle opere barocche.E’vero che Rudel ha la mano pesante ed e’approssimativo,non valorizza le parti originariamente per castrati tagliandole ed aggiustandole(rectius stravolgendole).Ma alcuni brani sono letti in modo unico.sara’una questione di gusti ma da’all’opera un senso di teatralita’ che le edizioni filologiche( es.jacobs) e quelle meno filologiche( es.richter)non hanno.Penso al recitativo e prima aria di tolomeo,al recitativo di cesare davanti l’urna di pompeo in cui le voci non perfette passano in secondo piano.ricordo che sn un appassionato non storico ne’professionista.

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