Madama Butterfly all’Auditorium de “La Verdi”

madama_butterfly_locandinaIl sottoscritto e Domenico Donzelli hanno assistito, domenica pomeriggio, all’ultima replica della Madama Butterfly eseguita all’Auditorium di Milano con i complessi dell’Orchestra Verdi e la bacchetta di Jader Bignamini. Si riportano di seguito le rispettive valutazioni dello spettacolo che, anticipo, si è concluso con un vero e meritatissimo trionfo soprattutto per il direttore e l’orchestra a conferma – se ce ne fosse bisogno – della cecità e ignoranza di chi, con la propria inerzia, si sta impegnando per affossare l’ennesima nostra eccellenza. Ma ora lascio la parola all’amico Domenico.

Domenico Donzelli:

Era da tempo che all’uscita da una rappresentazione operistica non uscisse un  gruppo non sparuto di “grisini” (quelli che “sempre lagnano e spesso fischiano”) felici, contenti ed entusiasti come accaduto dopo la Butterfly di Jader Bignamini con la “sua” Orchestra Verdi, che si vuole far chiudere per rispondere ad imperativi, tanto poco occulti quanto vergognosi.
Con ordine: Jader Bignanimi, la sua orchestra e il suo coro hanno compiuto la difficilissima impresa di commuovere, perché la vicenda straziante dell’ inganno e del tragico disinganno di Butterfly, donna mite, sottomessa, innamorata, femminile nel senso tradizionale del termine, deve far piangere e provocare nel pubblico “la pelle d’oca” in una serie di momenti topici della rattenuta tragedia, ma deve anche essere suonata nel rispetto di un titolo, che pencola fra ‘800 e ‘900 ed esprime, come pochi altri, cultura e mentalità del tempo. Per rispondere appieno a questo requisito il suono orchestrale deve essere sempre rotondo, morbido tornito, e nel contempo gli strumenti a fiato ed ottoni soprattutto, hanno da essere precisi e senza sbavature. Bene: tutto questo c’era perché siamo davanti ad un direttore capace, competente e di grande mestiere, che dispone di uno strumento duttile e disponibile oltre che di cospicua perizia tecnica.
Scorrendo la partitura ci sono stati autentici virtuosismi come la misurata citazione dell’inno americano all’ “aria” di Pinkerton, la leggerezza e la capacità di insinuare nel riproposto terzetto Goro – Sharpless – Yamadori, dove levità e colore novecentesco andavano di pari passo, l’entusiasmante (con tanto di doveroso bis) coro a bocca chiusa, vero notturno dal sapore liberty (Iris e Butterfly paradigmi del liberty) dove eleganza, levità e precisione si fondevano e, ancora, l’incipit del terzo atto dove all’attacco dato con la giusta enfasi seguiva un immediato morendo e rallentando per evitare la gratuita trombonata. Poi la scelta di connotare ogni intervento della protagonista, sin dall’ingresso, con toni lugubri, funerei e marcati. Il capolavoro del direttore: l’intero secondo atto, che escluso il riproposto terzettino, grava per intero sulla protagonista con una serie di trapassi dal canto di conversazione alla cupa tragedia sopra tutti i momenti “e tua madre dovrà” staccata con un tempo lentissimo e lugubre, l’esaltazione  della protagonista allorquando avvista la nave di Pinkerton con un continuo progressivo crescendo dall’attacco “una nave da guerra”. Se la protagonista fosse stata al livello del direttore ne sarebbe scaturito un’esecuzione memorabile.
Aggiungo quello che può sembrare una battuta ovvero che l’esecuzione in forma di concerto non frustra la partitura, anzi l’esalta perché, elise le giapponeserie in cui tutte le esecuzioni ricadono, siano esse fedeli al teatro giapponese (inutile superfetazione del teatro moderno) o assolutamente oleografiche, resta il nucleo fondamentale: la tragedia dell’inganno di una donna innamorata. Il dramma di Butterfly, la dedizione di Suzuky, il maschilismo facilone di Pinkerton sono tutti nella musica (sarebbe corretto dire nell’orchestrazione) e nel canto. Il dramma addobbato di oby e ombre degli avi è il dramma dell’amore infelice di cui proprio la prima Butterfly fu vittima e protagonista.
All’uscita un’amica mi ha detto, entusiasta di Bignamini e dell’esecuzione orchestrale, che questa Butterfly era bellissima anche senza i cantanti e che bastava l’orchestra.

Verissimo perché la compagna di canto ad eccezione di Luca Grassi solido, squillante negli acuti e composto nel duetto del secondo atto era davvero limitata.
Vincenzo Costanzo, che ho ben osservato dalla prima fila è dotato in natura, ma canta come un dotato principiante, atteso che basta guardarlo come non respiri professionalmente. Trattandosi di un ragazzo giovanissimo e di una dote di tenore lirico interessante (la tipica natura generosa delle voci meridionali) fermarsi, studiare il canto professionale altrimenti in due anni il tesoro finisce sperperato e per accorgersene basta sentire la voce all’inizio ed alla fine della recita e la progressiva difficoltà ad attaccare i suoni sul piano o sul mezzo forte.  All’incipit dell’opera era interessante guardare proprio la differente respirazione di Pinkerton e di Sharpless.
Nei confronti fra “grisini” all’intervallo ed all’uscita poco entusiasmo o addirittura censura sulla protagonista Svetlana Kasian. Addurre la pesantezza della parte, che è da lirico spinto, mentre la cantante, ad onta di un certo volume, frutto di forzature, in zona medio alta sarebbe sì e no un lirico leggero senza quella saldezza tecnica, che  consente di giocare di rimessa in una parte, comunque, troppo onerosa, anche se la guida e l’impostazione di Bignamini hanno consentito risultati almeno sotto la declinazione delle idee interpretative che vanno segnalati.
Rileggo la recensione e due riflessioni non posso risparmiarmele e le giro ai lettori. La prima: l’ indegno e censurabile comportamento della politica di cui è vittima l’Orchestra Verdi che, pur coprendo i costi in misura del 73% con gli incassi propri, non riceve i fondi da tempo promessi ed ufficialmente stanziati. Questo significa deliberatamente affossare la cultura e non può essere letto che come un  favore a chi cultura da tempo ha cessato di proporne e latita anche sotto il profilo della qualità e della professionalità (tristi accadimenti si preannunciano e sono già comprensibili grazie ad un internet tour). Questo deve essere detto e ripetuto a chiare lettere: oggi i nostri politici anche della cultura fanno solo demagogia facile e cioccolataia, che affossa più di quanto già non accada il solo ed unico “valore aggiunto” (che non sono parlamentari in fuga) di questo paese: la cultura, appunto, la tradizione, la storia.
Per questo un’esecuzione di pregio e qualità, quella che fa la vera cultura, deve essere conosciuta e siamo ben felici che un ignoto abbia “tubato” questa Butterfly per offrirla a chi non avesse avuto la fortuna di sentirla.
Secondo dubbio: sarà quello che rappresenta la Verdi ed il suo giovane direttore a muovere l’entusiasmo di chi, come il Corriere, va controcorrente o davvero ci fanno sentire qualche cosa che gli altri, blasonati, sponsorizzati dalle lobby, non sono “buoni di fare”?
E tu Duprez che pensi?

Gilbert-Louis Duprez:

Uscire da una sala da concerti completamente avvinto dalla musica ivi eseguita è cosa che mi capita più dopo un concerto sinfonico che una rappresentazione operistica: questa Madama Butterfly è una felice eccezione. Il merito dell’esito veramente trionfale dell’esecuzione va attribuito a Jader Bignamini e all’Orchestra Verdi. Inutile ribadire il vergognoso trattamento che la politica sta riservando a una vera eccellenza nazionale – non farei che ripetere quanto giustamente scritto da Domenico Donzelli poco sopra o quanto già esposto tante volte in questi ultimi mesi – ma utilissimo riconoscere ancora una volta che a Milano, oggi, c’è solo un’orchestra degna di tale nome, quella dell’Auditorium. Che in una stagione fittissima di eventi, concerti, rassegne e ricchissima in un repertorio che abbraccia gli autori più familiari e quelli più “difficili” o impegnativi, propone anche diversi appuntamenti operistici (quest’anno ben tre: il concerto di dicembre con Jessica Pratt, la Madama Butterfly e il Fledermaus infelicemente programmato a metà agosto). Ma com’è la Butterfly di Bignamini? Puccini ha un ruolo particolare nella storia della musica italiana: a cavallo di due secoli e di due mondi non può essere ridotto a “continuatore” della tradizione del melodramma o all’erede del suo principale esponente (nonostante Ricordi e gran parte del pubblico dell’epoca cercassero disperatamente l’erede di Verdi per “resistere” al wagnerismo ormai diffuso in tutta Europa). Puccini guarda al nuovo secolo senza dimenticare i caratteri più autentici della tradizione musicale italiana, unendo il ruolo cardine della melodia ad una costruzione strumentale di grande robustezza sinfonica e ricca di soluzioni innovative e, addirittura, rivoluzionarie (anche se i profeti del formalismo più reazionario – come Hanslick – deridevano le sue “quarte e quinte parallele” non comprendendone il senso). Ecco perché la sua opera ha attirato i grandi direttori ed ecco perché sono pienamente legittime letture schiettamente novecentesche ed espressioniste, così come interpretazioni più liberty. Bignamini non insiste nei riferimenti a certo ‘900 europeo (come invece, per stare ad una Butterfly relativamente recente, ha fatto Chung alla Scala), ma pone l’opera in una prospettiva interessantissima cogliendone pienamente la collocazione temporale: quell’Italia tra i due secoli che è così intrinsecamente diversa da altre culture musicali e che Bignamini rivela senza falsi pudori o preconcetti con tutto il suo esotismo liberty, il lirismo decadente, la generosità melodica portata in primo piano senza nasconderla o “intellettualizzarla”. Una “fiducia” nel mondo di Puccini che non è mai superficialità, ma storicizzazione. Il tempo è più che mai variato, piegato – attraverso rubati che raramente si ascoltano così ben costruiti – alla coerenza della lettura, tra fascinosi crescendo che non lasciano prendere fiato e senza mai eccedere in sonorità traboccanti (un esempio per tutti è la citazione dell’inno americano nell’assolo di Pinkerton al primo atto che non è il solito proclama stentoreo). E così il coro a bocca chiusa, sussurrato e dipinto con una delicatezza e una libertà agogica che non ha raffronti. Nella Butterfly di Bignamini la morte è presente fin dall’inizio, incombe in una lettura che ti inchioda alla seggiola e non ti fa percepire il tempo che scorre. Il suono dell’orchestra è pieno, nitido con ottoni caldi e scuri e archi compatti e mobilissimi. Il gioco delle percussioni colora la partitura con un’effervescenza mai stucchevole (e La Verdi in ciò – per la tinta e la matericità del suono – conferma la sua “russicità”). Si sentono le prove, lo studio, il piacere di far musica insieme. La compagnia di canto aveva, purtroppo, l’handicap di una protagonista inadeguata che, pur dotata di grande avvenenza, non è riuscita a realizzare le pur lodevoli intenzioni: mancava controllo e sicurezza. Il Pinkerton di Costanzo non mi è dispiaciuto: voce generosa e timbro caldo e una buona facilità nell’acuto e nell’espressione. Peccato non  fosse supportato da tecnica più rifinita (in effetti tra inizio e fine dell’opera la voce ha mostrato preoccupanti segni d’affaticamento). Ottimo, invece, Sharpless di cui si è già detto. Dopo il concerto verrebbe voglia di ascoltare Bignamini alle prese con l’universo variegato del Trittico o nella ancora incompresa Fanciulla del West oppure in Turandot. Ci vivrà vedrà, augurandomi di vedere ancora tanti concerti all’Auditorium e un maggior rispetto – da parte dello stato – nei confronti di chi fa davvero cultura e non vive di regalie pubbliche.

 

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3 pensieri su “Madama Butterfly all’Auditorium de “La Verdi”

  1. se si aspetta qualcosa di buona da questi “politici” è aspettare invano,mai visto , una classe politica di cosi bassa levatura,senza ormai ideologie,solo a fare tornare il loro tornaconto personale-e dei loro referenti,onesti o disonesti che siano-prima degli interessi del paese ,e sopratutto un distacco cosi marcato dalla vita reale della gente …

  2. Per quel che si puo’ giudicare dall’ascolto della registrazione,mi ha colpito la direzione di Bignamini: ha creato un’atmosfera di incombente ineluttabile tragedia , affascinando l’ascoltatore . Come voi dite, la voce di Costanzo e’ piacevole, mi sembra pero’ che, ad ex , nel duetto almeno in 2-3 occasioni abbia dei problemi di intonazione. Quanto ai critici “reazionari” di Puccini, dovrebbero notare , sempre ad ex nel duetto, le soluzioni armoniche mutuate da Debussy finalizzate a rendere non ripetitivo il duetto stesso. Comunque: cento di questi giorni !

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