Opulenta sterilità ossia La Damnation de Faust alla Philharmonie di Berlino

Dopo avere eseguito la strana e geniale “leggenda drammatica” di Hector Berlioz a Baden-Baden nell’ambito del Festival di Pasqua in forma di concerto, i Berliner Philharmoniker sono tornati nella loro “sala natia” per presentare la medesima opera al pubblico berlinese in due serate consecutive con cast e direttore identici. Il pubblico costituito principalmente dalla cosiddetta borghesia colta ha seguito con riluttante curiosità la problematica rielaborazione francese del mito e del poema tedeschi per eccellenza, però pare abbia gradito senza troppe riserve la prestazione musicale della compagine di Sir Simon Rattle.

La sua presenza mi è di nuovo parsa molto contestabile di fronte a quanto poco il direttore inglese sta contribuendo veramente di suo al lavoro della grande orchestra tedesca, la quale continua imperturbabilmente a coltivare il suo suono perfetto, saturato, dorato che tuttavia i Philharmoniker condividono con un’altra orchestra tedesao dal livello irraggiungibile come la Staatskapelle di Dresda. I Philharmoniker ci offrono quindi un suono dalla purezza e pienezza poco comuni, ma privo da quell’inconfondibile qualità che essi possedevano ad esempio durante la direzione di un Karajan. La prestazione di Rattle ascoltata l’11 aprile ha non solo dato prova di una totale meccanicità del suo approccio, ma mi ha peraltro dato la sensazione che l’orchestra avrebbe potuto suonare il pezzo con il medesimo successo anche senza il direttore, tanto più che l’intera serata è stata per la maggior parte uno di tanti esercizi di virtuosismo, quasi di routine, offerti dall’orchestra. Esercizio a cui va particolarmente a genio un’opera dagli infiniti colori e sperimentazioni strumentali come la Damnation de Faust, che dipinge tutto, cominciando dal pandemonio più diabolico e fino ai canti celesti più eterei degli angeli. Testimonianza di impeccabile musicalità e maestria l’assolo del corno inglese nel “D’amour l’ardente flamme” che rimane appunto un lavoro individuale del solista e che felicemente contrasta con la quasi totale incapacità di Rattle di costruire un conseguente avanzamento dinamico verso le varie culminazioni musicali. Quella di Rattle rimane una lettura (se di lettura si può parlare…) in cui una pienezza e pesantezza sonora, diciamo, “tedesca” è vagamente ed inconseguentemente congiunta ad una sterilità a cui peraltro manca spessissimo l’esattezza, tralasciando l’asciuttezza necessaria per mantenere chiare le strutture addirittura giganteggianti dello spartito di Berlioz oppure per dare l’adeguata leggerezza a brani come la serenata di Mefistofele o alla danza delle silfidi.

Della stessa simultanea perfezione e sterilità è segnata anche la prestazione del Rundfunkchor di Berlino che canta i suoi “ruoli” con accento e suono molto variegati, senza però mai permettersi un portamento, questo piccolo niente che dà vita ed anima alla musica; sempre solo un secco passare di nota a nota che, da un lato, è risultato della meccanicità già rimpianta di Rattle, ma, d’altronde, rappresenta – ormai da tanti decenni – l’approccio più diffuso nella direzione corale.

Mentre l’orchestra, per di più unita all’imparagonabile acustica della Philharmonie, procura un vero piacere sensuale alle orecchie, per cui diventa quasi secondario il brano suonato, la carenza di igiene vocale dimostrata dai cantanti risulta doppiamente imbarazzante.

Alle prese con il ruolo ingrato di Faust, il tenore Charles Castronovo ci fa sentire una voce dal volume non piccolo, ma oscurata e tremolante, un’imitazione che vacilla fra Villazon e Kaufmann, che si sbianca sistematicamente negli acuti e, completamente assente la proiezione, viene sommersa dall’orchestra torrenziale. Si aggiungono un fraseggio affettato ed un ricorso frequente al falsetto puro negli acuti con cui avrà voluto evocare nei passaggi lirici-amorosi l’antico metodo preromantico dei tenori, ma in realtà si sono uditi solo tremoli gutturali.

Inesistente come interprete ed al limite dell’udibile il baritono Ludovic Tezier che per qualche miracolo è considerato un metro di eleganza tutta francese. Più dell’emissione tutta indietro e delle stecche regolari che gli uscivano dalla bocca quando dimenticava di spingere, mi ha scioccato la qualità davvero sgradevole della sua pronuncia francese che per di più è cruciale in un ruolo efficacissimo come il Mefistofele, tutta da cantare a fior di labbro, con quell’infinita ironia e leggerezza che si addice solo al diavolo.

Vocalmente insignificante anche il ruolo secondario di Brander eseguito da Florian Boesch il quale si è sforzato d’imporsi teatralmente con un umorismo piuttosto dubbio entrando per la sua scena con una bottiglia di birra e facendo l’ubriaco nella Cantina di Auerbach.

Già con il suo abito turchese largo ma semplice ed il contegno allo stesso tempo aperto ed umile sin dalla salita sul palco Joyce DiDonato quale Marguerite riesce ad attirare un minino di attenzione. Non perde la sicurezza di sé neanche quando si trova al limite dell’urlo negli acuti con la sua voce sistematicamente tremolante, voluminosa nel centro-acuto, ma magrissima al centro e nei gravi. Non bella, ma elegante, non graziosa, ma schietta, priva di legato, ma dotata di una certa capacità di fraseggiare in un ruolo tanto efficace quanto corto come Marguerite, la primadonna americana spicca per la sua baldanza e ravviva un poco una serata lunga e a tratti stancante a causa della già menzionata strana mistura fra opulenza sonora e assoluta sterilità dinamica.

 

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