In attesa di Turandot: il problema irrisolto del finale.

turandotCom’è noto il Teatro alla Scala aprirà ufficialmente l’EXPO milanese con l’ultimo capolavoro di Puccini. L’evento porta con sé un duplice debutto: l’esordio di Chailly nelle vesti di direttore musicale e la “prima volta” alla Scala del Finale di Berio (2001). Pare opportuno, dunque, prima di assistere allo spettacolo, fare una piccola digressione sul problema del finale dell’opera.

Il 29 novembre del 1924, Puccini morì a Bruxelles per le complicazioni derivate da un intervento di rimozione di un esteso tumore alla gola, senza poter completare quella Turandot la cui gestazione apparve subito difficile e complessa, e che tra dubbi, ripensamenti ed incertezze si trascinava già da almeno tre anni. L’opera era quasi perfettamente compiuta sino alla morte di Liù nell’atto III, ma proprio il finale non riusciva a convincere il compositore – soprattutto a causa delle carenze librettistiche nello scioglimento, nel repentino ripensamento di Turandot e nell’indifferenza mostrata nei confronti del cadavere di Liù, per un lieto fine posticcio e inverosimile – tanto da rinviarne di continuo la stesura. Alla sua morte, Puccini lascia 36 pagine di schizzi divisi su 22 fogli, corrispondenti ad una trentina di idee musicali più o meno intellegibili ed estese: i frammenti, infatti, sono molto “pasticciati” e testimoniano tra cancellature, correzioni e ripensamenti il travaglio dell’autore nella ricerca di una forma credibile da dare allo “sgelamento” della Principessa. Peraltro mentre la prima parte del finale – dall’inizio del Duetto al bacio – è stesa su particella in forma di abbozzo continuativo (da cui emerge – pur nelle difficoltà di decifrazione – la struttura musicale), il resto, salvo una piccola parte corrispondente al “mio fiore mattutino” di Calaf,  è lasciato a schizzi frammentari lunghi da 4 a 8 battute stesi in modo frenetico e disordinati su un solo rigo: in particolare il bacio e tutta la scena conclusiva a partire da “la mia gloria è finita” sono particolarmente problematici. In realtà la questione del finale è solo una parte del problema e, forse, neppure la più rilevante. Conoscendo, infatti, il modus operandi di Puccini, la compiutezza di Turandot sino alla morte di Liù è più teorica che reale: è altamente probabile che, una volta ultimata la partitura, il compositore avrebbe ampiamente rivisto l’intero lavoro – come aveva sempre fatto – intervenendo soprattutto sulla musica “finita” così da rendere coerente lo sviluppo del finale e senza voler contare la possibilità assai concreta che quel lieto fine impossibile sarebbe potuto essere radicalmente trasformato (del resto l’enigmatico “poi Tristano” che si legge in uno degli ultimi frammenti, potrebbe a ben diritto non riferirsi al clima musicale dell’opera di Wagner o ad una citazione della stessa, quanto ad uno scioglimento tragico in un duetto di amore e morte). Ma non potendo conoscere le intime volontà di Puccini o le sue vere intenzioni, dobbiamo “accontentarci” di quel che ci ha lasciato con la consapevolezza, però, che la Turandot che avrebbe licenziato il compositore sarebbe stata molto diversa dall’opera che conosciamo, a prescindere dal finale. Detto questo il problema della conclusione è ancora aperto. Com’è noto all’indomani della morte di Puccini l’editore Ricordi, su pressione di Toscanini, si preoccupò di fornire un finale a Turandot, in vista della prima esecuzione e dopo che il figlio del compositore pose il veto su Riccardo Zandonai (indicato da Puccini stesso) per ragioni mai chiarite e dopo che Pietro Mascagni e Vincenzo Tommasini (che aveva completato il Nerone di Boito) declinarono l’invito, si decise di affidare l’incarico a Franco Alfano, all’epoca direttore del Conservatorio di Torino. Alfano – compositore già affermato e giunto al successo internazionale sin dal 1904 con Risurrezione – pur molto diverso come stile e formazione da Puccini, aveva da poco scritto un’opera fiabesca su soggetto “orientale”, La Leggenda di Sakuntala, andata in scena nel 1921 a Bologna. Ricordi e Toscanini non si curarono troppo delle differenze di scrittura musicale e ritennero Turandot e Sakuntala affini: questa errata considerazione unitamente alla convinzione che Alfano – onorato dell’incarico – si sarebbe limitato ad eseguire gli ordini ed abbozzare un finale sulla falsariga di Puccini, convinsero i commettenti nella loro scelta di assegnare al compositore napoletano i 22 fogli dei sofferti frammenti. Le cose, tuttavia, non andarono secondo le previsioni e così Alfano non si limitò, giustamente, a predisporre una toppa riciclando musica pucciniana, ma compose un finale di ampio respiro: seguì in modo abbastanza fedele gli abbozzi continuativi fino alla preparazione della musica del bacio (il momento in cui, nell’idea di Puccini, la gelida Principessa si “umanizza”, attraverso l’eros) e poi dopo il bacio sin dove erano disponibili, ma si ritenne del tutto libero e svincolato nelle parti per cui esistevano solo frammenti e schizzi, ritenuti non definitivi. Inserì quindi, nel tessuto esistente, musica dalla forte identità con un’orchestrazione più elaborata e lussureggiante (non dimentico della lezione di Rimskij-Korsakov), ricca di interludi e squarci sinfonici e ad alto tasso di spettacolarità fugando ogni dubbio sul lieto fine, enfatizzato – in chiave retorica – nella maniera più luminosa possibile. Il risultato, pur di ottima fattura, apparve molto personale e assai poco pucciniano, tanto che Toscanini – che si sentiva in qualche modo il custode delle volontà del Maestro – impose a Ricordi di far rifare il lavoro. A questo punto Alfano fu costretto a lavorare sotto lo stretto controllo dell’ingombrante direttore che impose di tagliare tutto ciò che non fosse riconducibile ai frammenti pucciniani. E così ad una prima versione musicalmente raffinata e coerente, seguì una nuova redazione più ridotta (più di un terzo del lavoro di Alfano venne macellato dalle forbici di Toscanini) e più squilibrata, dove le soluzioni più personali venivano banalizzate ed espunte al solo scopo di predisporre una toppa che non stonasse troppo col resto dell’opera (purtroppo i tagli e gli interventi impoverirono il finale lasciandogli solo un senso di retorica pompieristica che male si accorda all’atmosfera di Turandot). Ma le umiliazioni subite da Alfano non si limitarono a veder massacrato il suo lavoro o sminuita la sua professionalità: la sera della prima il solito Toscanini – evidentemente alla ricerca del gesto ad effetto – pose la bacchetta sulla partitura dopo la morte di Liù e chiuse lo spettacolo. Con tanti saluti ad Alfano e al suo lavoro. Ma le avventurose vicende del finale, non finirono lì: dopo le prime esecuzioni venne ulteriormente manipolato e tagliato (in particolare l’aria “Del primo pianto” venne sempre omessa) così che il finale divenuto “tradizionale” è in effetti il risultato di manomissioni e riscritture al ribasso, tali da renderlo inutile e grossolano. Questo tradimento delle prime intenzioni di Alfano ha reso di fatto lo scioglimento di Turandot ancora più inverosimile, lasciando l’impressione nell’ascoltatore della rinunciabilità del finale: è prassi recente, infatti, far terminare l’opera con la morte di Liù, lasciando la vicenda sospesa nel suo clima notturno ed evitando di affrontare il problema della conclusione.

Dicevo che l’Alfano II – pur con gli ulteriori tagli e interventi – è stato per circa mezzo secolo il finale tradizionale di Turandot: il problema tornò alla ribalta quando nel 1982 fu ritrovata la partitura originale dell’Alfano I. Dal confronto tra le due versioni si riaffacciò la possibilità di nuovi interventi. Ci provò la compositrice americana Janet Maguire che nel 1988 ricostruì un nuovo finale basato esclusivamente sugli schizzi pucciniani, ma non fu mai eseguito. Ci proverà nel 2008 il cinese Hao Wei-Ya con un finale che riprende la melodia del Mo Li Hua (brano tradizionale cinese che compare più volte nell’opera, fin dal primo atto: nel coro “Là sui monti dell’Est”).

Ma il tentativo più chiacchierato resta quello di Luciano Berio: lo stesso che questa sera ascolteremo alla Scala. Alla fine degli anni ’90 il Festival de Musica de Gran Canaria, commissionò a Berio un nuovo finale che andò in scena nel 2001 (poi ripreso a Salisburgo da Gergiev). Berio, compositore di vasta cultura e di approccio “post moderno”, non era nuovo ad operazioni del genere (si pensi al Rendering sui frammenti dell’incompiuta Sinfonia D936a di Schubert) e aveva dimostrato di saper far confluire la propria personalità compositiva in quella di altri musicisti in operazioni credibili, rispettose anche se non filologiche. Nell’affrontare il finale di Turandot Berio si muove su più livelli:

1)  interventi sul testo: il libretto di Adami e Simoni viene drasticamente modificato con molti tagli e riscritture. Il procedimento non deve stupire né scandalizzare: già Alfano era intervenuto e pure Toscanini non ci pensò due volte a sforbiciare. Il problema è il solito, ossia intervenire sulla inverosimiglianza della drammaturgia per dare una coerenza e credibilità al lieto fine. L’omissione di varie porzioni di testo è pure funzionale a limitare il ricorso a musica estranea agli schizzi pucciniani (che non coprono l’intero testo scritto), così da poter sfruttare al massimo gli abbozzi e i frammenti;

2) rimontaggio dei frammenti: Puccini lasciò 30 frammenti di estensione variabile e differente grado di compiutezza che vanno dalle cellule di una battuta alle 56 misure dello schizzo n. 1. Solo otto di essi (1, 2, 3, 7, 9, 12, 16 e 16a) sono accompagnati da un testo scritto, anche se il 3 e il 9 non hanno riscontro nel libretto(e non vengono utilizzati né da Alfano né da Berio) e il 16 e il 16a propongono mere varianti del n. 1. Restano dunque quattro schizzi che coprono circa la metà dei versi del libretto: i rimanenti sono strumentali. Berio nell’intento di utilizzare quasi tutto il materiale pucciniano (Alfano utilizzò solo 4 frammenti nella prima versione e 5 nella seconda), riorganizza l’intero materiale concedendosi poche licenze, rimontando l’ordine degli schizzi (quelli strumentali, dato che per quelli con il testo la disposizione è obbligata) secondo criteri armonici volti a ricostruire coerenza nel tessuto musicale (secondo parametri suggeriti da Puccini in altri passi dell’opera);

3) reminiscenze: Berio ricorre ad una vera e propria rete di reminiscenze di temi ricorrenti nell’opera attraverso la citazione di passi richiamati dal testo, dalla musica o dal clima emotivo. Il compositore opera però con parsimonia, senza scivolare nella facile retorica soprattutto nel trattare i temi legati a Liù di cui giustamente non abusa per lasciare intatta la particolarità del personaggio più amato da Puccini. L’ombra di Liù però chiude l’opera nella riminiscenza di un frammento di “Tu che di gel sei cinta” sfumato sino a spegnersi nel silenzio;

4) composizioni libere e rielaborazioni: nonostante l’utilizzo di quasi tutto il materiale rimasto si rese necessaria l’integrazione di sezioni di libera composizione. Berio procede con molta cautela ricorrendo sia a rielaborazioni di temi dell’opera non immediatamente riconducibili alla situazione del finale, sia a riferimenti ad altri compositori ricreando uno snodo di citazioni esterne che vogliono rapportare Turandot al clima del passaggio tra ‘800 e ‘900 nella grande musica europea: emblematico è l’interludio musicale che accompagna il bacio dove la musica si sposta in poche battute dal Wagner del Tristan, alla Settima di Mahler sino ai Gurrelieder di Schoenberg per tornare poi agli schizzi pucciniani sino alla citazione di “Nessun dorma”, di “Padre, sì, ti ritrovo” e poi di nuovo Tristan. 

5) orchestrazione: la cesura più evidente tra il finale di Alfano e il resto dell’opera è la differenza del trattamento orchestrale. Alfano, infatti, utilizza uno strumentale denso e lussureggiante, stilisticamente lontano da certa violenza espressionista della partitura pucciniana, e opta per soluzioni raffinate e timbricamente insolite. Alfano tradisce lo spirito dell’opera? In realtà no, dato che il compositore, durante la prima stesura del suo finale, non poté disporre della partitura completa, e quindi non poteva conoscere pienamente le soluzioni timbriche di mano pucciniana. Solo con la seconda versione le pressioni di Toscanini portarono a modifiche di orchestrazione, ma il risultato è smaccatamente retorico e roboante, con abbondanti raddoppi e soluzioni esteriori (così evidentemente piaceva a Toscanini). Berio inverte la rotta e la sua orchestrazione è da una parte più leggera dell’Alfano I e dall’altra è incentrata su una fluttuazione dinamica instabile in una continua pulsazione tra piano e mezzo forte per donare una maggiore leggerezza al pesante scandire dei versi di Adami e Simoni e a suggerire un clima notturno e sognante.

Operazione dunque legittima, quella di Berio, ben realizzata e, forse, necessaria per riparare ai danni del solito Toscanini che impose un finale incompleto, brutto e goffo. Molto bene ha fatto la Scala ad optare per questa soluzione (non si parli, però, di “novità”: circola dal 2001, è stato inciso ed eseguito più volte) che ha il merito di riaprire il discorso su di un problema complesso sia nello specifico sia di portata generale, attinente, cioè, agli interventi postumi su materiali lasciati incompleti (tema che ultimamente è stato marginalizzato parallelamente ai rinnovati interessi per approcci più filologici). Poi può piacere o meno – anche se certi giudizi tranchant già circolati, che condannano il finale Berio come “una porcheria”, appaiono meri conati di pregiudizio o di tradizionalismo fine a sé stesso (nella difesa dell’indifendibile Alfano II stuprato da Toscanini) – può convincere o meno: a me personalmente, pur riconoscendone l’ottima fattura e la suggestione, convince solo in parte, nel senso che non trovo necessario esplicitare i riferimenti a Mahler, Wagner e Schoenberg con citazioni (ad esempio). E non perché si tradirebbe Puccini (come dicono certi soloni che di certo non hanno gli strumenti per decifrare le sue presunte volontà nei 22 fogli di schizzi), ma perché non mi pare necessario. Poi molto vi sarebbe da dire sul famigerato “poi Tristano” e sulle sue molteplici interpretazioni: Berio assume una posizione determinata, ma non è l’unica né la più ragionevole.

Mi piacerebbe anche avere l’opportunità di ascoltare l’Alfano I eseguito senza tagli e valorizzando le differenze con la scrittura pucciniana anziché stemperandone i caratteri. Magari nell’ambito di un’operazione culturale che offra al pubblico l’ascolto comparato dei finali (almeno i due di Alfano e quello di Berio). E – perché no? – riaprendo il discorso sul finale di Turandot affidandolo alla sensibilità di altri autori contemporanei. Sarebbe interessante e stimolante.

Ps: suggerisco per approfondire l’argomento la lettura del bellissimo saggio di W. Ashbrook e H. Powers “Turandot di Giacomo Puccini: la fine della Grande Tradizione” e l’articolo di Marco Uvietta “E’ l’ora della prova: un finale Puccini-Berio per Turandot” (a cui mi sono direttamente ispirato per alcuni dettagli del finale di Berio).

Gli ascolti:

Finale originale di Franco Alfano (Alfano I):

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Finale rivisto di Franco Alfano e Toscanini (Alfano II):

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Finale Hao Wei-Ya:

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Finale di Luciano Berio:

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47 pensieri su “In attesa di Turandot: il problema irrisolto del finale.

  1. grazie Duprez del bell’articolo, chiaro ed esaustivo di una questione ben complicata.
    Personalmente condivido l’idea che non solo il finale sia inesorabilmente mancante ma che Puccini avrebbe certamente messo mano più o meno a tutto una volta scritto il finale impossibile.
    Così non è stato e quindi schizzi o non schizzi, l’opera potrebbe essere terminata nei modi più diversi; credere di poter essere più o meno fedeli all’originale, visto quanto poco Puccini ha lasciato, mi sembra inutile. Certamente meglio Alfano I di Alfano II con il suo ridicolo precipitarsi alla fine. In ogni caso, a mio parere meglio Berio di Alfano, tanto più che drammaturgicamente con la morte di Liù tutto cambia e quindi anche la musica può cambiare. Anzi sarei felicissimo se un finale completamente slegato da quanto lo precede lo avesse scritto Britten, o magari, perchè no? Stravinskij!

  2. Trovo bruttissimo il finale di Berio, lunghissimo e un minestrone di sole carote e prezzemolo. meglio chiudere come fece Toscanini, con due parole: ” Quì è morto Puccini”
    Altrimenti un finale lo può fare anche uno sprovveduto. La Pietà è di Rondanini e nessuno si sogna di completarla.

    • Lungo non direi, dato che viene omessa più o meno la metà del testo del libretto (conserva solo le parti musicate da Puccini). Può piacere o meno, ma non è certo opera di uno sprovveduto. Terminare l’opera con la morte di Liu a me non piace: una trombonata degna del cialtrone che l’ha ideata per primo

      • Il finale di Berio a mio parere manca di senso del teatro e alla fine risulta noioso, nonostante sia più corto di quello di Alfano. E’ comunque il lavoro rispettabile di un musicista altrimenti grande. Ma forse la soluzione è quella della tradizione, il finale di Alfano, magari ripreso nella sua formulazione primigenia. Non credo che Toscanini fosse un cialtrone, una primadonna con mania di protagonismo sì, però. Concordo comunque che la morte di Liù da sola non possa essere un finale sensato dell’opera. Mi sembra il recupero dalle soffitte della (falsa) cultura anni ’70 del concetto di “opera aperta”, che poi alla fine significava solo mancanza di idee e di capacità di sintesi. Si veda in tal proposito quante menate si scrissero intorno alla Lulu di Berg prima del completamento di Friedrich Cerha. Non entro nel merito, si trattava quasi solo della strumentazione, ma l’opera di Alfano proprio perchè coeva al lavoro di Puccini mi sembra scelta più coerente rispetto qualsiasi altro completamento.

        • Gentile elGuarany,
          l’idea di lasciare le cose – ancorché incompiute – così come sono non mi sembra poi così sciocca.
          Un finale del Pasticciaccio o dell’ Uomo senza Qualità che non fosse di Gadda o di Musil mi parrebbe inutile e irrispettoso.
          Sono comunque sempre disposta a farmi stupire.
          Un saluto cordiale.

          • Non credo c’entri ciò che è sciocco o che non è fedele all’autore. Più prosaicamente considero la Turandot una fiaba: e mi dispiace se finisce a mezzo. Sì ok, tutti quando ci sediamo su un palchetto sappiamo già il libretto, conosciamo la musica e gli interpreti di oggi difficilmente ci consentono di lasciarci andare. Ma nel 1924 non era così, né si arrivava a teatro con 200 ascolti dal vivo sulle spalle e altri 2.000 in registrazione. Ci si immergeva in una fiaba. E trovo pacifico il fatto che la fiaba andasse finita. Il colpo di teatro infatti è stato proprio il lasciarla a mezzo. Alla “prima” ci poteva stare. È quanto è avvenuto prima e dopo a essere fastidioso.

          • Caro Veriano,
            vuoi un finale per la fiaba?

            Tutti, ma proprio tutti, si vergognano per la brutta fine di Liù cui hanno contribuito, chi più chi meno.
            Calaf smette di alluparsi per sadiche dominatrici e decide di occuparsi del vecchio padre piuttosto che lasciarlo nelle mani di badanti fumettare di scuola pucciniana.
            Turandot rinsavisce, e invece di mozzare teste per un oltraggio subito da un’antenata or son mill’anni e mille prende in mano il regno con senso di responsabilità e competenza, come le colleghe Elisabetta I e II e Vittoria.

            Basterebbe l’azione scenica su quanto già composto, senza l’aggiunta di una nota.

            Ma siamo sicuri che la Turandot sia incompiuta?

            Perdona la scherzosa boutade.
            Un saluto.

          • Lily quello che dici è, come sempre, geniale! Anch’io credo che “Turandot” andrebbe chiusa dopo la morte di Liù e che Puccini, nel suo incoscio, volesse che fosse proprio così. Un bacio.

      • Concordo. Perché fracassare le uova nel paniere ad Alfano per poi appoggiare la bacchetta sul più bello? Presumo che il colpo di teatro gli abbia permesso di salvare la capra della sua presunzione con i cavoli della consapevolezza di aver imposto un finale che non sta in piedi.

      • Duprez, grazie mille per l’ascolto dell’Alfano I. Non l’avevo mai sentito ed è davvero un’altra cosa. Il Berio di ieri mi era piaciuto (vabbè, a parte gli interpreti) più del moncherino che si esegue di solito: ma riportato nella sua completezza riacquista senso ed è davvero bello. Ok, non sarà certo “come l’avrebbe scritto Puccini”, ma seguendo questa logica allora l’intera opera non andrebbe eseguita, visto che – fai bene a ricordarlo – non è stata messa a punto dall’autore. E comunque sarebbe ora che i teatri tirassero fuori dal limbo del pregiudizio gli Alfano e tutta quella generazione di compositori italiani successivi a Puccini…

    • Il sospetto è che il finale di Berio sia bene accetto ai cantanti in quanto consente a soprani e tenori non troppo sonori di arrivare alle prime file, quello di Alfano I e II necessitano, infatti, di voci molto, molto più ampie a prescindere dall’intrinseca bellezza di un finale rispetto all’ altro……

        • e caro duprez ma la prassi del teatro talora suggerisce di minimizzare le perdite. e spesso in teatro le decisioni sono piu pragmatiche e meno intellettuali di quanto tu sia mediamente incline a pensare. la stemme ieri sera ha fatto a malapena il secondo atto….se poi avesse avuto anche da eseguire certe frasi tremende del finale, tipo No Calaf davanti al popolo con te..beh….lasciamo perdere. non è un caso che da quando abbiamo delle turandot che fanno pena è tutto un proliferare di versioni senza finale, col finale cinese, turco, allemanno e vattelapesca…ma più facili di quel c.. amaro di alfano. scusa la prosaicità ma è cosi che gira il mondo della musica ora, che ammanta di una intellettualità falsa e falsante ( e parlo in generale) scelte volte a tappare falle, a coprire l’incapacità di fare e saper fare come si è sempre fatto.
          ci servono filastrocche filologiche non perche si sia spettatori più colti e consapevoli ma solo più cazzoni e sordi, distratti dalle fole storiche e filologiche di esecutori mediocri ed incapaci….basta guardare al mondo dei baroccari per capirlo.
          berio spacciato per novità è roba per i nostri politici che si improvvisano registi, dato che persino al carlo felice di genova è stato fatto ascoltare…anche se la panzana è veniale rispetto ad altro di cui poi parleremo. per favore, smetti di avercela sempre coi cantanti che tu vorresti valletti della musica lirica, che senza quelli non si fa nulla nell’opera. sono loro che la rendono possibile, sennò si fa della sinfonica o della musica da camera o della letteratura musicale!

          • Sono pienamente d’accordo con Giulia Grisi e Carlo Guasco. Ringrazio anche Lily Bart per la sua arguta risposta al mio post.

          • Che c’entra la filologia???? La scelta del finale di Berio non ha a che fare con altro che non la sensibilità musicale di Chailly che ha sempre dichiarato di preferirlo. Punto. Nessun complotto. Se poi vuoi prendertela con me per ciò che non ho detto accomodati: farò un po’ il calimero.

  3. Va bene precisare che il finale Berio è più facile per i cantanti di oggidì
    ma occorre segnalare che la scena di Turandot che corre tra le braccia di Calaf è ridicola e penosa come non mai. Se Turandot è una
    fiaba, lo sia in tutto. Facendo un piccolo paragone dopo la grande aria Finale di Isolde mica si deve spiegare che cosa accadrà poi…..

  4. Qualcuno , nel corso della Turandot scaligera, ha ricordato un aneddoto riguardante la testimonianza ( riportata) di un amico del compositore invitato ad ascoltare il finale di Turandot canticchiato da Puccini stesso ed accompagnato, ovviamente ,al pianoforte. Il , chiamiamolo cosi’, testimone, riferisce di un finale dolcissimo e non tonitruante, il che escluderebbe una orchestrazione “densa e lussureggiante”. Siamo , certo, nel campo delle ipotesi,ma cio’ che scrive Lily Bart non mi sembra cosi’ inverosimile, Turandot e’ si una fiaba, ma una fiaba di crudelta’ e puo’ ben concludersi con la morte dell’unico personaggio che ama,lasciando alla immaginazione dell’ascoltatore l’improbabile innamoramento della principessa e l’avveramento della maledizione di Timur:”l’anima offesa si vendichera ‘ ” , ovvero Liu’ si trasforma in vampiro e uccide tutti. Questo e’ un finale !! E’ ovvio che siamo nel gioco.

  5. Scusate, ma qualcuno sta sostenendo seriamente che il vero motivo per cui è stato scelto il finale di Berio è stato per AIUTARE i cantanti? Spero di aver capito male, perché se può essere più abbordabile vocalmente ha sicuramente costituito una difficoltà aggiuntiva dal punto di vista musicale. La Stemme, piaccia o meno, ha il ruolo in repertorio con il finale tradizionale e così continuerà generalmente a cantarlo: non credo sia stato questo gran sollievo in questa occasione modificare il percorso vocale-musicale a cui è solitamente abituata. Quanto al tenore, beh, credo che avrebbe accettato una riduzione del cachet per avere il finale Alfano, perché era completamente perso, non beccava una entrata che fosse una e già all’anteprima Chailly disperato non sapeva come riprenderlo…

    • Più che pensarlo prima è stato il modo in cantava la signora a generare considerazioni in proposito causa la sua condizione vocale. Me l aspettavo senza acuti ma non così in difficoltà in ogni punto o meglio che abbia accettato proprio perché scontato il finale le difficoltà calano. Al che mentre cantava il finale il pensiero è venuto. Che poi abbia cantato l opera anche nella versione Alfano poco importa….non garantisce che l abbia ben cantata. Per me è sempre stata inadeguata all opera perché è sempre stata tecnicamente precaria , posizione bassa , poco legato e acuti indietro e strillati. Infatti non ha poi fstto il crepuscolo a milano e Turandot vuole ben altro.

  6. Il problema lo si può risolvere solo accettando che Puccini, per la malattia, non ha potuto completare l’opera.
    Povero Alfano, ricordato più per il finale rabberciato della Turandot e Risurezzione, che per gemme come Cyrano de Bergerac e soprattutto La leggenda di Sakuntala.

  7. Se non sbaglio lo spartito originale è stato ritrovato pochi anni fa.
    La prima ripresa moderna de La leggenda di Sakuntala (la versione originale, visto che la ricostruzione “a memoria” successiva ha semplicemente il nome di Sakuntala) è avvenuta a Roma nel 2006 diretta da Gelmetti.
    Una delle opere italiani più importanti degli anni ’20 a mio parere.

  8. ma non capisco ,ma quando una partitura viene archiviata,possibile che non esista un paio di liste di archiviazioni,in caso di bisogno? quante partiture sono state riscoperte sotto cartelle polverose ,anzi propongo agli autori di pubblicare un post su questo argomento di opere sepolte negli archivi,e scoperte per “caso”

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