Akhnaten a Mi.To.

akheUno dei pochi eventi di vero interesse della rassegna Mi.To. di quest’anno è stato senza dubbio l’esecuzione – pur se in forma concertante – dell’Akhnaten di Philip Glass. Sia perché rare sono in Italia le occasioni di ascoltare questo repertorio, sia per l’indubbia suggestione e importanza del lavoro del compositore americano. Non è certo questo il luogo adatto – per ragioni di spazio e per non cadere in facili semplicismi – per svolgere una puntuale e approfondita disanima della musica minimalista e delle sue diverse anime e declinazioni: anche se dopo 50 anni di vita (il movimento nasce agli inizi degli anni ’60) ben si potrebbe azzardare qualche bilancio. Nato come alternativa al serialismo e alle avanguardie europee, oppone alla loro complessa costruzione ideologica, la riduzione del linguaggio musicale a particelle molto semplici ripetute in modo costante con piccole e quasi impercettibili variazioni (nel ritmo, nella tavolozza strumentale e nella notazione) che mutano lentamente senza mai davvero mutare la scrittura del brano, che resta saldamente ancorato alla tradizione tonale, ma che si pone come uno sviluppo della medesima idea esplorata in tutte le sue potenzialità espressive. Il minimalismo si pone dunque come reazione all’intellettualismo, talvolta esasperato, delle coeve esperienze europee: all’utilizzo di forme semplici, infatti, unisce il recupero di un linguaggio immediatamente comprensibile che mira al coinvolgimento e alla suggestione dell’ascoltatore, mutuando dal cinema certe modalità espressive (molti compositori minimalisti hanno scritto colonne sonore). In particolare i lavori teatrali legano a doppio filo aspetti visivi e musicali, tanto che lo spettacolo (spesso costruito di concerto con il compositore) diventa elemento essenziale dell’opera. All’interno del movimento diverse sono le anime e le esperienze: da chi si mantiene fedele ai presupposti originali a chi ha declinato il genere ad intenti più facili e commerciali (cadendo spesso in un manierismo usa e getta: come molti lavori di Glass peraltro), sino a chi pur partendo da un linguaggio minimalista ha sviluppato la propria opera in senso più complesso accogliendo riferimenti e influenza da altre realtà (tra tutti John Adams autore di quel capolavoro del ‘900 che è Nixon in China). Difficile dunque fare un bilancio, perché in esso confluiscono tanti elementi e non tutti musicali: il minimalismo è, negli anni, diventato la “colonna sonora” degli ambienti fighetti newyorchesi, accompagnamento ideale per videoclip, sfilate, party di una fetta di società per descrivere la quale ci vorrebbe la penna affilata di Tom Wolfe…e per riflusso ha conquistato la generazione hypster e fashion victim che declina il vuoto pneumatico di idee in un’esteriorità modaiola, politicamente corretta e iperteconolgicizzata.
L’opera di Glass, nel bene e nel male, si inserisce in questo percorso: scritta nel 1983 e basata sulla ripetizione di schemi elementari, ripercorre – in chiave evocativa – la vicenda del Faraone Akhenaton che introdusse in Egitto il culto monoteista del Sole (Aton), in un’ampia riforma politica, religiosa e sociale che scatenò la rivolta del clero tebano – privato così della propria influenza – e che comportò, alla morte del sovrano, una feroce repressione e la restaurazione dell status precedente. L’opera è il terzo tassello e compimento di una ideale trilogia dedicata a tre visionari della scienza (Einstein on the Beach), della politica (Satyagraha, incentrata sulla vita di Gandhi) e, appunto, della religione (Akhnaten), in un mix di ritualità orientale e spiritualità patinata. Divisa in tre atti e cantata in lingua egizia, accadica ed ebraica, Akhnaten prevede l’utilizzo di un’orchestra convenzionale, un coro completo e almeno sei solisti, oltre ad un narratore (lo Scriba) che introduce i diversi quadri.
A Milano, nell’ambito di Mi.To. e nella cornice del Teatro Strehler (non particolarmente adatto ad ospitare eventi musicali), Akhnaten è stato eseguito privandolo di un suo aspetto fondamentale: l’elemento scenico (sostituito, pietosamente, da immagini proiettate di statue e monumenti egizi). Ma sacrificare l’elemento teatrale, in un lavoro che non sopravvive con la sola musica, significa condannarlo ad affondare nella noia e nella monotonia, perché l’ossessività delle ripetizioni e la staticità della scrittura dopo poco generano noia e torpore. Scelta insensata, dunque, ed incomprensibile. A compromettere irrimediabilmente l’evento, tuttavia, è stata l’esecuzione musicale: assolutamente deficitaria. Aldilà del giudizio che si può avere su tale repertorio, infatti, la sua resa ottimale presenta non poche difficoltà e necessita, dunque, di convinzione e preparazione da parte di tutti gli interpreti. L’orchestra è chiamata ad un estremo rigore ritmico e ad una perfetta pulizia timbrica per poter rendere al meglio l’ossessività delle formule musicali che si ripetono, così che – nella precisione degli insiemi – le minime variazioni possano essere percepite nel continuum musicale. L’orchestra del Regio di Torino (compagine che in altre occasioni si è disimpegnata con onore: Parsifal, Boris, Fidelio…) pareva del tutto impreparata come ad una lettura a prima vista: il suono degli archi (da subito coinvolti nell’overture) era sempre sporco e impreciso, come imprecisi e slabbrati erano gli interventi degli altri strumenti (ottoni in primis): in tale guazzabuglio – in cui ciascuno pareva andare per la propria strada – ci si chiedeva che ruolo avesse il direttore d’orchestra – l’impalpabile Dante Anzolini – salvo sbracciarsi come fosse alle prese con la Settima di Bruckner! Sul cast vocale non voglio infierire, salvo chiedermi come si possa andare in scena così (particolarmente problematico il tenore). Certo l’acustica del teatro non è ottimale, ma tale disordine esecutivo non può essere che figlio naturale dell’impreparazione, della mancanza di prove e della sottovalutazione dei problemi sottesi. Occasione persa, dunque, per quella che di fatto era la prima italiana dell’opera di Glass che, nonostante tutto, meriterebbe ben altro trattamento.

Gli ascolti:

Atto I:
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Atto II:
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Atto III:
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8 pensieri su “Akhnaten a Mi.To.

    • Non ho assistito al concerto e francamente non me ne dolgo più di tanto. Mi incuriosisce l’idea delle parti cantate in antico egiziano… quando è noto che la esatta pronuncia dei termini di quella lingua è un rompicapo ancora per gli studiosi… Avranno trovato una registrazione di Rosetta?

        • Il margine di incertezza è molto maggiore. Nel caso del latino o del greco si tratta della chiusura o apertura di una vocale, dell’accento musicale o intensivo, del variare della pronuncia dei dittonghi nelle varie epoche, dell’esatta articolazione di alcune consonanti. Per l’egiziano invece manca quasi sempre ogni certezza sulla vocalizzazione, tanto che la parola può mutare consistentemente nel proprio aspetto fonetico e nel numero delle sillabe, il che è assai rilevante per un eventuale rapporto con la musica. Comunque tutto ciò non toglie che un musicista possa “inventarsi” un egiziano antico per scopi artistici; resta solo una certa comicità, che non può non ricordarmi le parlate “indiane” di filma western di quarta classe della mia infanzia.

          • Certo, ma credo che l’effetto cercato da Glass fosse solo straniante, evocativo o esotico. Il testo cantato non ha alcun valore drammaturgico: sono solo fonemi da rivestire con note. Non c’è una vera narrazione. In Einstein on the beach, il testo è costituito da sillabe solfeggiate, numeri, formule…

  1. Certo immagino che quella sia stata l’intenzione del compositore; non voglio fare certo questioni filologiche. Mi divertiva l’idea dell’egiziano redivivo simile come ho detto all’indiano di certi antichi film western… del resto lo scopo è lo stesso. Non credo che fosse questo il lato peggiore dell’opera!

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