Cronache dalla Ville Lumière: Cecilia Bartoli in Norma

Mercoledìschermata-2016-10-13-alle-20-54-25 12 ottobre al Théâtre des Champs-Elysées davanti alle telecamere France 3 (per una ripresa e, forse, un dvd) è andata in scena la prima delle “quattro rappresentazioni eccezionali” (come da locandina) della Norma di Bellini con protagonista la diva più diva del presente, Cecilia Bartoli. Questa produzione, nata a Salisburgo nel 2013 e ora in tour, è stata pensata e creata su misura per la cantante romana in modo che tutto fosse proporzionato ai suoi mezzi e i rischi – copiosi dato il titolo e la sua storia – fossero ridotti al minimo.

L’intento, tanto per mettere le mani avanti, è esposto senza giri di parole: si vuole riproporre una Norma filologicamente ripulita dalle incrostazioni della tradizione, una Norma con nuovo volto, meno sacrale e, al contempo, più umano. L’edizione critica impiegata è quella di Maurizio Bondi e Riccardo Minasi in collaborazione con Francesco Izzo che, stando al libretto di sala, hanno consultato molti testimoni della partitura nel tentativo di rispettare al meglio la volontà autoriale. L’opera è stata rappresentata nella sua integralità (con alcune battute che non avevo mai avuto occasione di udire in alcuni punti, in particolare nel finale del primo atto) dall’orchestra dei Barocchisti, formazione caratterizzata dall’impiego di strumenti d’epoca (suppongo barocca o comunque antecedente Bellini) guidata da Gianluca Capuano, e dal coro della Radiotelevisione svizzera di Lugano. L’idea della Bartoli – che viene specificato dal libretto essere del tutto personale – è quella di un Bellini finalmente riportato alle origini da un punto di vista sonoro e vocale, a un epoca in cui le orchestre non si erano ancora ingigantite a scapito delle voci. Ecco allora la necessità di un Pollione tenore lirico-leggero visto che Domenico Donzelli cantava Ramiro e Almaviva, di un’Adalgisa soprano lirico-leggero visto che la Grisi aveva vent’anni e che per lei fu scritto Don Pasquale e, infine, di una Norma che si rifaccia alla Malibran (voce ambigua e donna piccola di statura… come la nostra Cecilia?) che, a differenza di quella neoclassica, ieratica e ingessata della Pasta che ottenne un fiasco alla prima, fece della protagonista una donna vera e palpitante, estremamente umana, complessa e in grado di conquistare veramente il pubblico. A voi le considerazioni su simili affermazioni sulla vocalità dei primi interpreti e sull’opportunità di suonare Bellini come se Mozart e Beethoven fossero ancora da venire.

Ogni aspetto dello spettacolo è stato curato nel dettaglio e sempre con assoluta coerenza – questo bisogna riconoscerlo – con l’idea di fondo. L’orchestra ha suonato abbastanza bene, nonostante una certa generale secchezza e qualche sbavatura di ottoni e fiati, ed è stata regolata alla perfezione coi cantanti, primadonna in primis, perché mai fossero coperti (credo di non aver mai sentito suonare così piano in un’opera). Ciò che stupisce nella direzione, anzi spiazza totalmente chi ha un minimo di dimestichezza con la tradizione esecutiva di Norma, è la scelta spesso incomprensibile dei tempi, ora lenti fino all’incredibile, ora marcette da teatro di varietà, con cabalette trasformate in larghi (Vieni in Roma) e cantabili trasformati in cabalette; ignoro se si siano seguite eventuali annotazioni di Bellini anche per i tempi, ma ne dubito fortemente perché in alcuni momenti non si vedeva assolutamente il senso di certe scelte. In altri casi come il finale ultimo, invece, l’orchestra ha saputo rendere giustizia alla partitura belliniana, complici anche dei tempi assennati, tanto da far rimpiangere scelte agogiche meno estreme.

Del pari coerente è stata la scelta degli interpreti. Norman Rheinardt è un Pollione leggero dalla voce secca e legnosa (timbricamente ricorda un po’ l’ultimo Kunde), a suo agio solo nei centri e in difficoltà nei gravi (vuoti) e negli acuti che non sa dove mettere, dunque risolti in falsetto se in piano o con suoni duri e oscillanti se in forte; la dizione è buona e anche le intenzioni, è la voce a fargli difetto. Rebeca Olvera è un’Adalgisa leggerissima che fino a trent’anni fa avrebbe cantato onorevolmente Alisa, Flora e altri particine da comprimaria; in una parte piuttosto bassa scompariva letteralmente (Sgombra è la sacra selva è stato imbarazzante perché la cantante, poveretta, non ce la faceva proprio a reggere la tessitura grave) per poi riemergere con suoni asprigni e un poco traballanti in qualche frase acuta. Si voleva fare di Adalgisa una giovinetta per rompere con la tradizioni dei grandi mezzosoprani un po’ babbione, ma in questo caso si è esagerato in senso opposto poiché la novizia sembrava una bambina di 10 anni e Pollione faceva la figura del pedofilo. Modesti e dimenticabili Peter Kálmán, Rosa Bove e Reinaldo Macias rispettivamente Oroveso, Clotilde e Flavio. Molto bravo, di contro, il coro seppur ridotto a pochi elementi.

Al centro di tutto, ovviamente, c’è Cecilia, unica e inimitabile (anche se in molti da anni ci provano), a dar voce alla sacerdotessa celtica. Alla Bartoli vanno riconosciute delle doti innegabili che personalmente mi affascinano: l’allure della diva e un carisma eccezionale tale da rendere il contorno assolutamente ininfluente se c’è lei in scena. Mai in disco o in dvd l’avevo sentita/vista più misurata e controllata come in quest’opera, dunque niente faccine, niente smorfie, niente ammiccamenti, pochissimi manierismi: la Bartoli, anche se sa che con Norma rischia sul serio, ci crede fino in fondo e di questo le si deve dare atto. Se la presenza scenica è incontestabile, l’interpretazione perfettamente in linea con la regia (fatta da lei in pratica), la dizione e l’importanza riservata alla parola ammirevoli, vocalmente resta… la Bartoli. Non ritengo opportuno soffermarmi per descrivere ciò che tutti conoscono. La sua voce è timbricamente tale e quale a come la si sente in disco, è piccola, ma sempre udibile grazie alle accortezze prescritte all’orchestra, è più salda e sonora nei centri, mentre si rimpicciolisce in quei suoi gravi artefatti, negli acuti, e quando esegue le sue celeberrime agilità fatte di colpi di glottide (in questo caso limitate quasi solo alla cabaletta Ah bello a me ritorna). Nonostante l’impegno e lo studio innegabili si tratta di una Norma con tutte le note previste, ma lillipuziana (ancor più delle altre improbabili Norme dei nostri giorni) e certamente non priva di difetti: in Casta Diva i fiati non sono abbastanza lunghi e ci sono respiri abusivi, nella cabaletta le variazioni sono mere semplificazioni e neppure belle, nei passi di furore manca l’ampiezza e l’isteria e il tragicomico sono sempre dietro l’angolo, gli acuti sono spesso stiracchiati e leggermente calanti, in molti casi alcune frasi vengono rallentate o velocizzate eccessivamente a seconda della comodità per la cantante etc. Solo nei momenti elegiaco-patetici la Bartoli riesce a trovare una cifra più convincente, in particolare nei cantabili dei duetti e, soprattutto, nel commovente finale II. Della potenza drammatica di Norma, della sua aura sacrale e della sua autorevolezza, cioè le cifre più caratteristiche del personaggio e della stessa Pasta (una diva démodée fa intendere la Bartoli), non c’era alcuna traccia nell’interpretazione e nella voce della novella Malibran; programmaticamente stando alle sue parole… o forse, potrebbero suggerire i più maliziosi, più similmente alla favola della volpe e l’uva.

Il pubblico che gremiva il teatro, trattenuto durante lo spettacolo e al termine del primo atto, piuttosto perplesso all’intervallo, ha poi tributato al termine della serata-evento un trionfo a tutti, con picchi di euforico entusiasmo all’epifania della Diva. Fischi unanimi, invece, per i registi Mosche Leiser e Patrice Caurier, da anni fidi vassalli della Bartoli, che hanno trasportato la vicenda nella Francia all’epoca della resistenza ai Nazisti e optato per una scena unica (una scuola, luogo di ritrovo segreto degli oppressi) e richiami al film Roma Città aperta con la sublime Anna Magnani, cui Cecilia si è dichiaratamente ispirata.

Gli ascolti

Bellini – Norma

Norma: Renata Scotto
Adalgisa; Margherita Rinaldi
Pollione: Ermanno Mauro
Oroveso: Agostino Ferrin
Clotilde: Giuseppina Arista

Coro e Orchestra del Teatro Comunale di Firenze
Direttore: Riccardo Muti
1979

Atto I

O rimembranza…Ma di’: l’amato giovane…Oh, non tremare, o perfido…Oh di qual sei tu vittima…Vanne, sì, mi lascia, indegno

Atto II

Dormono entrambi

Deh con te, con te li prendi…Mira, o Norma…Sì, fino all’ore estreme

In mia man alfin tu sei…All’ira vostra…Qual cor tradisti…Deh, non volerli vittime

Norma: Ghena Dimitrova
Pollione: Nunzio Todisco
Adalgisa: Maria Dragoni
Oroveso: Mario Luperi
Clotilde: Eva Ruta

Orchestra e Coro del Teatro San Carlo di Napoli
Direttore: Zoltan Pesko
1987

Atto I

Vanne, e li cela entrambi…O rimembranza!..Ah sì, fa core abbracciami

Ma di’: l’amato giovane…Oh, non tremare, o perfido…Oh di qual sei tu vittima…Vanne, sì, mi lascia, indegno

Atto II

Dormono entrambi

Me chiami, o Norma?…Deh con te, con te li prendi…Mira, o Norma…Sì, fino all’ore estreme

In mia man alfin tu sei…All’ira vostra…Qual cor tradisti…Deh, non volerli vittime

2 pensieri su “Cronache dalla Ville Lumière: Cecilia Bartoli in Norma

    • Certo che puoi! Non hai tutti i torti quando evochi Santuzza perché la Bartoli nella recitazione richiama spesso alla mente il verismo e con una simile messa in scena la sensazione era ovviamente amplificata. Lei si giustifica dicendo che la Pasta era statica e “neoclassica” nel canto e nella recitazione, mentre la Malibran l’opposto, dunque passionale, viva e un po’ esagerata… chissà! A prescindere da tutto, comunque, alla Bartoli manca proprio la voce per Norma, nonostante ogni componente dello spettacolo sia stato progettato al millimetro per farla figurare al meglio.

      Sul perché lo faccia non c’è una sola risposta, ma mille ipotesi: forse perché vende, perché ha seguito, perché è presentata come un prodotto vincente indipendentemente da ciò che fa, perché si crede davvero erede in qualche modo della Malibran, perché si annoia a fare sempre il barocco, perché per temperamento ama ruoli che sono ben al di sopra della sua dote naturale, perché è arrivata al punto da poter fare quello che vuole, perché si diverte, per prenderci in giro…. etc. Sarebbe curioso sapere cosa ne pensa la diretta interessata 😀

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