Don Carlo alla Scala. L’insostenibile leggerezza di Pereira

Man uses an ear trumpetCi vuole ben più della misera e trita banalità di Peter Stein per sostenere un Don Carlo a scena vuota o quasi, senza mezza idea registica ed evidente incapacità di far muovere le masse. Occorrono l’arte ed il genio di un Luciano Damiani, scenografo di J.Vilar all’ Arena di Verona nel ’69, costumi di P. Pizzi, un Don Carlo fatto praticamente con due pedane nude, un immenso crocefisso incombente sul palco ed un’inferriata gigantesca sugli arcovoli. Per spogliare un grand opéra come Don Carlo, ove la storia domina ed incornicia ogni momento, occorre che la stilizzazione coincida con una mirata pulizia di segno, non con la sciatteria e la superficialità. Occorre che il teatro non venga invaso da un senso di non fatto e poco pensato che sanno di tiratolàchetantobasta, anzi, occorre che il poco sia miratissimo. Occorre anche che quel poco non scivoli nel ridicolo, come è accaduto più volte ieri sera, dalla scena dell’entrata di Eboli e damigelle da can can, allo studiolo ospedaliero di Filippo al IV atto, passando per l’insipida scena di Nostra Dona de Atocha, dove nella striminzita sfilata dei popoli indiani le comparse camminavano come fossero appena usciti dall’osteria e i domenicani, con i crocefissi in mano, facevano il  girotondo attorno ai condannati. Taccio della scena del giardino, che sarebbe un momento notturno magico, con quel tragico labirinto di zanzariere e lanterne della steppa. Occorre poi che i personaggi, un volta vestiti ( i costumi dei protagonisti sono parsi il lato migliore della produzione ) si atteggino in modo consono al loro rango, regali, statuari, nobili, alteri, non certo come le due donne, una ordinaria e scarmigliata stile prostituta e non principessa, l’altra regina innamorata prima e sofferente poi, ma pur sempre regina e non la bella amante in abito da camera. Nel poco non può sfuggire nemmeno un dettaglio, sennò tutto deraglia e lo spettacolo va da un‘altra parte. Questa produzione, economica ed inutile, oggetto delle particolari compravendite del nostro sovrintendente, ce la saremmo ben potuta risparmiare sotto ogni punto di vista, sia perché l’opera, seppure in 4 atti, è stata più volte (mal) rappresentata in anni recenti, sia perché se non si è in grado di racimolare un cast decente è velleitario, presuntuoso ed altrettanto superficiale lanciarsi in un’operazione più complessa quale è la versione in 5 atti. Non si programmano le opere, soprattutto titoli come questo, a partire dal regista, ma si calibra e soppesa un produzione sui cantanti. L’insostenibile leggerezza di Pereira, al contrario, ha prescelto uno spettacolo vuoto e miserrimo, collocandovi dentro vocine e vocette che non avevano anche sulla carta i decibel per misurarsi con le peculiarità dell’opera, ossia l’elemento grandioso, la magniloquenza e la statuarietà, l’accento aulico di questo Verdi che da vita ad un importante frammento romanzato della storia della corte di Spagna. Il bravo maestro Chung si è autoannichilito per tre atti, mettendo una sordina esagerata e insopportabile alla sua direzione per consentirci di intrasentire ed immaginare quello che avrebbe dovuto uscire dalle bocche dei signori protagonisti sul palco, alcuni dei quali davvero non arrivavano al loggione. Tre atti al limite della presa in giro che il cortese maestro ha concesso al cast per provare a sopravvivere, rinunciando a suonare come si pretende persino la grandiosità della scena sulla piazza del III atto. Ridotta l’opera ad una elegia funebre e senza un minimo del nerbo, della maestosità e dei colori che il grandioso affresco storico richiede, ha pure accompagnato fiaccamente scene come quella del Velo, sempre snervando il clima con lentezze controproducenti. Magicamente Chung ha poi ripreso il suo posto a partire dall’introduzione del IV atto, ma pur sempre nella ricerca di una sinfonica lenta dolcezza che ben poco ha convinto e con la serata ormai compromessa alle spalle. Tralascio le imprecisioni del coro e certi attacchi sporchi dell’orchestra, peccati veniali della serata.

Che dire del cast? Che l’unico applauso convinto l’ha ricevuto il signor Furlanetto per aver furbamente parlato la sua grande aria, seppur con voce tubata e adenoidea, ma comunque sonora, la sola in grado di misurarsi con l’orchestrale. Si può parlare bene e intelligentemente la gran scena, con mestiere e gusto, ma non si bara per nulla in frasi come quelle del grandioso pedale del quartetto, “No. Non macchiò la fe giurata. A me infedel costei non fu….” dove la voce rotta, priva di legato e muggita ha distrutto la magia inventata da Verdi, o nel confronto con Rodrigo al II atto, dove, ad esempio, l’evocazione descrittiva delle Spagne, “L’artigian cittadin, la plebe alle campagne..” richiedono una freschezza diversa. L’emissione ora coniugata all’età rendono il suo Filippo apprezzabile solo nel volume, ma la qualità di canto resta quella già stigmatizzata anche platealmente dal pubblico in passato.

Francesco Meli ha debuttato un’altra opera di Verdi di cui, sulla carta, ha una natura adeguata per Fenton ed il Duca di Mantova. Ha fornito una prova meno negativa dei Foscari ( ho visto una sua 4° recita interamente falsettata con il pubblico che mormorava vistosamente..) ma lontano da ciò che è un tenore da Verdi. Premesso che non gli conviene la versione in 5 atti dell’opera, perché proprio al I atto da’ il peggio “vociando ” scomposto o boccheggiando con ridicoli falsetti graziato dal fatto che la partner e’ inesistente, fatica nel duetto del II atto con Posa, strozzandosi more solito negli acuti, di nuovo avvantaggiato da un partner che non si sente. Solo dal secondo duetto con Elisabetta fila sereno sino alla fine ( a parte lo strozzo puntuale delle Fiandre al III atto ), ma solo perche’ Chung e’ molto compiacente con la sordina.Se i volumi orchestrali fossero stati quelli convenzionali non avrebbe avuto modo nemmeno lui di farsi sentire, come abbiamo palpabilmente apprezzato al concertato, dove appena è arrivato un pochino di suono orchestrale Meli  è scomparso. In un mondo di ciechi chi ha un occhio è certamente fortunato e perciò ha fatto la sua bella figura, ma il suo non è Don Carlo, perché non ne ha l’accento, né la capacità di sostenere i guizzi agli acuti, né le dovute ampiezza e cavata, da cui poi può discendere la capacità di accentare con proprietà e con un tasso drammatico adeguato all’opera e a ciò che Verdi pretendeva. I piani di Verdi non possono essere equivalenti ai piani che oggi sentiamo in Rossini da Florez & C, l’accento amoroso non è quello falsettante da pesce lesso che si può anche accettare da Nemorino, soprattutto in una sala grande come il Piermarini. Il tenore italiano è preciso, elegante, bello da vedere, anche con intenzioni ma la parte è sempre più grande di lui e perciò si rimane indifferenti a tutto il suo faticare. Krassimira Stoyanova, elegante cantante vocalmente depassè, volume al limite dell’udibile, corpo di voce appena adeguato per il Don Pasquale, zona centro grave inesistente, difficoltà a girare la voce anche sui primi acuti, tutti emessi o malfermi o falsettando o sporcando il suono non può cantare in questo momento la Valois nemmeno in sala da pranzo di casa. Spiace perché delle sue oggettive qualità abbiamo scritto più volte, ma in un mondo normale sarebbe stata licenziata dal teatro perché non è possibile essere inudibili per il 70 per cento dell’opera. Ha cantato un po’ al duetto del II atto con Carlo e la sua aria finale, per la quale si è risparmiata tutta sera, un compito corretto ma faticoso, cantato con una voce ed un tasso drammatico adeguati a Pergolesi. Basta un quartetto da camera a coprire la voce della signora Stoyanova, che in vari momenti pareva che accennasse, come all’atto di Fontainbleu, o cinguettare, come al concertato. In definitiva, una prova maiuscola di quello che nell’800 si definiva “cantare falso”, ossia con mezzucci tecnici, suonini, falsetti, persino certi accenti da tardo naturalismo, come al duetto finale del V atto per lei evidentemente troppo pesante, insomma mistificando l’intera parte. La signora Semenchuk è stata una Eboli di modesto volume, scarso focus nella voce, priva di eleganza, charme e slancio. Una canzone del velo imbarazzante, abborracciata e sgallinata con punte di comicità ( gli staccati!!!), per giunta costretta ad abbozzare una danza da Carmencita a bordo piscina è stato il biglietto da visita della sua serata, cui ha fatto seguito un terzetto con Posa e la Valois piuttosto sgangherato, una scena del giardino rozza, priva del fascinoso legato che si vuol sentire al terzetto con i due uomini. Complice un registro di petto modesto e soprattutto un registro acuto non più saldo, ha cantato un “O don fatale” non facile, con fiati corti e qualche urlo di troppo che hanno completato l’immagine inelegante, sotto ogni punto di vista, della sua Eboli.

Di Simone Piazzola posso dire poco, perché l’ho udito pochissimo e con difficoltà. La delusione non viene da questioni di stile, dunque, ma proprio da un’assenza di sonorità marcata ed esagerata in tutta la gamma. Forse la cosa migliore sarebbe il suo monologo al II atto presso Elisabetta ma… Anche nella scena con Furlanetto mi è arrivata solo qualche frase qua e là. Meglio la scena della morte, dove ha certamente messo più benzina, peraltro eseguita con minore precisione. Una prestazione dolorosamente sorprendente ed inaccettabile da chi pretende di fare una prima carriera per giunta al cospetto dell’orchestrale e della forza di accento che Verdi richiede.

Scadente l’Inquisitore del signor Halfvarson che non si è mostrato in grado di salire, men che meno di scendere, senza “scivolare” di continuo l’intonazione, far portamenti o forzare. La sua fonazione fa si che il canto proceda a strappi, ricorrendo anche al parlato ed in assenza di legato come nelle grandi frasi del duetto con Filippo, dove però ha dispensato gigionate e platealità ad abundantiam. Modesta T Wisser come paggio, appena discreti i signori Fiamminghi e buono il monaco di M. Summer. Insomma, un palco paurosamente vuoto per orecchie ed occhi, Verdi che non pareva più Verdi, snaturato a forza di inadeguatezze, limiti ed “effetti” di questo e di quella, più o meno artificiosi o manierati ( Chung nelle sue lentezze è stato molto manierista senza peraltro ottenere molto come risultato), tutto incerottato, presidiato e soprattutto mistificato. Del resto non vi era nessuna aspettativa da questo Don Carlo pereiresco, come dimostrano i circa 500 biglietti invenduti sul sito del teatro e la settantina di ingressi in piedi distribuiti ieri, gli applausi modesti, garantiti da qualche sparuto fan e da alcuni della claque.

“ Sembra di essere a Novara” ha commentato mesto il mio vicino a fine serata.

19 pensieri su “Don Carlo alla Scala. L’insostenibile leggerezza di Pereira

  1. Scusi, ma è sicura di sentirci? A me in prima galleria seconda fila (di lato) le voci sono arrivate benissimo… si udivano perfettamente!
    Immaginare che la scelta di Chung fosse voluta? Fossi in lei – accetti il gesto di affetto – andrei da un buon otorino.

  2. Ho assistito alla generale. Speravo che, dalla prima, Chung dirigesse in maniera un po’ più sanguigna e invece….

    Devo essere l’unico a cui è piaciuta la Semenchuk!

    Comunque, dai, rispetto alla Butterfly un netto miglioramento.

    U

  3. Buonasera. Vi leggo sempre ma é la prima volta che scrivo. Sono abbastanza d’accordo con Giulia Grisi. Ero in palco laterale terzo ordine: Piazzola non si sentiva. Voce piccola e non proiettata. Vero che nella scena del carcere si sentiva un po’ di più ma col risultato che spingeva. Comunque cantante monocorde. Pessima la Semenchuk: “Canzone del Velo” con agilità imbarazzanti, terzetto del terzo atto dove praticamente non si udiva (e non era coperta da Chung). Al Don fatale é stata giustamente buata. Questi per me sono stati dal punto di vista vocale le prestazioni peggiori. Mi piace la Stoyanova ma riconosco che era tutt’altro che perfetta. Comunque la recita la porta a casa. Furlanetto é vecchio. Sicuramente il personaggio esce…ma la voce é quello che é….Su Meli non voglio infierire….se penso a Eboli e Posa. Chung mi é piaciuto, anche se non ho capito se copriva le voci od era perché le voci son piccole o proiettate male. Sulla produzione faceva parte del “pacchetto Salisburgo” (in attesa del prossimo Falstaff) che bisognava economicamente ammortizzare (a favore di Salisburgo ovviamente). Vero che la scena era vuota ma non é che l’ultima produzione di Don Carlo fosse meglio…..comunque. É stato il mio primo Don Carlo in cinque atti. Sono passati 40 dall’ultima volta che la Scala lo ha proposto….speriamo prima o poi nella versione francese…prima di 40 anni, altrimenti non credo di esserci. Un saluto al Corriere della Grisi

  4. Mediocrità elevata al massimo della sua forma
    Grandissima delusione per Chung che ha diretto tutto piano (piano piano e sottovoce ) e con tempi lentissimi..nel tentativo di aiutare il canto (?) ha per contro cristallazziato tutti i difetti e le imperfezioni ..e annoiato
    eravamo tutti preparati e consci che non avremmo assistito ad un ‘esecuzione memorabile ; ciò non toglie che dall Orchestra della Scala diretta da cotanto Direttore qualcosa di meglio lo si dava per scontato…
    neanche il minimo sindacale ! e certo non ha giovato
    tirare fuori questa versione ancora più lunga ..
    visto di ciò che si disponeva.

    Concordo che dal 4^ atto in avanti ci siano stati dei
    miglioramenti musicali ma il 3^ atto è stato micidiale
    Noia e poi noia nient’altro che maledetta noia.
    Uno spettacolo ‘informe’ visivamente inappagante e
    registicamente assente hanno dato il colpo di grazia.
    Quanto al cast si è già detto
    Personalmente ho trovato Meli falsettante oltre
    misura , sparito il Giovane amante Don Carlo se non per la grande presenza scenica ; Furlanetto ‘salvatosi ‘ per la sua competenza tecnica ha parlato nella sua grande aria; quanto a soprano e mezzo boh ! io ho sentito
    più Mimi che Elisabetta !!
    Imbarazzante la danzetta del velo ‘gitana’ di Eboli e
    via un bel taglio a tutti gli acuti e generesi gorghettii
    o erano cinguettiii ???
    La scena Filippo II Grande Inquisitore si svolge nel
    gabinetto del medico condotto di Terni
    Il più potente monarca d Europa e delle Indie ha un
    ufficietto con le maioliche ? o era carta da parati
    a mo di boiserie!?
    Quanto alla AutoDafe una sagra di paese ; della tensione che esplode nel 3^ atto neanche l ombra
    D’altronde: atto I nella foresta incantata di Fointainebleau
    si incontrano Elisabetta e Don Carlo
    La foresta è un post bombardamento nucleare con un bel pino annerito e abbattuto e un po di legnania lasciata dei precedenti taglialegna… che meraviglia per gli occhi!

    e poi qua e là un po di tutto qualche fuori tempo del coro che aveva fretta di andare a casa mentre Chung forse non più di tanto e certe stonature nel 3^ atto
    (fiati )
    Noia
    e bruttura

    e si aveva avuto da ridire dell edizioni di Muti !
    I commenti caustici sui compianti Pavarotti e sulla Dessi e di Ramey qualcuno disse che non era in gran forma !
    o siamo impazziti tutti o forse molti che amano la lirica
    preferiscono ascoltare le splendide incisioni che circolano su internet o ascoltarsi i propri cari cd
    ecco perchè arrivato alle 18:10 ho acquistato 1^ galleria posto 158!
    La dice lunga..
    molti giovani in galleria: poverini! meno male erano tutti presi con i loro smartphone ;
    Come direbbe il Gran Ciambellano Pereirones:
    EINE TRIUMPH !

  5. Vidi il Don Carlo di Muti e devo dire che molte critiche furono ingiuste sia per la direzione (che trovai splendida) che per i cantanti. Poi venne Gatti e sappiamo tutti come andò (forse uno dei punti più bassi della recente storia scaligera). Non credo che vedrò questo Don Carlo, sia perché la versione in 5 atti non mi piace (trovo l’atto di Fontainebleau inutile, prolisso e incoerente, soprattutto se appiccicato a forza alla versione finale dell’84), sia perché non mi attira particolarmente il cast e la messinscena mi pare orribile. Mi sembra incredibile tuttavia, quanto leggo su Chung (trattato come fosse un povero idiota a cui necessiterebbero lezioni di direzione….): non vorrei che ci si innamori così tanto dei propri gusti – e anche io faccio autocritica – dal ritenere “sbagliato” tutto ciò che non corrisponde alla propria idea di interpretazione. Credo che sia legittimo che il direttore – chiamato, appunto, a dare dell’opera l’impronta che predilige – faccia il suo mestiere, optando per soluzioni di suono e scelte dinamiche. Troppo spesso leggo critiche perché “è sanguigno” oppure “non è sanguigno” oppure “manca colore locale” oppure “è troppo rifinito” oppure “è sciapo” oppure “non è come XYZ” (dove X o Y o Z sono SEMPRE praticoni di tradizione come se solo loro fossero “giusti” per certi titoli: immagino che si preferirà Santini o similari). Ciascuno può preferire quel che vuole, ma le scelte interpretative sono altra cosa e se non corrispondono alla propria idea del titolo (che è personale, soggettiva, parziale e, come tutto, opinabile), pazienza: non per questo sono “sbagliate”….non ci può essere nulla di sbagliato in un’interpretazione che per sua natura è libera e legittima. Potrà piacere o no, ma appunto, si tratta di questioni personali.
    Detto questo mi pare di capire si tratti dell’ennesima occasione sciupata: Don Carlo in 5 atti manca dai dì di Abbado (40 anni se non erro)…si doveva far qualcosa di più, soprattutto dal punto di vista scenico.

    • Prima di parlare bisogna sentire. Vai e capirai cosa è accaduto…Le ciambelle possono non riuscire anche ai direttori mica solo ai cantanti. Le libertà di agogica di un direttore nell opera sono legate alle possibilità di chi.canta. Chung ha fatto poco volume fin tanto che ha dovuto per dar sentire il cast ma i tempi lentissimo erano suoi perché le donne.soprattutto avevano il fiato corto. Più celerità avrebbe giovato a chi già era.sovrastato dalla parte. Quindi anche il maestro ha le sue responsabilità diciamo…
      Ma.ripeto, vai senti e capisci il non Sense di questa produzione

  6. Sono completamente d’accordo sulla mediocrità irritante delle scene… come per Butterfly, la strettezza di budget anziché cavare creatività dal regista ne ha cavato negligenza, banalità, arrendevolezza. Troppo bianco, tinte unite da ansia, lo studio del grande Filippo sembrava il locale di un kebabbaro.
    A livello attoriale grandioso Furlanetto come sempre; anche il Grande Inquisitore era perfettamente in parte, certo sacrificando un po’ la voce, ma per il mio modo di vivere l’Opera è un sacrificio che vale la pena. Meli appena sufficiente. Gli altri da buttare… questo cantare e basta, come alle recite scolastiche, indossando personaggi abbozzati e bidimensionali, credo sia ciò che fa dell’Opera un’arte senza significato né senso di esistere, quando potrebbe essere (e fu) la sintesi estrema di ogni forma d’arte, e il più potente mezzo espressivo.
    Chi ha detto ai cantanti che per lavorare nei teatri basta saper cantare è colpevole del degrado a cui assistiamo; la gente è scema, ma non insensibile: la noia di questi burattini sul palco è straziante per chi non conosce la musica e ha per di più uno smartphone a portata di mano, molto più entertaining e “a colori”.

    • La diagnosi al di là delle schifezze del reparto visivo sono presto fatte e non solo con questo don Carlo ovvero che i cantanti di oggi sono o sembrano pochissimo preparati, mai un accenno di fraseggio sia innovativo sia nel solco della consolidata tradizione (mentre scrivo sto ascoltando il duetto di Traviata Germont-Violetta 1906 Russ/Bonini che è esemplare nel rispetto di quella che già doveva essere la consolidata tradizione dopo 50 anni dalla prima del capolavoro) e questo perchè i maestri di spartito o ripassatori non sanno nulla nè di tradizione nè di tecnica di canto ed i direttori d’orchestra se ne sbattono di tutto ciò che riguarda il canto. La critica slurpista dice, per difenderli “sono direttori da sinfonica”. Asini ed ignoranti perchè ignorano quello che grandi ed immensi direttori “da sinfonica” fossero Walter, Reiner, Kleiber padre, Busch, de Sabata, sino a Karajan, Levine e Schippers facevano accompagnando i cantanti. Ascoltare per credere e trovare esempi contrari all’assunto.

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