Finire l’opera: Il Ratto dal serraglio a Bologna.

Nei giorni in cui l’Isis polverizza (di nuovo) le rovine di Palmira, la provincia italiana dimostra, e non per la prima volta (sull’argomento teatro di regia alle nostre latitudini, con relativi deliri e deliqui, vi intratterrà più diffusamente, nei prossimi giorni, Domenico Donzelli), che la cosiddetta civiltà occidentale è prontissima a smantellare quel poco che resta della sua più autentica ricchezza, il patrimonio culturale, proponendo una regia di Ratto dal serraglio che, la sera della prima, non ha raccolto applausi né fischi, ma un imbarazzato e annoiato silenzio durante la rappresentazione e fiacchi consensi ai saluti finali. Questo è forse l’aspetto più notevole della riproposizione dello spettacolo (griffato Aix-en-Provence 2015) di Martin Kusej, che per l’occasione ha delegato a Herbert Stöger la ripresa di un allestimento presuntuoso nella concezione quanto abborracciato nella realizzazione. L’azione è trasportata dalla Turchia immaginata da Mozart e Stephanie jr. a una landa desertica, quartier generale di una banda di fiancheggiatori del Califfato: i dialoghi (riscritti da Kusej con Albert Ostermaier) banalizzano e annacquano gli originali, ora allo scopo di risultare “poetici” [gli interventi di Belmonte, “assetato d’amore” (sic), alla prima aria di Osmin, la scena fra quest’ultimo e Blonde prima della cavatina della ragazza, i deliri dei fuggiaschi all’inizio del terzo atto], ora con l’intento di dipingere “tutte le torture” e l’indicibile orrore della prigionia. Il grottesco, però, deve essere perfettamente calibrato per funzionare, e qui tutto è affastellato senza un disegno preciso: immagini suggestive (il falò dei guerriglieri, la controscena di Selim durante la grande aria di Konstanze, il citato incipit del terzo atto) si alternano ad altre pedestri (le sevizie ai prigionieri durante il coro dei giannizzeri, Konstanze “sedotta” in un semicupio, gli amanti che cantano la gioia di rivedersi stando a tre metri di distanza l’uno dall’altra, il duetto del prefinale con i preparativi per la fucilazione etc.), senza che lo spettacolo riesca mai a trovare una cifra definita o anche solo un equilibrio fra lirismo, violenza e sarcasmo. La pedestre riscrittura dei dialoghi (inutilmente dilatati) turba poi l’equilibrio, perfettamente calibrato, fra recitazione e canto e risulta ancora più molesta per il fatto che le voci, sia nel parlato sia durante i numeri musicali, hanno scarsa proiezione, al punto che i sovratitoli costituiscono un apporto indispensabile per la comprensione di quanto avviene in scena. E non si dia, come ha già fatto certa critica compiacente e prona, la colpa di tutto questo alla scenografia fonoassorbente, ché le voci di Mika Kares (Osmin) e Johannes Chum (Pedrillo) risultano chiare e udibili nei dialoghi (molto più di quella dell’attore Karl-Heinz Macek, Selim) e, nel canto, finché insistono, la prima, in zona medio-alta, la seconda, nella fascia centrale: purtroppo, Osmin scende spesso e volentieri e Pedrillo nell’aria del secondo atto ha qualche frase un po’ acuta, e proprio qui casca l’asino, con l’esibizione di suoni rispettivamente soffiati e collocati fra naso e adenoidi. Rose e fiori di fronte alla prestazione degli altri solisti: Bernard Berchtold, timbro da caratterista e tecnica da dilettante in una parte che richiederebbe legato, capacità di cantare piano e sfumato a tutte le altezze, e perché no un poco di slancio al duetto, in cui Belmonte esalta la propria imminente morte assieme all’amata, Julia Bauer, che ha esibito qualche acuto fischiante e ben poco altro come Blonde e soprattutto Cornelia Götz, timbricamente indistinguibile dalla sua cameriera e messa regolarmente alla frusta ora dalle lunghe frasi della cavatina, ora dalle fioriture più spericolate, sempre e comunque da una tessitura che esige un perfetto controllo del suono tanto al centro quanto sugli acuti. La vera e autentica delusione (forse perché nata dalle sole legittime aspettative, il cast non promettendo alcunché) viene però dal podio. Nicolaj Znaider asseconda, non si sa fino a che punto deliberatamente, la schizofrenia dell’allestimento alternando fragori non ben governati (l’effetto banda è immediato, anche quando non è di scena la “musica turca”) e sonorità ovattate: l’orchestra non suona peggio che in altre circostanze (e l’impegno dei solisti concertanti in “Martern aller Arten” è notevole), ma la bacchetta è in palese difficoltà nel coordinare buca e palco nei passi concertati (fin dal duetto Belmonte-Osmin) e, anche nei momenti in cui non avvengono grossi incidenti, si fatica a rinvenire un’atmosfera che vada oltre il suono più asettico e piatto. Togli al Ratto l’incanto di un Oriente immaginario, la vivacità degli intrighi dell’harem, l’elegia dell’amore perseguitato dalla sorte e che cosa resta? Nulla. Rovine, per l’appunto.

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4 pensieri su “Finire l’opera: Il Ratto dal serraglio a Bologna.

  1. 14-15 anni fa avevo avuto la sventura di assistere in quel di Salisburgo a 2 regie del Kusej, vere schifezze, che si possono anche vedere in DVD, per chi vuole rovinarsi gli occhi. Un Don Giovanni che faceva vomitare ed una Clemenza di Tito che faceva c….are.
    Poche volte in una frequentazione ultratrentennale ai teatri lirici ho visto simili porcherie, per di più assolutamente prive di idee, ma solo piene di cavolate sconclusionate.
    Don Giovanni in scnografia bianca con luci al neon, scene orrende, costumi orrendi.

  2. Clemenza ambientata nel cantiere di un palazzo di periferia in costruzione, con cementi vari, tubi, rubinetti ed incendio vero alla fine del primo atto con gran puzza di petrolio e fumo che riempiva la Felsenreitschule ed arrivo di veri pompieri; fumo permaneva nel secondo atto nonostante l’apertura del tetto per farlo sfogare.
    Costumi orribili, tali da non fare accorgere dell’avvenenza indubbia della sig.ra Garanca…. il che è tutto dire!

  3. Pur amando Mozart, non conosco l’opera (vuoi per il tedesco, vuoi per la struttura in sé). Ma non capisco una cosa: perché hanno cambiato i recitativi?

    Personalmente odio i tagli “scellerati” in generale, ma arrivare a riscrivere tutto! Mi sembra uno schiaffo enorme!

    Per quanto riguarda la regia… Ormai mi sono arreso: stiamo vivendo in un modo dove certe logiche “politiche” permeano perfino nelle scuole, figuriamoci in un teatro… L’occidente non ha perso solo la religione (ahimè), ma anche il gusto per il bello.

    Un saluto,
    Lindoro.

    • Lindoro…..mi sono arreso anche io davanti allle regie d’opera che ci propinano (e sti “registi” vengono anche profumatamente pagati. Non ho visto e non vedró questo “Ratto” bolognese…non mi interessa. Quindi caro mozartiano conoscere o non conoscere il tedesco non é un problema ma ti invito a chiudere gli occhi ed iniziare ad ascoltare e conoscere questa bellissima opera.

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