Pavarotti remebered III

pavarotti-rodolfo-1343999877-view-0 Luciano Pavarotti ha rappresentato, nei miei ricordi di ascoltatore e nella mia formazione musicale IL tenore (così come Karajan ha rappresentato IL direttore). Il tenore per eccellenza: nel fisico, nel repertorio, nei pregi e nei difetti. E soprattutto nella voce, perché da quella si deve partire quando si parla del fenomeno Pavarotti: potrà piacere o meno, gli potranno essere imputate carenze sul piano espressivo o tecnico, si potrà analizzare col bulino ogni minimo difetto, ma non si può negare che quella voce è stata tra le più incredibili, seducenti e belle del secolo scorso (io mi azzardo a dire: la più bella di tutte). Un dono di natura, certo, ma che non può costituire una “deminutio” nella valutazione di una carriera straordinaria. A volte ci si dimentica che il canto non è solo tecnica e virtuosismo, ma è anche bellezza, piacere, gioia nell’ascoltare una voce straordinaria: possiamo certamente apprezzare la perizia tecnica di molti artisti che con essa supplivano a timbri sgraziati, difetti di pronuncia, problemi d’emissione, ma la gioia dell’ascolto che una voce come quella di Pavarotti (immediatamente identificabile) suscitava, resta per me irripetibile. Voce straordinaria, dunque, ma che – come giustamente riconosciuto nel ricordo dell’amico Domenico – è stata per Pavarotti un’arma a doppio taglio. Se la dote di natura, infatti, è stata la fortuna, la stessa fu il suo più grosso limite. L’innata bellezza di quel timbro e la congenialità con i ruoli più identificativi della corda tenorile, hanno preso il posto della preparazione e dello studio. Anno dopo anno, mentre Pavarotti diventava Big Luciano, la curiosità iniziale, la cura – pur al netto di una preparazione musicale problematica (nulla di scandaloso: moltissimi cantanti anche gloriosi erano musicalmente dei semi dilettanti) – la musicalità, lasciavano spazio alla genericità ed al disinteresse. Così la carriera del tenore modenese si può dividere nettamente in due parti: fino alla metà degli anni ’80 e dopo. Della prima parte ci sono i grandi ruoli tenorili per cui la sua voce pareva essere l’esatta incarnazione dei personaggi affrontati: Edgardo, il Riccardo del Ballo in Maschera e il Rodolfo di Bohéme, Nemorino, il Requiem verdiamo, Cavaradossi, il Duca di Mantova, Elvino, Arturo, Calaf, a cui personalmente aggiungo – con alcune precisazioni – Manrico, Chenier, Radames e Arnoldo (il primo nella sua versione “donizettiana” che gli confezionò con saggezza e amore Bonynge, l’ultimo in virtù della facilità d’acuto, ma minato da talune carenze tecniche che con Rossini non lasciano scampo). Della seconda parte c’è il lento declino: purtroppo l’immaginario collettivo, la stampa, la televisione e il grande pubblico hanno di Pavarotti il ricordo sbagliato. E’ il Pavarotti dei “Tre tenori”, dei duetti al limite del trash con le pop star, delle collaborazioni più o meno discutibili con la musica leggera (fatta eccezione per “Caruso” di Dalla). Certo se si paragonano i vari “Pavarotti & friends” con l’ostinazione immorale con cui il suo collega Domingo, in condizioni vocali pietose, continua a calcare i palcoscenici col truffaldino mutamento di corda in ruoli baritonali, beh allora Pavarotti resta un modello di onestà intellettuale (considerando anche la natura benefica di quelle serate). Il mio ricordo personale di Pavarotti è diviso tra l’amore e il rimpianto. Lo sentii dal vivo in una sola occasione: lo sfortunato Don Carlo scaligero in cui fu preso a pretesto – per l’oggettiva impreparazione – dell’esito interlocutorio della serata. Eppure, riascoltandolo oggi, è evidente come non fossero sue le colpe e, come ricorda Domenico, la sua voce ed il suo personaggio erano alla fine i più azzeccati ed interessanti (poi sono venuti altri Don Carlo alla Scala e allora l’esito negativo di quello spettacolo andrebbe alquanto ridimensionato): mi ricordo la galleria piena di gente, tutti in piedi cercando di avvicinarci alla balaustra e poi la voce che pareva fosse lì di fianco. Un’emozione ancora viva. C’è anche il rimpianto per il cantante che avrebbe potuto essere se non avesse puntato esclusivamente sulla dote naturale: immagino come potessero suonare gli Ugonotti con la sua voce, certo Rossini, Mozart (il suo Idomeneo resta tuttora splendido) e l’Otello verdiano se qualcuno gli avesse detto di non imitare Domingo. Per me Pavarotti resta quel grande cantante: un cantante vero ed un artista sincero. E certi ruoli ormai non vivono più, nella mia immaginazione, senza la sua voce. E questo è il segno che – piaccia o meno – Luciano Pavarotti è parte della storia della musica operistica. Voglio ricordare due episodi che mi colpirono e mi commossero: il “Nessun dorma” della cerimonia di apertura delle Olimpiadi Invernali a Torino nel 2006, fu la sua ultima esibizione pubblica (il brano in realtà fu registrato poco prima della serata, come confermò Leone Magiera) ed era visibilmente segnato ed affaticato dalla malattia che di lì a poco più di un anno l’avrebbe portato via, ma quei “vincerò” ancora squillanti e luminosi sembravano un gesto di sfida ad un destino ormai segnato; e il mattino del 6 settembre 2007 quando, mentre bevevo un caffè al bancone di un bar, la TV mostrò le immagini di Pavarotti mentre cantava “Celeste Aida”, ci fu un attimo di silenzio in cui tutti ci fermammo ad ascoltare quella voce che era un miracolo. Scrisse, poco prima di morire: “Spero di essere ricordato come un cantante d’opera”. E così lo voglio ricordare e lo ricorderò sempre.

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10 pensieri su “Pavarotti remebered III

    • Fino ad un certo punto però: nulla giustifica il circo delle celebrazioni a cui abbiamo assistito in questi giorni: sono indegne di un paese civile e di una televisione che dovrebbe anche veicolare cultura e formazione (altrimenti a che serve la TV di Stato?). Il problema è più grave, secondo me, e non riguarda solo Pavarotti: il fatto è che oggi in Italia la musica colta e l’opera in particolare, sono diventati veicolo di spettacolacci pop con l’intento – idiota – di “avvicinare” l’opera ad un pubblico più vasto. Il risultato lo vediamo: nessun allargamento di pubblico, ma diffusione di ignoranza e superficialità. Noi ci picchiamo di essere la patri dell’opera e del canto e siamo, invece, la nazione più ignorante in tema di musica: strafalcioni ripetuti da TV e giornali, critica inesistente, disinteresse verso la cultura musicale.

  1. Prima di qualsiasi altra considerazione è da sottolineare una volta di più che Pavarotti è stato – ovviamente – un grande, ascoltarlo dal vivo un privilegio raro e in disco sempre un gran piacere. E’ bene sottolinearlo sennò si rischia di perdere il senso delle proporzioni. Tecnicamente tutt’altro che sprovveduto: sotto questo profilo era quello messo meglio tra i tre tenori. La natura, generosissima nel regalargli una voce di luminosa bellezza, non lo è stata altrettanto per quel che riguarda la musicalità e il talento interpretativo. Un tenore come Di Stefano , tecnicamente meno ortodosso di Pavarotti, aveva a mio modo di vedere un’ intuizione della parola scenica incomparabilmente superiore: si raffrontino ad esempio le rispettive incisioni di Bohème: anche solo il primo atto. La perfezione evidentemente non è di questo mondo e Pavarotti – imperfetto come tutti – si colloca comunque nella sfera più alta, quella dove stanno coloro verso cui dobbiamo provare solo gratitudine per quanto siano stati in grado di regalarci. Sul suo periodo pop ho poco da dire: non sono mai riuscito a seguire i tre tenori o i concertoni modenesi per più di un quarto d’ora, rapidamente sopraffatto dalla noia. Era roba per un altro pubblico e francamente la cosa non mi ha mai infastidito più di tanto. Ho però sempre apprezzato il sommo rispetto e direi il palese senso d’inferiorità che le pop star dimostravano nei confronti di Pavarotti. Era l’unica cosa che mi divertiva e lusingava di quegli eventi.

  2. Per me Pavarotti è stato “il” tenore della mia formazione, all’inizio degli anni ’80 le prime voci che uno zio mi fece ascoltare sono state quelle di Pavarotti e di Gigli. Ho avuto occasione si ascoltare Pavarotti dal vivo solo una volta, in Arena in concerto, credo fosse il 1985. Per me era già un mito e l’impressione di sentire quella voce fatta di corpuscoli dorati che si espandeva in arena fu straordinaria; era uguale al disco, era il tenore dalla voce facile, luminosa, comprensibile, riconoscibile, quando gli altri faticavano, si strozzavano, nasaleggiavano. Di questa diversità non capivo la ragione all’epoca, non capivo dove nascesse la differenza tra lui e gli altri. L’eccezionalità di Pavarotti lo metteva automaticamente a confronto con i grandi del passato; il presente non esisteva, non era paragonabile. Impietoso da questo punto di vista anche il tardo primo concerto dei tre tenori del 1990 dove un Pavarotti in disarmo si mangiava sia Domingo e le sue ruffianate che un Carreras consunto e urlante.
    La cosa che rimarrà sempre evidente è la capacità attraverso quella voce straordinaria di far sembrare nuovo ogni personaggio, di farlo risplendere giovane, vitale. Entra in scena Radames e ha il sole nella voce; Don Carlo con tutti i limiti e gli scivoloni, ma quel “Io l’ho perduta! Oh potenza suprema!
    Un altro… ed è mio padre… Un altro… e questi è il Re” la verità di quelle frasi rimarrà difficile da raggiungere, Rodolfo, Edgardo… avesse cantato più Donizetti… cosa sarebbero state pagine come “come uno spirto angelico” con quella voce…
    Pavarotti in quegli anni di già declino dell’opera era il canto, quello vero, quello tecnicamente sano che non sentivo in altri cantanti e che avrei scoperto solo più tardi risalendo il tempo con i riversamenti dei vecchi 78giri. Rimangono i rimpianti per tutto quello che non ha fatto è vero, ma a ben guardare cosa è venuto dopo…

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