La Bohème a Bologna: “Dio, che concetti rari!”

E così questa Bohème è stata un successo. Sempre se cinque minuti di applausi a fine serata, applausi che peraltro si sono estinti prima che avesse termine l’ultima uscita alla ribalta (e si dava Bohème, non le Villi o Edgar), possono considerarsi un successo. Diciamo che ci sono state limitate riprovazioni (possiamo dire: di prammatica?) per la regia di Graham Vick e un generale apprezzamento per gli altri. In rete abbiamo poi letto quello che leggiamo ormai per qualsiasi nuova produzione coinvolga il direttore pesarese, ovvero che con la sua lettura avrebbe innovato in maniera profonda e definitiva la storia interpretativa del titolo, fatto piazza pulita della concorrenza, svelato particolari e totali mai uditi in precedenza e insomma un elenco di superlativi che avrebbero messo in serio imbarazzo l’agenzia Stefani o la Pravda. A siffatte iperboli, che vogliamo sperare figlie di autentico, benché poco fondato e informato entusiasmo, non possiamo replicare che al solito modo, ovvero chiedendoci che servizio renda a Puccini (o a qualsiasi altro autore) una direzione che:
– adotta sistematicamente tempi letargici, in grado di stremare esecutori di limitate doti naturali e modestissime cognizioni tecniche, tanto che il canto di conversazione (asse portante dell’opera) sembra, più che altro, un’interminabile agonia;
– risulta incapace di differenziare le scene brillanti del primo e quarto quadro dall’incipit della scena alla barriera d’Enfer, in cui la musica dovrebbe suggerire l’atmosfera livida dell’alba invernale, mentre qui l’orchestra suggerisce il pigro sopore di un meriggio estivo;
– nel tentativo di evidenziare i preziosismi della scrittura (benché Bohème non sia Turandot o Fanciulla del West, ma neppure il Trittico), finisce per perdere per strada l’orchestra (chiusa del duetto “O Mimì tu più non torni”) e talvolta anche i solisti (intervento degli amici al finale primo: “Momus, Momus, zitti e discreti…”);
– quando decide di esprimere urgenza drammatica (finale del secondo e quarto quadro) trascende nel bandistico (con buona pace delle finezze orchestrali).
Poi ci sarebbe la questione del canto. Mariotti ha un bel parlare (nell’intervista contenuta nel programma di sala) di “impronta belcantista” conferita allo spettacolo: la verità è che le voci convocate di belcantistico non hanno nulla e nulla hanno di veristico. Sono voci non sfogate, prive di punta, che maldestramente si arrabattano in ruoli troppo superiori alle loro forze. In questo senso il “meglio” della produzione è costituito da Mariangela Sicilia, che sarebbe a stento una Musetta in provincia o in terzo cast, e che qui è una Mimì di voce precocemente senescente, poco udibile in prima ottava, stridula in alto, ridotta a farfugliare maldestramente tutto il finale dopo avere dato fondo alle proprie energie nel terzo quadro e segnatamente nel “Donde lieta uscì”, la cui chiusa è funestata da urla (sui sib e lab) e sibili. Le è degno compare Nicola Alaimo quale Marcello, dalla voce rigorosamente “sui piedi”, sovente stonato in alto (fin da “affogo un Faraon” e “le sue rendite oneste” al principio dell’opera), piuttosto becero nel gusto, tanto che il duetto al terzo quadro fa pensare, più che altro, all’incontro fra Tonio e Nedda (con buona pace dell’impronta belcantista) e il già citato “Mimì tu più non torni” evidenzia, ancora una volta, i limiti del fraseggiatore in uno con quelli dell’esecutore. Un filo meglio Francesco Demuro, ma il ruolo del romantico poeta mal si concilia con suoni ovattati e in bocca, prossimi al parlato in fascia medio-grave e più voluminosi, ma privi di squillo e prossimi al falsetto, in alto (un limite abbastanza grave per una voce che sarebbe, in natura, di lirico leggero). Insignificanti gli altri bohémien (che pure hanno più voce, e meglio emessa, dei protagonisti), mentre Hasmik Torosyan, già deficitaria Donna Fiorilla nella precedente stagione bolognese, dimostra scarso charme e seri problemi con l’abc del canto anche nel valzer di Musetta. Suscita un po’ di tristezza ritrovare nei panni di Benoit e Alcindoro Bruno Lazzaretti: i ruoli da caratterista adatti a un anziano tenore sono altri (penso allo zio Vézinet del Cappello di paglia di Firenze o ai servitori dei Racconti di Hoffmann) e la sua partecipazione non è memorabile, malgrado la buona presenza scenica.
Resta poi da dire dello spettacolo. Che non è iconoclasta, rivoluzionario, spiazzante e giù di mirabilia assortite, ma è la solita Bohème dell’Ikea, ambientata ai giorni nostri in un appartamento che sa più di studenti fuori sede e fuori corso che non di giovani intellettuali a corto di quattrini. Oltre alle abituali sottolineature fuori luogo del terzo quadro (la barriera d’Enfer è una banlieue con tanto di vigilantes, spacciatori e puttani d’ambo i sessi, le lattivendole sono quattro vecchie con i sacchetti dell’immondizia, o come si dice nel vernacolo locale “il rusco”) e a incongruenze non di poco conto (nel primo quadro c’è la luce elettrica ma i personaggi, sa il cielo perché, si preoccupano delle candele, nel secondo la cuffietta, regalo di un certo pregio, diventa un berretto che potrà costare tre euro dai cinesi e lo stesso berretto viene poi, durante “O Mimì tu più non torni”, gettato nella spazzatura), la regia si distingue (si fa per dire) per la scelta di rendere Rodolfo assai poco propenso ad assistere la moribonda Mimì, che agonizza in solitudine o quasi: la giovane, una volta spentasi, viene coperta da un lenzuolo dagli amici, che poi raggiungono il fuggiasco innamorato (?). Sarà una trovata bella e profonda, ma ci chiediamo come si concili con una musica che esprime l’esatto contrario. Come vorremmo sapere per quale ca**o di motivo Musetta nel secondo quadro sia abbigliata come la moglie di un arricchito moldavo (come se un Consigliere di Stato, quale è Alcindoro, potesse far uscire di casa la propria amante parata in quel modo) e nel finale le due donne entrino in scena come se smontassero dal turno al rispettivo lampione (le avventure galanti di Musetta e Mimì, nel romanzo di Murger come nell’opera, sono ben altro). Ma forse certi interrogativi è giusto che rimangano senza risposta.

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21 pensieri su “La Bohème a Bologna: “Dio, che concetti rari!”

  1. Vista in tv allora passi per una direzione pretenziosa, che crede che tempi letargici e qualche rallentando faccia una boheme sinfonica, per i cantanti da recita per le scuole in pomeridiana, ma la regia e l’ apparato visivo sono indecenti e disonesti verso il pubblico e gli autori. I giovani bohemienne al quarto atto non sfuggono la morte come questo pseudo regista spaccia, più semplicemente fanno l’ esperienza della morte ovvero per la prima volta nella loro vita e per giunta in danno do una coetanea si scontrano con il finisco vitae in una squallida soffitta poveri in canna. Più banalmente si è voluto spacciare una trovata scenica per ben altro. Che squallore, che tradimento dell’ aitore

  2. Appena finito di vedere La Bohème in tv. No, è meglio Klemperer.
    Articolo di Tamburini da condividere al 100%. Edizione penosa. Cantanti esattamente come descritti. Gran noia. Voci in massima parte inadeguate. Idem con patate concertazione e direzione; nulla da dire in più rispetto a quanto scritto nell’articolo di cui sopra. Messa in scena noiosa e ridicola, francamente inutile. Come ho già scritto per la Turandot torinese, che bisogno c’era di una nuova (brutta) messa in scena quando i felsinei già ne hanno una?
    cfr. http://www.comunalebologna.it/index.php?id=136
    Inoltre, lo stile della messa in scena mi ricordava moltissimo una Bohème vista all’Opera di Passau (provincia tedesca che più provincia tedesca non si può) un quarto di secolo fa.
    Stesso stile, stessi costumi orridi, stesse battone e stessi tipi strambi, incongruenze etc. Quindi a Bologna si spaccia per novità roba che si vedeva a Passau nel 1993.
    E poi, gli abiti!!!! Dio mio, che schifezze!
    Musetta e Mimì avevano proprio un look da battone, per parafrasare Leo Longanesi, secondo cui un mendicante di classe non avrebbe chiesto mai l’elemosina di fronte ad una chiesa progettata da Piacentini, viene da credere che una puttana di classe non indosserebbe della roba simile per andare a lavorare!
    Non mi aveva affatto convinto la Bohème, anche quella con abiti moderni, vista a Torino 2 anni fa, ma tutto sommato, quella era ancora meglio di questa bolognese.
    Peraltro ritengo che almeno la brutta messinscena felsinea, improntata all’estetica del brutto e dello squallido, sembrerebbe un fulgido esempio di bellezza e meraviglia e fedeltà ai desiderata di Puccini, Illica e Giacosa, se paragonata a quella da poco apparsa sul palcoscenico dell’Opera di Parigi, ambientata in una astronave, manco fosse “Aniara” di Karl-Birger Blomdahl (che sicuramente un regista à la page di scuola teutonica ambienterebbe fra scenografie tratte da Bibbiena e Galliari…)

  3. Per quanto sia grande la sua passione, egli non può amarti in una vita come io ti amo in un attimo.
    Per ripetere una frase di un famoso romanzo!
    Se voi sapeste quanto vi stimo… TUTTI!
    Ma stavolta non sono tanto d’accordo in special modo per Musetta! Buon lavoro a tutti

  4. Io credo esistano alcuni titoli – soprattutto quelli intorno al’900 italiano – dove è tale la componente scenica e regista della musica che ben poco si possono scardinare e destrutturare. Il teatro pucciniano (a parte Turandot) è improntato a realismo e narrazione e nella musica si trovano esplicitati gesti e movimenti (pensiamo al finale II di Tosca dove la musica impone un vero e proprio montaggio cinematografico dell’assassinio di Scarpia). Per cui a parte qualche innocuo spostamento d’epoca non si può far altro e, in ogni caso, lo spostamento non scalfisce la drammaturgia: che si ambienti Boheme nella Parigi di Luigi Filippo o in quella dell’occupazione tedesca o in una moderna metropoli, restano immutati gli ambienti e la vicenda (l’appartamento squallido, il caffè o il bar, la periferia). La recente Boheme torinese (vista a Edimburgo) era la stessa Boheme di sempre, ambientata però ai giorni nostri. Poco male. Lo stesso vale per quella di Michieletto per cui non comprendo tutto questo clamore: una Boheme normalissima (con qualche trovata di cattivo gusto, forse). Non si capisce dove risieda la sua eccezionalità. Purtroppo quando sono coinvolti certi nomi pare che scoppi una specie di epidemia che trasforma la normalità in qualcosa di mai visto. E coerentemente con chi sostiene la superiorità di Mariotti su Klemperer (e immagino che qualora si metta a fare Wagner vi sarà chi lo riterrà superiore a Furtwängler o Knappertsbusch o Karajan o Boulez), si sostiene la superiorità assoluta di questa regia di Michieletto. Tal dei tempi è il costume…

  5. ..si capisce vedendo questa ‘nuova/vecchia’ messinscena di Boheme perchè quella di Zeffirelli venga riesumata…
    Trasportare in epoca moderna ci sta pure ma volere
    farsi del male no… tutto brutto trito e ritrito ..i soliti pallini del fumo e droga e marchettoni vari…fanno da sfondo a quattro sfigati … esistenze distrutte da alcol e droga ?! La poesia dell innamoramento e della giovinezza non pervenute… costumi (?) orridi… molta banalità
    condivido il commento sull edizione di Torino di qualche anno fa
    era decisamente più digeribile.

    Voci come ne abbiamo sentite mille volte.. inadatte
    anche se ce la mettono tutta non sono certo aiutati
    dalla regia che li costringe in posizioni improbabili
    il povero rodolfo a piedi nudi con i pinocchietti
    mah !

    Ho invece trovato interessante, una volta tanto …Mariotti e sembrava quasi suonassero bene…
    brava la Musetta (per me sconosciuta)

    Graham Vick ormai è andato…..
    Forse i buh alla regia sono stati sapientemente tagliati
    Mi chiedo …e chiedo … ma perchè sti sovrintendenti e
    direttori artistici amino così tanto l orrido ?

  6. Mi sono perso il primo quadro e l’inizio del 2^, cioe’ ho visto da Parpignol in poi. Dell’aspetto visivo non sono scandalizzato, quanto piuttosto un po disorientato dal 3^ e 4^ atto perche’ il 2^ secondo me funzionava. Nel 3^ e 4^ la freddezza, il distacco dei 2 giovani innamorati mal si concilia con l’idea che da sempre ho, ma credo tutti abbiamo, di Bohème, per il resto se si opta per uno spostamento temporale e’ chiaro che non vediamo i costumi del 1830, ma a questo punto la questione e’ se si accetta o meno lo spostamento temporale; non mi dispiacque quella di Torino, che tenderei comunque a preferire a questa ma, secondo me, nei Teatri circola ben di peggio, poi io non sono un estimatore di Vick e, se penso a Bohème la prima cosa che mi viene in mente e’ la soffitta di Zeffirelli, cosi’ come, se penso al Barbiere o alla Cenerentola, penso subito a Ponnelle. Personalmente, a me e’ venuta in mente proprio la non accettazione della morte nella fuga finale di Rodolfo, subito seguito dagli amici. Vocalmente ho trovato accettabili i 3 amici, tanto che la “zimarra”, per esempio, potrei persino dire che mi e’ parsa buona; diverso il discorso per le 2 protagoniste e Rodolfo che tenderei ad accomunare, a costo di essere approssimativo, in un’unica definizione: voci sostanzialmente povere, che non lasciano il segno, che non appagano all’ascolto, buoni attori, comunque.

    • Vick deve spiegare che CORRISPONDENZA sussista tra la vita bohemienne e quella dello zoo di Berlino che ha rappresentato a bologna. Perché sono questi i suoi giovani? Quelli emarginati della periferia e non giovani qualunque ? E perché rodolfo sembra il cretino del paese e la realtà di un luogo semiperifico sia una concentrazione di tossici marchettari e vecchi esibizionisti? poi come ha scritto Marcemi perché si è permesso di togliere la vitalità a questi giovani bohemienne che proprio la vitalità simboleggiano? Perché vivono non modestamente ma come extracomunitari nelle case occupate?
      Per me era uno spettacolo cialtrone e senza fondamenti al pari di michieletto di damnation….doveroso solo nel.modo di concepire l estetica dell immagine che compongono sulla scena ma entrambi sono illegittimi. Sono la degenerazione del pensiero di sinistra ancora di moda fatto di luoghi comuni e banalità.

      • Per mio conto Vick è un regista sopravvalutassimo: non ricordo quasi nessun suo spettacolo decente (forse un paio). Oggi poi che si è riciclato come post sessantottino è ancora più intollerabile. Il suo Tell faceva pena, il suo Stiffelio era una cagata pazzesca…a certuni piace, ma sono gli stessi del solito giro, violenti e intolleranti con chiunque non la pensi come loro e che fanno capo a certe correnti, certi siti, e certi critici musicali…

          • Ovvio…qui ha trovato la gallina dalle uova d’oro e una massa di pecoroni che lo considerano un genio. Pensa che ho letto questa frase: “dopo questa Bohème sarà difficile vedere di nuovo un’ambientazione ottocentesca”. Questo è quanto

          • Peraltro quella del Regio di Torino è ambientata ai giorni nostri. Ma Vick fa più fino in Italia…

          • Ma tanto a breve sentiremo le stesse scemenze (“opera sentita per la prima volta”, “regia sconvolgente”, “mai più come prima”…e cazzate varie) per la Vedova allegra veneziana che Michieletto ambienta e reinventa nel periodo della crisi bancaria. Ovviamente perdendo tutto il contesto austroungarico. Ma tanto anche lui è un genio e guai a contestarlo sennò il critico criticante ti definisce un “coglione” (cit.).

        • Il MItridate londinese visto anni da a Torino non era affatto male. Meglio, molto meglio, di tanto Mozart serio messo in scena più recentemente (penso all’orrendo Idomeneo secondo Michieletto); La clemenza di Tito in camicia nera vista al Regio era accettabile al confronto dell’orrenda messa in scena salisburghese di Kuseji. Il Macbeth scaligero con il cubo, Muti e Bruson, bruttarello ma almeno non c’erano stravolgimenti del libretto. Il Guglielmo Tell una schifezza immonda che non mi ero stancato di buare a voce piena assieme al Dott. Dulcamara, invitando il regista ad andare ad impiccarsi al cappio cui faceva appendere Melchtal.
          Il resto solo ed esclusivamente pura m…a, ma nemmeno di artista come quella di Piero Manzoni. Penso all’ultimo Mosé pesarese; uno schifo. Emetico. Molto emetico. Ed anche lassativo. Fortemente lassativo.

  7. Un’operazione all’insegna dell’imperizia vocale, orchestrale, scenica, al limite del dilettantesco, a prescindere dalla eventuale coglionaggine della lettura che si è voluta imporre al testo.

    In un’opera – come spesso accade con Puccini – dove l’azione è illustrata non solo dalle didascalie ma perfino dalla scrittura orchestrale (scintillio della fiamma nella stufa, spruzzo d’acqua sul volto di Mimì, ecc.) l’anziano regista – un tempo à la page – decide di fregarsene dando luogo a un racconto confuso e fuori fase dove nulla torna, come se le battute dei personaggi fossero cantate in ittita, quindi di difficile comprensione e di conseguente resa.

    Al pari dell’ultima Traviata scaligera – dove l’azzardata lettura naufragava davanti all’incapacità tecnica del regista di comporre immagini adeguate ad illustrarla – ci meravigliamo innanzitutto che in teatri primari si continuino ad avallare standard da spedizione punitiva.

    Altro che Klemperer…! Siamo piuttosto a un’altra Traviata scaligera, dove però al posto della Callas c’è la Foster Jenkins.

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