Ernani: “fa che a me venga… qui mi trasse…. da quel dì che t’ho veduta”

A differenza degli innamorati, Carlo V si presenta in scena con un ampio ed ampolloso recitativo e nel duplice ruolo di re ed innamorato. Innamorato di Elvira, naturalmente, ed alla quale viene a proporre di essere la sua favorita. Riceve una rispostaccia dalla nobildonna, che gli spiega, senza mezzi termini, che il suo ruolo ed il suo rango sono tali da respingere siffatta offerta. Possiamo dire che Elvira non aveva a modello Leonora de Guzman e non era antesignana della duchessa di Cornovaglia. Certo che al di là della gaffe intrinseca nella profferta amorosa il giovane re si presenta come un innamorato con ciò riagganciandosi ai baritoni donizettiani -per non dire ai baritenori rossiniani tutti innamorati respinti- e presentando la più completa figura verdiana di amoroso respinto precedente del conte di Luna.
Al recitativo segue il duetto con il delicato andante “da quel di che t’ho veduta” dove Carlo V è più donizettiano che mai riagganciandosi a Severo, Chalais e Alfonso XI. Uguale psicologia, tessitura vocale e decisamente più acuta.
Come nel caso della sortita di Elvira ci sono almeno tre registrazioni che tutti, o quasi, gli appassionati di registrazioni a 78 giri conoscono ossia Battistini/Corsi, Molinari/Arangi Lombardi e Cigada/Boninsegna. Tralascio la prima perché il Carlo V del baritono romano impone autonoma puntata e mi concentro sulle altre due, che prevengo non sono le sole di interesse per la storia della vocalità e dell’interpretazione operistica.
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La prima delle due, forse, è più conosciuta per la fama della Arangi Lombardi che per quella di Enrico Molinari. Il baritono veneziano canta benissimo, con una voce limitata e modesta più per timbro, che per ampiezza, colori, varietà di fraseggio, facilità e morbidezza in zona acuta, che sono quelli della grande tradizione del canto baritonale italiano alle prese con la nobiltà sociale, che diviene nobiltà di espressione. L’Arangi-Lombardi, all’epoca della registrazione all’apice della fama di grande soprano drammatico, sfoggia nobiltà di fraseggio, morbidezza e rotondità di suoni, pur con qualche suono querulo (per usare i termini di Lauri Volpi) ed un’ottava inferiore un po’ vuota rispetto a quella superiore davvero sfavillante ed ampia. Oltretutto la cantante napoletana non brillava per ardore e temperamento e questo si sente nella replica il famoso “fiero sangue”, che espone la voce zona grave della voce, che non era il meglio della cantante.
Celestina Boninsegna da Reggio Emilia sfoggia autentico e genuino temperamento, eccezionale penetrazione ed ampiezza di suono nel dare replica all’elegante, sussiegoso Francesco Cigada, che di fatto registrò quasi l’intera parte. Se dobbiamo trovare qualche difetto a questa celebrazione di canto ed accento verdiano dovremmo prestare attenzione a certi primi suoni centrali della Boninsegna, che suonano meno ricchi e sontuosi del resto della voce.
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Quando a Cigada, come molti cantanti della propria generazione, canta una straordinaria rotondità e morbidezza, non ha problemi a smorzare i suoni in qualunque gamma della voce (quella acuta suona straordinariamente squillante e tenorile) anche se talvolta si ha l’impressione di una voce che suoni un po’ nasaleggiante anche se la facilità oggi perduta della facilità n zona alta può far propendere per un suono fortemente immascherato e di posizione molto alta. Ricordo per chi ascoltasse questa registrazione e le altre di Cigada nei panni di Carlo V come il baritono lombardo fosse celebre per lo squillo, la potenza della voce e avesse maggiormente praticato opere del tardo ottocento e del novecento, tanto da essere il primo Giangiotto Malatesta approvato da Zandonai in persona eppure il suo Carlo V, senza assurgere ai livelli di Battistini, è davvero esemplare.
Che canti attenendosi scrupolosamente ad un canto ottocentesco con un oscuramento dei suoni fortemente marcato, che dona al suono rotondità e squillo è Taurino Parvis, la cui facilità nella zona acuta della voce fa pensare ad un tenore drammatico o baritenore. In realtà, ripetiamo quanto detto per la Raisa nella cavatina di Elvira, l’emissione “leggera ed avanti” del canto erano il linguaggio comune dei cantanti sino alla metà del secolo scorso e che consentiva carriere trentennali e voce fresca sino al ritiro. Anche Taurino Parvis risponde al modello della sussiegosa nobiltà che sono la sigla del personaggio più aderente alla scrittura ed alla drammaturgia verdiana e quindi un passaggio di registro da manuale, capacità di legare ed addolcire i suoni morbidezza in ogni frase senza perdere la regalità e senza cadere nel mondo e nella poetica dell’operismo ‘900. A tutti questo baritoni era chiaro che Carlo V la corona la indossasse sempre anche quando cantava d’amore. Del pari a questa generazione di cantanti era chiaro nell’accento la differenza fra Carlo V e Marcello o Sharpless
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Nel trattare le Elvira e la cavatina di sortita abbiamo avuto occasione di polemizzare sulla presunta rivoluzione della Callas, che ritengo una restaurazione. Ma rivoluzione o restaurazione che fosse è certo che il soprno greco fu il modello per almeno due generazioni di soprani. Il caso di Aristide Anceschi (1866-1938) in corda di baritono ricorda come nel momento in cui circolavano ed erano modello di canto Battistini e Kaschmann il cui modello era, poi, Antonio Cotogni il canto baritonale era tecnicamente quadrato, nobile ed elegante nell’espressione anche ad opera di cantanti, come Anceschi, che occasionalmente frequentavano i grandissimi teatri ed erano le colonne del repertorio nei teatri secondari della grandi piazze (il dal Verme a Milano) ad esempio o nella allora ottima provincia come Parma.
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L’esecuzione di Aristide Anceschi obbedisce in maniera completa ai canoni praticati da tutti o quasi i baritoni del tempo e, per conseguenza l’interpretazione aderisce a quella nobiltà e solennità che sono peculiari del giovane sovrano. Possiamo dire che Anceschi era assolutamente nella media del proprio tempo, ma dobbiamo anche concludere che quella media oggi sarebbe ben al di soprà dell’eccezionalità.

2 pensieri su “Ernani: “fa che a me venga… qui mi trasse…. da quel dì che t’ho veduta”

  1. Mi inchino di fronte alla vostra conoscenza delle esecuzioni storiche di opere notissime. Devo dire anche che la qualita’ dei cantanti era in quei tempi notevole.
    Devo anche riconoscere che un tempo sapessero assortire molto bene le coppie, mettendo insieme, per esempio, un Taurino con una Ciaparelli… :-)

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