Don Giovanni a Bologna: il dissoluto svanito.

Il ritorno di Don Giovanni (dopo un’assenza di oltre un lustro) nella sala del Bibbiena segna la fine dell’incarico di Michele Mariotti quale responsabile musicale del teatro bolognese. Difficile, dunque, resistere alla tentazione di vedere nella produzione il culmine e in uno la summa di oltre dieci anni di permanenza del direttore pesarese alla testa delle compagini felsinee, anche perché quello che è forse “il” titolo mozartiano (volendo limitarsi all’ambito delle opere più eseguite e, in particolare, al Mozart italiano) arriva dopo gli altri due capitoli della trilogia dapontiana, nonché Idomeneo e Zauberflöte, tutti affrontati nello stesso teatro (e ben poco, per non dire nient’affatto, altrove). Una così lunga preparazione avrebbe dovuto suggerire a Mariotti uno studio più approfondito e una maggiore attenzione nella resa dei dettagli di una partitura in ogni senso tanto onerosa. Va invece in scena quella che a esser magnanimi si può definire una prima lettura, con varie imprecisioni e problemi di décalage nei momenti topici (il finale primo con le micidiali entrate delle tre orchestre, peraltro collocate in buca e non già in scena – ricordiamo che, al pari di quanto avviene nella scena finale dell’opera, la musica proposta è “interna” al dramma, essendo offerta da Don Giovanni ora ai suoi ospiti, ora a se medesimo – così come i concertati, su tutti il quartetto “Non ti fidare o misera” e il sestetto “Sola sola in buio loco”), caratterizzata soprattutto da tempi slentati, che dovrebbero costruire un’adeguata tensione drammatica e finiscono invece per annegare il tutto in un magma di indistinta noia, anche perché nessuno dei solisti dispone di risorse naturali o espressive tali da compensare la limitata fantasia della bacchetta. La direzione trova un passo più appropriato nelle scene in cui viene evocata la figura del Commendatore, ma anche in questi casi le sonorità risultano attutite e carenti di elettricità, dunque incapaci di restituire il clima sovrannaturale che non dovrebbe essere, peraltro, proprio del solo padre di donna Anna, ma dello stesso protagonista, che per tutta l’opera e in particolare nel finale dovrebbe ergersi al di sopra dei personaggi che lo circordano, tanto da porsi per così dire su un piano di parità con il suo ultraterreno interlocutore. In questo senso la concertazione non può dirsi agevolata da una regia (di Jean-François Sivadier, in un allestimento coprodotto nientemeno che con il festival di Aix-en-Provence) che si limita a rimasticare l’ormai frusto catalogo di pseudotrovate e pseudoprovocazioni (compare anche un cunnilingus) dei Don Giovanni di Peter Brook (che tocca ormai il ventesimo anno di vita) e Robert Carsen, proponendo un palcoscenico nudo, personaggi in incongrue mise tra Settecento da parrocchia e “decostruzione” (post)datata, la solita folla di mimi e ballerine, mentre i solisti si muovono (o meglio, non si muovono) e agiscono esattamente come nei vituperati spettacoli di tradizione, senza che di quelli venga riproposto il pertinente lusso e la grandeur in ogni senso adeguata al titolo. Grandeur che peraltro latita, a tutti i livelli, nella compagnia di canto, a partire dal Don Giovanni di Simone Alberghini, meno in affanno rispetto agli ultimi cimenti rossiniani nel medesimo teatro, ma comunque ben distante dall’autorevolezza e dal fascino richiesti al personaggio, anche quando lo spettacolo scelga (come in questo caso) di dipingere l’impenitente libertino più come una vittima del Fato che non come un ardito interlocutore dello stesso. Peraltro il protagonista risulta vocalmente indistinguibile dal Leporello di Vito Priante, che, sprovvisto della cavata del basso autentico, finisce per essere poco o nulla udibile nei momenti in cui il servitore viene chiamato a fare da “continuo” (ad esempio nell’introduzione al primo atto e alla chiusa del già ricordato sestetto). Truce e malfermo nella voce il Commendatore di Stefan Kocan, mentre tutto sommato funzionali risultano il Masetto di Roberto Lorenzi e il don Ottavio di Paolo Fanale (che pure presenta i già noti problemi di emissione sul passaggio superiore e indulge talvolta a riprese di fiato piuttosto aleatorie). Essendo “saltate”, sebbene non all’ultimo momento, le previste interpreti di Anna e Zerlina (annunciate Olga Peretyatko e Antoinette Dennefeld), il resoconto delle voci femminili deve cominciare dall’unica superstite del terzetto iniziale, Salome Jicia, nome di punta della scuderia pesarese. In una sala dalle contenute dimensioni come quella bolognese la voce risulta di buon calibro (tanto da far comprendere perché alla signora vengano offerti, in tempi grami per il mercato delle voci, ruoli da soprano drammatico di agilità), la scansione dei recitativi è accurata e tutto sommato la scrittura mozartiana ostacola la cantante meno di quella rossiniana, ma rispetto a prove passate si odono gli stessi suoni sordi e artificiosamente enfi in basso e i medesimi strilletti nella zona dei primi acuti, indizi di un’emissione affidata più alla natura che non alla solidità tecnica. Neppure la natura brilla, peraltro, nelle due compagne di avventura, l’evanescente Lavinia Bini (che pure, qualche anno fa, esibiva, studentessa dell’Accademia felsinea, uno strumento di ben diverso cabotaggio) quale Zerlina e soprattutto Federica Lombardi, voce al più da soprano lirico leggero, malferma a tutte le altezze, con tendenza alla stonatura nei passaggi fioriti e ovunque la scrittura oltrepassi anche di poco il registro centrale. In forza di quale equivoco alla signora vengano affidate (da parte di teatri non solo secondari) donna Anna, la Contessa Rosina, Fiordiligi, ma anche le parti di Giuditta Pasta, risulta difficile a immaginarsi.

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