Il glossario di Mancini. 1) La voce “avanti”

Ci pare opportuno dare avvio a questo informale glossario tecnico-vocale con una prima voce dedicata all’imposto del suono, nodo centrale da cui tutto dipende nel canto. Nel gergo di maestri, cantanti e appassionati si usa l’espressione “voce avanti” per indicare un suono che “corre”, ben presente, proiettato, udibile a distanza. E’ bene precisare subito che la voce non si porta avanti in forza di spinte, pressioni, schiacciamenti o di ogni altra sorta di manovre artificiali, bensì essa va naturalmente avanti quando esistono le condizioni perché ciò accada, vale a dire l’assenza di tensioni e attriti di gola, e una idonea alimentazione del fiato (le due cose ovviamente sono interdipendenti). Il canto è uno e non può che essere uno: l’imposto corretto non è un artificio, nessuno l’ha mai inventato, non è arbitrario, se così fosse esisterebbero tanti imposti diversi e nessuno di questi potrebbe dirsi “giusto” in assoluto. La “voce avanti” pertanto non è una voce tra tante altre possibili, ma è LA voce emessa correttamente che consente di cantare o recitare o parlare in pubblico al massimo delle proprie possibilità. Non è una causa, ma è l’effetto di un’emissione non solo sana ma libera, fluida, senza impedimenti derivanti da scorretti coinvolgimenti della gola. In questo senso è da evitare l’uso di espressioni come “maschera” o “immascheramento”, in quanto confondono la causa con l’effetto, suggerendo un coinvolgimento attivo e volontario dei risuonatori facciali, che invece funzionano da soli e di certo non si attivano meglio pensando di direzionare la voce verso gli zigomi o la fronte (operazione che spesso si traduce in orrende nasalizzazioni o in suoni spinti e schiacciati, come per esempio accadeva all’ultimo Kraus). Il cantante può percepire una vibrazione interna in determinate aree del volto, ma si tratta di sensazioni soggettive diverse per ciascuno, ed in ogni caso sono conseguenze e non cause della corretta fonazione. Il suono avanti è il suono che nasce già “fuori”, scoccando veloce e leggero sulle labbra, chiaro, puro, immateriale; è condizione necessaria per poter unire magistralmente i registri, per intonare con precisione e attaccare le note pulite, per avere il controllo delle dinamiche dal pianissimo al fortissimo, per sviluppare l’agilità, per pronunciare nitidamente, articolando le parole con naturalezza, infine per preservare lo strumento dall’usura. Non è un optional che in nome di presunti evoluzionismi interpretativi possa essere messo da parte, chi afferma ciò è un ignorante che non merita alcuna considerazione.  In teatro la voce avanti si riconosce in quanto capace di riempire la sala dando l’impressione di provenire da tutte le direzioni, al contrario delle emissioni difettose che, anche se udibili magari in ragione di una natura generosa, restano lontane e confinate sul palcoscenico. Quanto poi alle possibilità espressive e musicali, sono due universi. L’abominio dei microfoni ormai diffusi in tutti i teatri del mondo per ovviare alla scarsa udibilità delle ultime generazioni di cantanti, può ingannare solo gli sprovveduti. In ogni caso, se ci si accorge che le voci sono microfonate è buona norma abbandonare la sala e non farci più ritorno: l’amplificazione falsifica l’ascolto e uccide la musica.
Di seguito alcuni ascolti esemplificativi. Immancabile Tito Schipa che incarna meglio di chiunque altro la semplicità del cantar come si parla, a dimostrazione del fatto che “voce avanti” non significa affatto voce costruita o artefatta. Ascoltandolo si tocca con mano la verità del canto che è uno e non può che essere uno, si intuisce cioè come altro canto non sia possibile al di fuori del suo. Tutti i cantanti proposti cantavano con la propria voce: ciò che ascoltiamo è la vera e unica voce di Schipa, di Lauri Volpi, di Battistini,  e non una generica “voce lirica impostata” di tenore o di baritono uguale a tutte le altre. Sono voci chiare e naturali, con pronuncia nitida e scolpita, donne comprese. Voci VERE e proprio per questo intrinsecamente espressive. Per gli esempi negativi rimandiamo alla puntata del glossario che dedicheremo alla voce “indietro”.  
Immagine anteprima YouTube

Immagine anteprima YouTube

Immagine anteprima YouTube
Immagine anteprima YouTube
Immagine anteprima YouTube
Immagine anteprima YouTube

Immagine anteprima YouTube

Immagine anteprima YouTube
Immagine anteprima YouTube
Immagine anteprima YouTube

Immagine anteprima YouTube

69 pensieri su “Il glossario di Mancini. 1) La voce “avanti”

  1. Mancini,esco un po fuori dall’argomento,o meglio ci sono dentro,ma in modo marginale,sono due puntate alla Barcaccia che è ospite il soprano Elizabeth Norberg-Schulz,che è anche un ottima spiegatrice sulle vocalità,e tecnica del canto.

    qui c’è la pagina dei podcast,con l’ultima puntata con Elizabeth Norberg-Schulz ,ascoltala,e poi magari dai un tuo giudizio …

    http://www.radio3.rai.it/dl/portaleRadio/media/ContentItem-027656b3-b795-4740-8955-e891d16dfe85.html

  2. Caro Mancini, è singolare che un Glossario non proponga l’origine storico-etimologica delle espressioni proposte. Lasciamo perdere l’incongrua (e trita, mi si conceda) fede nel “canto unico e solo”, quando la Storia insegna tutt’altro e la fisiologia conferma (la voce di Del Monaco correva, ma non era di tecnica tradizionale, idem per un Fagioli). Mi sorprende il fatto che venga liquidato il problema del posizionamento delle sensazioni facciali in due battute, quando è stato la quintessenza del canto italiano: “avanti” significa appunto “voce posizionata nella parte anteriore della testa”, cioè non-indietro, non-ingolata; che poi non risuoni niente nella testa è fatto arcinoto da un secolo almeno, ma la didattica si basa su dati empirici, che con buona pace di Juvarra hanno garantito secoli di fiorente tradizione orale. Il punto è, d’altro canto (pardon), che proprio immaginando di dover fare risuonare la voce “in faccia” si atteggia la muscolatura della laringe in maniera tale da ottenere il suono *tradizionalmente* (sottolineo) considerato corretto. Ma la tecnica nasce appunto da questi fraintendimenti, dall’idea che nei seni frontali e sfenoidali possa risuonare qualcosa, etc., e non da altro! Singolare poi notare come il testo non specifichi esattamente in che modo, in mancanza di questa pur mitologica fede nei risuonatori, si possa educare la voce: l’assenza di tensione laringea ed una corretta respirazione sono pane quotidiano di logopedisti e cantanti pop, ma ciò non li rende di certo maestri di canto “lirico” (francesismo necessario) né fa “avanzare” il suono delle loro voci. Non riesco a cogliere neanche il legame tra le giustissime invettive contro le nasalizzazioni e l’incisione di Schipa, che per questioni legate alla pronuncia dialetto d’origine ed all’esasperazione proprio della didattica dell’immascheramento tipica della sua epoca eseguiva soprattutto in acuto suoni che non possono non dirsi velatamente nasali, gusti a parte, e sono legati a quella nasalizzazione “positiva” che nessuno negherà esistere (anche se a me, a dirla tutta, non piace per niente). Basta confrontare peraltro le tre proposte tenorili, assolutamente coincidenti in questo aspetto, e si capisce perché non abbia scelto De Lucia e Bonci o Tamagno, oppure solo De Lucia e Lauri-Volpi, ma Lauri-Volpi e Schipa, dato che il problema è legato alle preferenze musicali (all’età?) di Mancini, che è stato abituato a catalogare come “giusto” un certo tipo di armonico, che invece compare relativamente tardi e viene attualmente contraffatto da imitatori di bassa qualità di cui non posso fare i nomi, del resto a tutti noti. Idem per i soprani, perché non proporre la Patti e la Olivero oppure la Gencer? Perché nessuna mostra i livelli di nasalizzazione di una Toti Dal Monte, tipici di alcuni soprani leggeri (Tetrazzini in testa: molto dipende anche dal tipo di tensione delle corde). In conclusione, se posso permettermi di fare questa proposta da affezionato lettore, sottoporrei il Glossario ad una sorta di peer-review, o rischia di diventare il riflesso della personalissima idea di canto dell’autore; che a me per inciso interesserebbe anche conoscere in maniera unitaria, semmai in un post dedicato, ma non può essere proposta come modello definitivo ed universale perché del tutto autoreferenziale.

    • Caro udatorbas, ti ringrazio della tua disquisizione ( dove l hai letta? ). Ti assicuro che questa rubrica non rischia di diventare altro che ciò che vuole essere, ossia un glossario tecnico relativo al canto, che è uno ed uno solo, e non perché lo diciamo noi, man perché fin che l’opera lirica è stata una grande arte si è cantato o tentato di cantare in un modo solo. Del moderno eclettismo sonoro che fa sì che si vadano affermando concetti o teorie tese ad avallare mostri e cani che nemmeno in un bestiario medioevale sarebbero ammessi, poco ci importa. Oggi si canta male anche e a causa di queste ideologie che poi hanno ragioni precise di essere, a cominciare dalla martissen loman sino agli affondisti meloccheschi e postmeloccheschi. Non ci interessano le derive subite dal canto lirico e nemmeno gli usi mistificazione e manipolati della terminologia tecnica, fatti per accreditare metodologie scorrette. Il canto è uno, e tale resta.

      • Gentilissa M.me, non l’ho letta da nessuna parte, è farina del mio sacco; mi interesso da anni di canto e tecniche di canto, ho tradotto personalmente una quantità di trattati ottocenteschi (che poi de facto sono i primi veri trattati), e non posso che contraddirla: non è mai esistita “una” tecnica, semmai “un” ideale, questo si, ma tantissime idee diverse su come conquistarlo. Gli esempi possono essere molteplici, basta guardare alla respirazione: la scuola di Bernacchi ed il 90% dei trattatisti descrive un meccanismo definito come “l’esatto contrario della respirazione naturale” (Mengozzi, Cordero, Fetis…), consistente nel sollevare il petto e tirare in dentro la pancia inspirando e nel fare il contrario espirando. Da qui, per una voce nel futuro Glossario del nostro Mancini, l’espressione “sostenere il petto”, ed ancora la Gencer in una conversazione che si può udire su youtube dichiara che questo metodo le fu insegnato dalla Arangi-Lombardi. Oggi è assolutamente assente dalle scuole di canto, l’ultimo che io conosca a praticarlo è Aspinall che è considerato poco più che uno stregone dalla massa dei professori di canto, ed in ogni caso, come Zucker ha potuto dimostrare con puntuali interviste, la gran parte delle Dive del ‘900 adoperava una comune respirazione addominale, esattamente quella propagandata nei primi anni del ‘900 come “fisiologicamente corretta” ed associata (anche) a Caruso. Ma potremmo andare avanti, esistono delle meravigliose incisioni di Constantino da cui si vede l’assoluta differenza tecnica nell’affrontare gli acuti a seconda che cantasse Verdi o Rossini, cosa confermata da Faure, il quale senza mezzi termini (ed esattamente come Lamperti padre, per il quale il La sarebbe nota che distrugge la voce tenorile) dichiara che i problemi del canto della sua epoca erano derivati da una rivoluzione tecnica. Ma ancor oggi il retaggio di quei maestri è babilonico: tecniche di sbadiglio, sorriso, quelle del “suono piccolo”, quelle laringee (che con Melocchi non c’entrano niente), l’affondo melocchiano e quello non melocchiano, tutto questo è frutto di una varietà di metodi che fanno la differenza tra la voce di Tamagno e quella di De Lucia, tra quella di De Lucia e quella di Caruso e tra Vinas ed Escalais. Le vere ragioni della decadenza sono piuttosto altre, notate già a metà ‘800 ed ignorate anche da questo Corriere: orchestre fuori misura, con strumentisti e sedicenti direttori di abissale volgarità esecutiva incapaci di suonare dinamiche che non siano forte e fortissimo, pubblico abituato ed assuefatto alle grida, repertorio stagnante in cui il grido è d’obbligo (la vulgata interpretativa verdiana lo impone) e studio del canto carente della più basilare profondità storica, il quale si risolve nel credere che i trilli della Sutherland fossero identici a quelli della Pasta o della Bastardella. Per inciso, qualora mai anche Mancini lo credesse, vada a guardarsi il trillo “sbrogliato” presente nel Methode di Mengozzi del 1804, che offre un’immagine singolare dello stesso concetto di legato.

    • Dire che Schipa sia nasale equivale ad una confessione della propria totale incompetenza, caro Udatorbas. Idem la Dal Monte o la Tetrazzini. Qui non è questione di opinioni, un suono nasale è un fatto oggettivo, per chi lo sappia riconoscere. Se non ti piace per niente Schipa direi che non abbiamo altro da dirci.

        • Sembrava, in effetti, averla detta. “Schipa, che (…) eseguiva soprattutto in acuto suoni che non possono non dirsi velatamente nasali, gusti a parte, e sono legati a quella nasalizzazione “positiva” che nessuno negherà esistere (anche se a me, a dirla tutta, non piace per niente)”.
          Ma per dire d’altro, caro Udatorbas, non la capisco. Perché, dal suo punto di vista, parla di decadenza delle voci? Come può esservi decadenza, se non vi è criterio fisso? Forse la decadenza, da lei riconosciuta, non è anche tecnica? E se vi è decadenza della tecnica, allora esiste LA tecnica: cosa altrimenti decadrebbe? E se invece, come lei sostiene, non esistono che molte tecniche, succedutesi nel tempo, bene, anche l’oggi ha le sue tecniche, i suoi diritti, ecc., e non vi è mai decadenza di nulla. E perché Kaufmann (simpatico, onnipresente bersaglio) non dovrebbe avere il suo posticino tra le grandi stelle della lirica? Anche lui, modestamente, dà il suo contributo all’evoluzione della tecnica bel(?)cantistica. O forse crede di cavarsela col dire che non vi fu in passato una tecnica unica, bensì un solo ideale? E allora si avrebbe una decadenza dell’ideale? Posso fare inferenze sull’ideale di certi cani e cagnetti, ma è il suono a ferire le orecchie, l’emissione orrenda.
          Ultima cosa: è una noia leggere sempre cose tipo: Grisi, Mancini, Donzelli, avreste dovuto precisare questo e quell’altro, ecc., perché questo ascolto e non quello, e cose così. Che strazio. Ma lasciate vivere.

          • Caro Zagreo: che forse le opere del Palladio sono costruite secondo i metodi di costruzione dei Greci, con manovalanze resuscitate e l’anima di Fidia a dirigere i lavori? No di certo, ma talvolta sembra di essere precipitati indietro di un millennio nell’ammirarle. Il punto è questo: io non ho come maestro un Porpora, la tradizione orale è troppo spesso fallace (discendo dalla scuola di Cotogni come altri centomila in Italia) e gira e rigira io vivo oggi, e non ieri. La questione è: posso cantare Monteverdi senza tentare almeno di penetrare il gusto della Venezia ducale? Posso cantare Bellini senza conoscere la Napoli borbonica (e la personale passione sfegatata del Maestro per Pergolesi), o Verdi senza sapere che il suo ideale assoluto di canto era Adelina Patti (oggi spesso bollata come “senza voce” da chi ascolta le pur meravigliose incisioni, che lei riconobbe tali arrivando ad abbracciare il grammofono)? La mia risposta è no. Si, la questione è di ideali, perché oggi vogliamo una voce grossa, pesante, “virile” (soprattutto per i tenori) e gridata perché siamo figli del teatro verista, che queste trovate plebee impose, e le tecniche (plurale, qui Juvarra ha ragione da vendere) si adattarono. Se lei oggi pretende un Do sovracuto tenorile “di petto”, alla Pavarotti, nei Puritani, non può non sapere che ai tempi di Bellini era cantato in falsetto; e non perché, come scrisse il grande Panofka, “secondo le intenzioni dei rispettivi compositori, le note elevate sopra il sol deggiono essere emesse con voce di falsetto”, ma perché ai tempi suoi tutti i cantanti, obbedienti agli standard estetici e quindi *ideali* dei loro tempi, così cantavano! Questo è un problema di ideali? Ovvio: è problema di estetica. Al tempo presente non costruiamo condominii con colonne in marmo, e forse gli operai non sanno manco montarle, perché non ci piacciono, ed abbiamo disimparato ad usarle. Idem per i baffi a manubrio, a meno che Lei non mi dica di possedere pure le apposite pinzette per attorcigliarli. Il problema è che a questa estetica ragionata e “nobile”, perché frutto di una antichissima tradizione, abbiamo sostituito il nulla vacuo della gridata “macha e virile”, degenerazione (si!) degli ideali borghesi dell’uomo nuovo, popolare e sincero. La tecnica insomma *non sta nella natura* (sottolineato un milione di volte), se Lei va in Mongolia troverà cantori locali specializzati nello spaccarsi le corde (secondo i nostri standard) per emettere due suoni contemporaneamente, se va in Cina troverà tecniche interamente basate sulla pressione sottoglottidea, grida vere per noi (ha mai assistito ad una rappresentazione della c. d. opera cinese?). La tecnica muove appunto dalle esigenze estetiche del canto, dalla lingua (da cui le nasalizzazioni francesi o le gole spalancate tedesche) e della scrittura vocale (legga cosa dice Lamperti dei suoi allievi abituati al canto spianato, che perdevano anni di duro lavoro sull’esecuzione delle antiche grazie!). Quanto alla citazione che fa del mio intervento, l’inciso era riferito all’ultimo periodo, e non a quello precedente, in cui “gusti a parte” (cit.) attribuivo la “velata nasalità” di Schipa a molti fattori, tra cui dialetto e “esasperazione” (cit.) di una certa didattica propria dei suoi tempi. Questi ultimi (mi riferisco alla diffusione del concetto di maschera) sono dati incontrovertibili, dimostrati dalla storiografia della didattica del canto ed a tutti conoscibili. In ultimo: io mi permetto di fare osservazioni da lettore affezionato, conscio anche dell’impatto che questo ormai antico spazio on-line ha conquistato, è normale che proponga nel mio piccolo correzioni ad idee che non condivido. Se aderiamo all’idea qualunquista del “lasciar vivere” avrebbe fatto meglio a non commentare neanche Lei, ma per fortuna lo ha fatto e mi ha consentito di chiarire il mio pensiero.

          • Che Schipa sia nasale ripeto è una sciocchezza. Evidentemente non hai idea di cosa sia un suono nasale e straparli.

      • Liquidare tutto il post e le argomentazioni di udatorbas con 2 righe senza, peraltro, rispondere a quasi niente di ciò che ha detto mi pare una confessione della propria totale incompetenza, caro signor Mancini. Un po’ di umiltà non guasterebbe.

        • Ma no, è solo un po’ di intemperanza. Se avrà voglia, risponderà. Non sia pedante, caro Sopranist. Comunque anche io leggerei volentieri la risposta di Mancini, per es. sulla questione della respirazione. Magari è l’occasione per togliere qualche altro equivoco. No?

          • No, la respirazione “antica” è proprio quella che ho descritto, ma davvero è documentata talmente tanto che si potrebbero scrivere dei libri in merito (e se ne sono scritti, che io sappia 😉 ).

  3. Mi è difficile rispondere ad Udatorbas, che mette molta carne al fuoco e fa anche un sacco di confusione. Leggere che Schipa sarebbe “velatamente nasale”, o che la Patti e la Gencer non avrebbero i “livelli di nasalizzazione” della Dal Monte o della Tetrazzini, mi crea un certo sconcerto.
    Voglio solo precisare che io non ho mai parlato di tecniche, di metodi, né di scuole. Senz’altro ne esistono di diverse. Ciò che dico è ben più radicale, non la tecnica, bensì il canto è uno. Ciò che ogni tecnica dovrebbe prefiggersi è sempre in ogni caso una voce sonora, intonata, agile, elastica, estesa, omogenea, duttile, ben pronunciata. Ci si può arrivare per strade diverse, non lo nego, anche perché non esiste un metodo universale efficace con tutti, ma l’obiettivo non può che essere UNO. Il glossario non vuole essere un manuale, non si insegna e non si impara a cantare con i trattati. Mi limito a descrivere alcune caratteristiche della corretta vocalità, come ad esempio il suono avanti, inteso come effetto, conseguenza, non come causa.

    • Oh! Ma questo è un altro discorso allora, parliamo davvero di estetica del canto, cioè di ideali (“voce sonora, intonata, agile, elastica, estesa, omogenea, duttile, ben pronunciata”), oggi purtroppo recessivi, ma che esistono dai tempi di Sant’Isidoro di Siviglia: “perfecta autem vox est alta, suavis et clara: alta, ut in sublime sufficiat; clara, ut aures adinpleat; suavis, ut animos audientium blandiat. Si ex his aliquid defuerit, vox perfecta non est”. Dagli ideali discende la tecnica (le tecniche). Però questo passaggio secondo me è fondamentale, caro Mancini, molto più dei discorsi sulle nasalizzazioni. Una volta tanto su una cosa, dico una, concordiamo :)

  4. Caro Udatorbas, lei è simpatico e anche un po’ nottambulo, e quindi ancora più simpatico. Per una volta, ci si trova a discutere tra persone che preferiscono i vecchi dischi fruscianti (se non la interpreto male): i cui gusti, quindi, convergono. La divergenza riguarda la pura teoria del gusto.
    Quanto alla “nasalità” di Schipa (da lei ribadita: dunque non la citavo a torto), non voglio mettermici, perché lei stesso la afferma e la nega con un avverbio: “velatamente” nasale può voler dire che non è proprio nasale, ma, insomma, vi è come un sospetto… Mancini, vogliamo ammettere che vi sia una pallida idea di nasalità? (Ma di cosa stiamo parlando?)
    Tornando alle questioni teoriche: adesso scopre di concordare con Mancini, ora che questi precisa di aver detto che uno è il canto, e non la tecnica. E questo sarebbe un altro discorso. Ma, se lo avesse letto con attenzione, avrebbe capito subito che il discorso era questo fin dal principio.
    Il punto è che un astratto come “tecnica” può essere scomposto nelle sue parti: tecnica di respirazione, tecnica di rilassamento della laringe, ecc. E la tecnica di respirazione a sua volta nella tecnica per far questo o quello, con attenzione alla posizione del mento e ai singoli movimenti per contrarre il diaframma, ecc. Anche due allievi dello stesso insegnante non compiono precisamente gli stessi movimenti, se vogliamo essere cavillosi, anche per motivo della conformazione anatomica. Una volta che si richiedono alla voce proiettata determinate qualità (“voce sonora, intonata, agile, elastica, estesa, omogenea, duttile, ben pronunciata”) si avrà una sola causa, una sola tecnica, in quanto la tecnica è causa del suo effetto; ma si può anche dire che LA tecnica è in realtà PIU’ tecniche possibili, nel senso che in concreto si possono impartire direttive differenti, circa dettagli anche di qualche rilievo: direttive non completamente differenti, ma un minimo. E perciò si può dire tranquillamente che la tecnica è decaduta, come l’ideale che sottende; ma anche che LE tecniche sono decadute, come GLI ideali ad esse sottesi. Le due cose vanno a braccetto. Solo che se il suono emesso da un cantante ci fa schifo, diremo che la tecnica non va bene, e non l’ideale, perché la causa diretta sono i movimenti muscolari. Mancini non ha nessun bisogno di concederle che è unico il canto e non la tecnica, è solo un moto di estrema cortesia.
    Vorrei dire altro, ma mi sono stancato di scrivere. Palladio non ho capito cosa c’entra. Vogliamo scaramucciare su Palladio?
    Vi voglio bene, siete bellissimi. Mancini, perché non fai un articolo su Alessandro Moreschi?

    • Carissimo, ricambio la simpatia :) questo luogo della rete pullula di persone informate, a prescindere dalla divergenza di idee; Mancini mi sopporta nelle mie sporadiche apparizioni, ed avrà capito cosa intendo. In generale io e Lei a quanto pare concordiamo su molte cose, salvo che sulla velata nasalità di Schipa, che ai suoi tempi non era affatto un difetto e che io infatti non posso permettermi di criticare: la invito a leggere la sezione VII del trattato di Lilli Lehmann, pubblicato nel 1902, che mostra come l’avversione per la nasalità fosse mitigata dall’idea che i “suoni di testa” dovessero in certo modo risuonare nel naso (Juvarra ci ha scritto sopra di recente un articolo, che può leggere on-line se desidera). Per concludere col resto portavo come esempio a mio avviso calzante quello architettonico: lei ha visto mai certe casette di periferia, costruite dall’ingegnere di turno che si atteggia ad architetto? Gli elementi dell’estetica dell’architettura tradizionale spesso ci sono tutti, dalle lesene alle trabeazioni, colonne, vasoni di pietre pregiate, addirittura statue… Purtroppo in assortimenti talmente pacchiani (mi si perdoni la volgarità) da far ridere senza ritegno. Lo stesso vale per la “una sola estetica/ideale di canto”: l’allievo medio, come l’ingegnere in metafora, spesso sa che esistono delle “cose che vanno fatte”, ma non ha idea del perché né riesce a collegarle con la partitura. Moreschi è davvero un esempio perfetto (ed io ne sono grandissimo ammiratore, come si capisce, e mi vanto di possedere anche un’incisione rarissima del suo famoso allievo Mancini): chi lo ascolta oggi lo fraintende perché non riesce a coglierne gli strabilianti dati estetici, documentatissimi da secoli alla Sistina, di cui fu perfetto ed ammirato interprete, non coglie insomma quel “cantar che nell’anima si sente”, quella “lacrima in ogni nota” che fu metafora usata dai contemporanei per descrivere la sua voce. Oggi si vuole insegnare canto, ad es., senza quell’espediente tecnico-estetico che fu il pianto, documentato fin dal Rinascimento (itali plorant): Moreschi mostra proprio l’ideale “puro”, che produce una tecnica “pura”, non viziata da cent’anni di decadente pseudoverismo. Qui si vede benissimo il braccetto tra tecnica ed estetica di cui anche Lei parlava: la tendenza a chiudere le vocali in acuto, del tutto assente nelle incisioni della Patti o della Albani, la preferenza per i timbri chiari (sicché chiude la A ad E e non a O, come la didattica successiva ha imposto, su cui Juvarra ha portato testimonianze molto interessanti), i glissati ed i portamenti come meccanismo normale di legato, l’accentazione della sillaba non enfatizzata attraverso l’acciaccatura (espediente gregoriano), l’uso infinito delle filature (De Lucia docet), tutte cose che oggi non si sentono più. E potremmo proseguire! Un amico, tenore in carriera di gran bella voce, provò a fare un filato nel Barbiere di Siviglia, imitando De Lucia, e fu bloccato dal Direttore: “che diavolo fa? La gente vuole cose a “voce piena”! E poi così spezza la frase musicale (???), non rispetta il solfeggio (!!!) e poi ai tempi di Rossini non si faceva (?!?!?)”. Tutti dati estetici, ideali. Talora amici allievi di conservatorio ascoltano le mie registrazioni di De Lucia e mi dicono che “sembra un falsettista” (si potesse ascoltare Rubini… Non hanno idea!), la Olivero “ha la voce non impostata” (ohimé), Tamagno sarebbe ingolato, e Moreschi “è uno schifo”. Se davvero il Corriere della Grisi dedicasse uno spazio a Moreschi non sarebbe male, colgo al balzo la Sua provocazione: sarebbe bello che quell’ideale tecnico-teorico fosse nuovamente studiato in Italia (all’estero in parte lo è) e portato all’ascolto del pubblico.

  5. La vedo glissare sui punti del disaccordo, tirando diritto. Ma va bene così, perché faremmo notte, dovendo reimpostare l’intera questione; di persona sarebbe altra cosa.
    E’ evidente: il gusto, che fissa il suo ideale, è mutato e rimutato, e a qualcuno Tamagno parrà addirittura ingolato (ma è dura da credere, in tempo di suoni infagottati). Non è detto però che, anche mercé la disponibilità impensata fino a dieci anni fa degli antichi solchi, il vento non cambi. Revival moreschiano? Devo dire la verità, a me il canto del Moreschi piace molto. E mi piace il timbro: è fortuna che si siano fatte quelle registrazioni (lessi che i tecnici erano venuti in Vaticano, non so più se dalla Germania o da dove, per registrare Leone XIII, mentre furono dirottati in Sistina, e dovettero accontentarsi, poveri; la seconda volta andò meglio, e così abbiamo anche i gracchi pontifici, che recitano non so più quale orazione. Comprai il cd con tutto questo strano materiale una quindicina di anni fa). Dicevo: mi piace il timbro. Fu una sorpresa: niente a che vedere con timbri femminili (non dico dei falsettisti). E’ una voce maschile, ma di ragazzo; di fanciullo, ma senza la piattezza, la mancanza di armonici delle voci bianche (che tollero poco). Ascoltandola, si capisce come l’evirato potesse interpretare parti virili (sì, ci vuole anche un po’ di immaginazione).
    Non sapevo niente, invece, di questo allievo, altro Mancini, che, con breve ricerca, scopro chiamarsi Domenico. Chi fu costui? Cosa incise?
    Notte

    • Moreschi è IL problema dell’estetica del canto preromantico, il punto sta proprio nel far capire a quanti, a differenza Sua, non hanno avuto l’umiltà di sedersi ad ascoltare questa voce dall’oltretomba della Storia per capire cosa fosse il bello canoramente parlando dei secoli andati. Oltre vent’anni fa Zucker affermò una frase di banalità incredibile ed importanza capitale: questo è un castrato ed è l’unico che abbiamo, tutto quello che possiamo sapere sta in queste registrazioni. È vero! Ma lo sente il registro medio di Moreschi (il quale fa di tutto per non scendere di petto puro, addirittura alza alcuni pezzi per evitare il Fa)? Non c’è paragone con le trovate pseudo-baritonali della Bartoli, e la Patti (che incise l’Ave Maria, pur se in tonalità ribassata come l’Albani) mostra una disomogeneità timbrica assai maggiore per ragioni strettamente fisiologiche, in parte chiarite da studi recenti. Concordo sulla singolare virilità della voce di Moreschi, purtroppo il nostro orecchio tende a ricostruire gli armonici sulla base dell’acutezza del suono, sicché concordo anche nel dire che il modo giusto per ascoltarlo è quello di vedersi davanti un bambino (con il risultato che non verrà sovrapposto mentalmente l’armonico femminile, ma quello infantile che il nostro cervello ha campionato). Oggi comunque le consiglio di acquistare i riversamenti recentissimi fatti da Chris Zwarg, un rinomatissimo tecnico del suono e collezionista preparato (con cui ho intrattenuto svariate conversazioni epistolari), unitamente a quelli della Patti, di De Lucia e della Albani, sulla base di materiali di partenza molto meglio conservati e delle nuovissime tecniche di recupero, resterà sbalordito. Quanto a Mancini, egli studiò con Moreschi a partire dal 1904 (aveva 5 anni), e tra i molti allievi affezionatissimi (tutti falsettisti senza eccezioni a me note, salvo il figlio adottivo Giulietto) fu il prediletto, arrivando a sostituirlo nei momenti di indisposizione e poi prendendone definitivamente il posto quando Moreschi si ritirò. Esiste in rete un frammento di un’intervista fattagli da anziano, in cui racconta i problemi che ebbe ad integrarsi perché Perosi lo prese per castrato, e non voleva farlo cantare. Ha registrato poche ariette sacre in San Pietro, ed alcuni cori a voci reali, non esiste attualmente nessuna discografia su di lui ed è un vero peccato, io ho comprato il disco che posseggo da un francese che non aveva idea di chi fosse. Per inciso una delle sue registrazioni è “Ombra mai fu”, che conferma ulteriormente come i falsettisti della Sistina non percepissero nessuna differenza nel loro repertorio rispetto ai castrati. Un suo successore virtualmente inteso è Gianluca Alonzi, sopranista della Sistina, che può sentire anche su youtube, ma Mancini imita magistralmente lo stile di Moreschi, e la pur bella voce di Alonzi è comunque viziata un po’ dal gusto moderno. Non le consiglio le registrazioni di un caro amico, anni ed anni fa cantore pontificio, soprano naturale, solo perché temo davvero troppo distanti dal modo comune di vedere la musica antica (anche lui ammiratore di Moreschi, ha studiato con i figli dei cantori suoi colleghi, ed anche con qualcuno che lo aveva conosciuto in vita).

  6. Ho letto con interesse l’articolo e tutti i commenti.
    Nell’articolo di Mancini c’e’ un punto, diciamo marginale rispetto al tema trattato, che ha pero’ molto attratto la mia attenzione perche’ mi interessa non poco: dato che condivido “l’abominio per i microfoni” vorrei saperne di piu’ sull’argomento. Qualcuno mi potrebbe indicare come ? Grazie.

    • Si tratta di voci di corridoio purtroppo confermate da non pochi addetti ai lavori. Mancini ha ragione: sono un’oscenità, negazione dell’arte, una sorta di doping impunito. La polemica iniziò negli anni ’80-primi ’90 con Pavarotti, che “straordinariamente” si sentiva benissimo ovunque, anche in spazi aperti e dove non era materialmente credibile che potesse cantare con facilità. Si iniziò a parlare di micro-microfoni, che allora costavano svariati milioni di lire, ma parve una bufala. Poi col tempo le voci si fecero insistenti, successero una serie di fatti strani (in famosi teatri ci si accorse che i cantanti avevano troppa libertà di movimento, addirittura cantavano di spalle rispetto alla sala) e scoppiò lo scandalo. Recentemente l’Opera di Roma ha ricevuto pesanti accuse in merito, ma su internet (con scarsa credibilità, ovviamente, ma dà l’idea dell’impatto del fenomeno) puoi trovare pure le “confessioni” di un sedicente tecnico del suono, collaboratore di Pavarotti, che spiegherebbe pure le caratteristiche degli apparecchi coinvolti.

      • Ringrazio per le informazioni perche’, ripeto, l’argomento mi interessa e, del pari, mi inquieta e indigna. Ho compiuto qualche veloce ricerca e ho trovato qualche notizia, vera o falsa, non so:

        1) Gia’ alla fine degli Anni Sessanta sarebbero state microfonate alcune recite di Tosca al MET
        2) Domingo si microfonava ma solo per spettacoli all’aperto, ricordo che gia’ lo si disse per l’Aida alle Piramidi nell’86
        3) Pavarotti si microfonava non solo per spettacoli all’aperto ma anche per concerti in sala (Auditorium Grimaldi a Monaco nel 2002): riferito da Stinchelli, ma, in recite d’opera ?
        4) Mefistofele microfonato, alcuni anni fa, all’Opera di Roma
        5) Chenier microfonato, alcuni fa, a Madrid, con violenta reazione del loggione
        6) Arena e Caracalla gia’ da anni microfonati con addirittura la pretesa dei microfoni, alcuni anni fa, da parte di Zeffirelli per tutti i suoi spettacoli e cioe’ tutti quelli della Stagione

        Ma, quanto sopra, e’ solo la punta dell’iceberg ?

        Certo, come dice Mancini: “abbandonare la sala e non farci piu’ ritorno” ma, poi ? Quanti lo farebbero ? A chi potrebbe intressare qualche posto vuoto ? Mi chiedevo, tempo fa, se, in una situazione simile, prove alla mano non ci potessero in teoria essere gli estremi per un’azione legale contro l”Ente e/o gli esecutori: se io compro un biglietto sottoscrivo un contratto ma lo sottoscrive anche chi lo vende: io mi impegno a pagare il corrispettivo e l’Ente si impegna a farmi assistere allo spettacolo, ma se il biglietto e’ per uno spettacolo d’opera, tale deve essere lo spettacolo cui assisto, buono o cattivo che sia: questo fa parte dell’alea legata a qualsiasi esecuzione. Ma se l’esecuzione e’ microfonata secondo me non e’ uno spettacolo d’opera, dunque l’Ente e’ inadempiente e io ho diritto al risarcimento dei danni per il mancato rispetto dell’obbligazione contrattuale: lo so, e’ teoria.
        Mi fanno gia’ un po ridere i concertoni con i microfoni in bocca ma, se vogliamo, quelli almeno si vedono, sono alla luce del sole e, magari, il concertone o lo show televisivo all’Arena di Verona potrebbero anche avere uno scopo ed un significato ma qui entriamo in un altro argomento.
        Il punto e’: se nei concertoni, alle piramidi, negli stadi o magari a San Margarethen (non mi ricordo come si scrive) usano i microfoni e lo fanno alla luce del sole, pazienza: non e’ quello il mondo dell’opera ma nei Teatri veri, al chiuso o all’aperto, i microfoni mai dovrebbero entrare.
        Interessante, e del pari foriero di indignazione, il discorso sulle manipolazioni discografiche.

        • Carissimo, si, ha ragione: si tratta di mistificazioni che in pura teoria meriterebbero un reclamo. Lo stesso vale per i tagli che resero, qualche tempo fa, completamente incomprensibile la già farraginosa trama della Beatrice di Tenda al Massimo di Catania. Ma non importa, il problema è a monte, e non sempre è strettamente tecnico (da parte dei cantanti, dico): se si pretende che un’orchestra di incapaci patentati, “diretta” (!) da un sedicente grandissimo superdirettoresottuttoio, confonda il piano col mezzo-forte ed il fortissimo con la frenata di un eurostar in deragliamento, cantare diventa un vero problema. Qui non c’è “voce avanti”, diaframma e castronerie che tengano, chi fa questi discorsi non ha mai cantato/avuto a che fare con contesti in cui OGGI si canta (e perdonate il maiuscolo): si è soli contro una massa informe di decine e decine di strumenti invadenti, al 99% irrispettosi delle stesse dinamiche lette in partitura. La decadenza non è solo vocale, gli strumentisti sono spesso molto più ignoranti dei cantanti e di qualità artistica sempre peggiore, bisogna farsene una ragione. I microfoni sono il male peggiore, il minore sarebbe dimezzare le orchestre (soprattutto gli archi), data la moda del volume folle, purtroppo – come è arcinoto – gli strumentisti nei teatri sono gli unici contrattualizzati stabilmente (a volte a tempo indeterminato), ed i sindacati stanno come arpie sul collo dei direttori artistici e di molti pur competenti direttori d’orchestra.

          • guarda che s’è per questo io ho sempre sostenuto che la decadenza del canto comincia con l’emancipazione degli strumenti musicali… il vero canto è a cappella, senza strumenti. Con me sfondi una porta aperta.

      • L’avversione di Celibidache per la registrazione è uno di quei miti ripetuti come mantra, ma che sarebbe da rivedere. Celibidache era contrario alle manipolazioni della post produzione, al lavoro fatto sui volumi registrati. Esattamente il contrario di Karajan…

          • Conosco quel che dice Celibidache, ma a differenza dei “celibidachiani di stretta osservanza” non prendo ogni suo vagito per vangelo… Celibidache sviluppa la sua idiosincrasia all’industria discografica solo in tarda età, quando si era già trasformato in “santone” (e molti ne avevano fatto un no global della musica) e quando l’industria discografica si era ormai assestata su posizioni karajaniane, ossia nella legittimazione di manipolazioni in post produzione. Celibidache era dell’avviso che non il disco fosse inaccettabile, ma la falsificazione dell’esecuzione musicale ex post. Per lui era inaccettabile il mixaggio, la variazione dei volumi (alzare o abbassare il volume di un oboe o di un flauto in sede di post produzione), l’assemblaggio di fonti differenti, la possibilità di suonare e risuonare il medesimo passaggio da inserire in una frase registrata precedentemente. Celibidache, ad esempio, preferiva le incisioni monofoniche dove non erano possibili troppe manipolazioni. La fesseria del crociato contro le multinazionali del disco, contro il denaro, contro il mercato…è appunto una fesseria che si sono inventati i suoi troppi esegeti. Tra l’altro Celibidache – che certamente non amava le incisioni in studio, per i motivi espressi (non per spiritualismo ascetico) e soprattutto perché non tenevano conto del rapporto del suono con altre componenti contingenti – si faceva invece riprendere volentieri dal vivo (concerti e prove) perché secondo lui quella era la funzione del disco, testimoniare un momento in sé compiuto e irripetibile, non crearlo o modificarlo.

          • Scusi Duprez, perché vuole rispiegare quello che dice Celibidache, se c’è egli stesso che lo spiega in quei documenti?.. E mi permetta, lei non ha compreso bene ed a fondo la sua poetica.
            Tutte le registrazioni audio o video che si trovano di lui sono pirata o non autorizzate: molte, quelle con i Münchner, le ha vendute il figlio dopo la sua morte (erano di archivio provato dell’orchestra).
            La sua ultima proposizione, per la quale la registrazione documenta un momento irripetibile, oltre che non corrispondere affatto al pensiero di Celi (ascolti bene l’intervista in Francese) ed esserne antitetica, è anche priva di logica: documentare l’irripetibile è di per se un’afferamazione priva di senso.
            Non è affatto una fesseria la crociata contro il mercato: ha sempre (o quasi) evitato le grandi orchestre; nel 1967 ha rifiutato l’offerta fattagli dal più grande agente americano con la quale poteva diventare direttore stabile di una delle tre più grandi orchestre americane perché il modo di fare musica in America non rispondeva al suo pensiero etico e musicale.
            “Celibidachiani di stretta osservanza”?.. Si si, proprio così: Celibidache è stato l’unico direttore che abbia lasciato un pensiero, una poetica, una scienza musicale.

          • E ha lasciato anche una marea di fanatici che ripetono a vanvera slogan da santone.. Comunque mi sono ripromesso di non discutere mai con gli integralisti di qualsivoglia religione. I “celibidachiani” non fanno eccezione…sarebbero disposti anche a negare la realtà. Celibidache il solo, l’unico etc…ma vi rendete conto delle fesserie che ripetete??? Celibidache non ha mai inciso dischi, certo, era contrario a come il disco veniva inteso (manipolazione del suono), ma si lasciava riprendere e registrare (prove, interviste, concerti). Le grandi orchestre le ha evitate perché non corrispondevano al suo modo di intendere l’impegno musicale (anche Wand fece lo stesso, ma immagino che lei neppure sappia chi è). Celibidache era un perfezionista e solo con orchestre più duttili e meno impegnate o esposte si può costruire un suono e un’identità, ma – ripeto – Celibidache non era il solo a pensarla così. Peraltro non lavorava gratis. Il pensiero di Celibidache è abbastanza noto – preferibilmente senza la mediazione dei suoi troppi esegeti – intendeva la musica come qualcosa di più complesso del mero suono (e non potrei essere più d’accordo con lui). La sua avversione per il disco però – e ripeto – era dovuta non a considerazioni mistiche, il disco non era lo sterco del diavolo perché legato al denaro…ma perché manipolava il suono e tendeva a falsificare un evento irripetibile come la performance dal vivo. Quanto all’antitesi che mi attribuisci…l’irripetibile può essere documentato, ma non ripetuto o riprodotto. In questo senso il disco svolge la sua funzione, come supporto della memoria. Col disco non si fa musica, ma si testimonia la musica. Se però preferisci credere al tuo “Celi” solo ed unico, che si oppone come un crociato al mercato e al regno del denaro…beh fai pure: ognuno scelga la religione che preferisce.

          • Duprez, ma come si permette? A vanvera che cosa? Io sono un musicista. Basta! Sono le solite discussioni su Celibidache. Ma a me che me ne importa di farle con lei che manco è musicista? Lei che è anche caduto nello squallido: “manco sa chi é Wilford” ecc… Titó, statte bbuono!

          • Ribadisco: l’atteggiamento che fa di Celibidache una specie di guru, crea una schiera di fedeli che non si pone dubbi né è interessata a discutere, ma afferma – come un “mantra” va bene? o ti offendi anche per questo? – che Celi è l’unico e il solo. Non è così. Come al solito c’è molta differenza tra quanto detto dal presunto “maestro” e quanto tramandato dai suoi interpreti. Peraltro lo stesso Celibidache firmò un contratto con la Sony (il “grande Satana”) nell’89 se non sbaglio: era programmata l’integrale di Bruckner con l’orchestra di Monaco, ma il progetto si areno dopo la Sesta, la Settima e l’Ottava. Il concetto celibidachiano della musica però, fu condiviso – con diverse sfumature – da altri: citavo proprio Wand perché già negli anni ’70 aveva posizioni simili.

          • Va bene, va bene, ho sbagliato; chiedo scusa. Però anche voi, allora, dovrete correggere qualcosina: “Il Corriere della Grisi è un blog d’opera di melomani hobbisti.” si legge nella voce da cliccare “CHI SIAMO”

          • Duprez, io dubbi me ne sono posti tanti e me li pongo sempre; sappiamo bene dell’importanza, anzi della necissità del dubitare. Sono sempre interessato a discutere: ma dal vivo, perché per iscritto si impiega troppo tempo. Nel caso specifico, mi ero un poco alterato perché spesso non si capisce che quella di Celibidache è una SCUOLA e chi ne fa parte non è un scimmiottatore del maestro.
            Mi devo informare meglio sulle motivazioni contratto con la Sony.
            Chi è Wand?

          • 1) Günter Wand è stato un direttore d’orchestra tedesco (morto a 90 anni nel 2002) che, analogamente a Celibidache, ha improntato la propria carriera, su un concetto di interpretazione musicale che andasse oltre al mero dato sonoro. Per lui la musica non si risolveva nel virtuosismo e nell’esecuzione corretta (con il bel suono), ma abbracciava tutta l’esperienza artistica alla base del discorso musicale, in termini filosofici, estetici e umani. Proprio per questo non volle mai lavorare con “grandi orchestre” perché non gli garantivano quel numero di prove che riteneva necessario per imbastire una qualsiasi interpretazione che non fosse mero virtuosismo. Wand preferiva le orchestre radiofoniche (anche io le trovo superiori e più duttili), con cui costruire in tempi lunghi un’autentica simbiosi tra direttore e strumentisti, ponendosi – entrambi – al servizio della musica. Nei primi 30 di carriera non incise quasi nulla, poi divenne direttore stabile della NDR Sinfonieorchester di Amburgo, con cui incise diverse integrali (Beethoven, Bruckner, Brahms, Schubert, Schumann, le ultime sinfonie di Mozart e il maggior repertorio del sinfonismo classico). Diresse anche altre orchestre radiofoniche (WDR di Colonia, e quella di Berlino). Ci restano molte incisioni (live e in studio), pubblicate da RCA e Hanssler/Profil. Negli ultimi anni di carriera diresse soltanto (o quasi) Bruckner, del quale è considerato – giustamente – uno dei maggiori interpreti e tra coloro che più hanno contribuito alla sua diffusione. Curiosamente non volle mai dirigere nulla di Mahler, ritenendolo troppo personale. Dopo i primi anni – in cui interpretò lavori di Ligeti, Messiaen, Zimmermann, Varése – non diresse più autori contemporanei, limitando, di fatto, il proprio repertorio all’asse del classicismo europeo, da Mozart a Bruckner.
            2) Sul fatto che quella di Celibidache sia una scuola, ho dei seri dubbi: il maestro non ha certo lasciato testi fondativi né – mi riusulta – abbia mai svolto attività didattica più o meno istituzionalizzata. C’erano, è vero, dei “corsi”, ma aperti a chiunque (musicisti e non) e volti, più che altro, a discutere di estetica e misticismo musicale, con evidenti contaminazioni di “filosofia” Zen e religione buddista.
            3) Non c’è nulla di misterioso nel contratto di Celimidache con la Sony. Alla fine degli anni ’80 la Sony compra la CBS e impianta ad Amburgo la sede centrale del settore della corporation che avrebbe dovuto fare concorrenza e battere la DGG nel campo della musica classica, col marchio Sony Classical: a capo del progetto la multinazionale giapponese mette Günther Breest, già produttore discografico e manager della rivale Deutsche Grammophon (nonché stretto collaboratore di Karajan). A Breest riesce il colpo: mettere sotto contratto Celibidache, a determinate condizioni ovviamente: solo riprese video di esecuzioni dal vivo, nessuna presenza evidente delle telecamere nella sala, nessuna operazione di post produzione sul materiale registrato, nessuna iniziativa da parte del regista circa le riprese (che, anzi, devono seguire una precisa linea musicale, concordata precedentemente col direttore, e non interferire in alcun modo sull’esecuzione), e naturalmente diritto di veto su ogni registrazione prima di essere commercializzata. Il contratto era stato firmato per l’integrale delle sinfonie di Bruckner: dopo una Quarta burrascosa, che Celibidache non autorizzò (il tecnico del suono, senza consultare il direttore, “osò” riparare uno scrocchio di un corno in sede di post produzione, e il regista improntò le riprese al patinatissimo e fasullo “stile Karajan”, facendo infuriare il vecchio Celibidache che mise il veto), vennero registrate tra Vienna e Tokyo, la Sesta, la Settima e l’Ottava. Ma nel frattempo – siamo già nel 1993 – la situazione muta, gli investimenti fatti da Sony Classical si rivelano fallimentari, la DGG non viene sbaragliata: i progetti di Breest si rivelano un disastro, la produzione dell’intero settore video viene abbandonata, la sede di Amburgo viene chiusa e il manager viene pure rimosso. Il progetto Bruckner/Celibidache ne fa ovviamente le spese e ci restano solo le tre sinfonie citate (più la Quarta di cui rimane l’audio della serata). Questo dimostra chiaramente come Celibidache non fosse contrario al disco e – in ultima analisi – neppure alle case discografiche (la Sony era ed è un colosso del settore, non certo una piccola etichetta indipendente), ma solo al modo in cui i dischi venivano realizzati.

            Ps: a proposito dei rapporti tra la purezza della scuola celibidachiana nei confronti del mercato, amo ricordare che la “Celibidache Stiftung” che è la fondazione ufficiale che raccoglie l’eredcità e gli archivi del maestro, fondata e diretta dalla moglie e dal figlio, “sfoggia” tra i suoi curatori e partner Placido Domingo, Daniel Barenboim e Zubin Metha…che non mi pare siano esempi di “anti sistema”.

  7. Seguo nelle retrovie tutta la discussione, e oltre a fare i complimenti a Mancini per la decisione di fare questo miniglossario con (spero) pochi ma incisivi termini, non posso che rimanere affascinato – come sempre – dalla perizia e dalla conoscenza di udatorbas :)

    Per il poco che posso offrire, penso anche io – come Mancini – che l’ideale del canto classico occidentale (riassuntivamente sviluppatosi dal Seicento fino all’Ottocento soprattutto in ambito italiano) abbia come ideale principale un invariante storico: la voce deve farsi sentire nello spazio (qualsiasi esso sia – piccolo, medio, grande). Un ideale certo, che chiaramente si può cercare di raggiungere attraverso le tante vie figurative della didattica del canto, che per molti possono sembrare sciocchezze mentre in altri casi risolvono i problemi sempre rimanendo nella didattica (e.g. in riferimento al pianto citato da udatorbas, ricordo un esercizio che mi venne fatto fare molto tempo fa: pensare che la mia mano fosse un gattino morente ed accarezzandolo, pensare al pianto e chiaramente vocalizzare. Il fine dell’esercizio è guidare attraverso questa immagine che può sembrare folkloristica un’apertura interna – abbassamento naturale della laringe e alzamento del palato molle – che il pianto e l’immagine porta automaticamente). Vie – le immagini – che offrono la risoluzione del raggiungimento di un ideale tecnico-estetico generale, ossia la voce avanti, proiettata, etc etc.
    Le diverse epoche, i diversi compositori ed gli stessi primi esecutori rientrano però all’interno di estetiche e di prassi (riassumendo, di STILI) particolari e credo fortemente che nel canto classico occidentale sopracitato non vi siano tante tecniche (e un solo ideale tecnico) ma sebbene tanti stili diversi (che comportano dei piccoli ma essenziali accorgimenti tecnici in raggiungimento di un determinato fine estetico, che si può studiare e approfondire ma che chiaramente non si saprà mai con certezza).
    I soventi – e bruttissimi a mio vedere – portamenti (che io preferisco chiamare “glissandi”) che fa un Moreschi (ma anche un Gigli o un Bergonzi) sono segnalati nei trattati storici (dal Tosi al Garcia) come un rarissimo esempio di ricorso stilistico da usare con assoluta moderazione – Tosi lo chiama “strascinio” – e niente hanno a che vedere con il portamento vero e proprio, che il Vaccai esemplifica perfettamente nel suo esercizio apposito. Questo caso è appunto una questione di stile, che è sempre storico (e storicizzato) ed il cantante odierno, salvo specializzarsi in un repertorio, deve comunque conoscere a livello pratico-teorico queste differenze stilistiche.
    Inoltre, poiché la fisionomia e fisiologia degli esseri umani non è cambiata granché negli ultimi 500 anni, diversamente da udatorbas penso che un trillo semplice della Sutherland sia tecnicamente uguale a quello di un Pasta (che tanto penò per raggiungerlo) o di un Aloysia Weber o di un Farinelli; la differenza tra i quattro è che al tempo di Farinelli vi erano ben 8 modi diversi di fare un trillo a seconda del sentimento e della bravura del cantante, e quindi a mio vedere quel che cambia tra la Sutherland e Farinelli non è il loro ideale tecnico-estetico generale ma semmai lo stile con cui realizzare il dato tecnico (i.e. il trillo) e quindi i piccolissimi accorgimenti tecnici particolari che comunque non inficiano il dato tecnico generale.
    Per rimarcare, una messa di voce fatta dalla Horne ed una messa di voce fatta dalla Tre Grazie fiorentine, di cui Caccini scrisse una lettere estasiato ad un suo amico, penso parta dal dato tecnico-estetico generale per cui inizi piano, cresci al forte, forte, diminuisci al piano, piano, fosse valido nel ‘600 come nel ‘900 ma magari – ipotizzo – la Horne rinforzava di più col petto mentre le Tre Grazie erano delle grandi dotate e facevano sempre avere grandi cognizioni di quel che facevano.
    Volendo chiudere queste non molto organiche ma spero minimamente chiare osservazioni, riprendo le metafore architettoniche di udatorbas dicendo che è pur vero che Palladio non progettava come Fidia, pur ispirandosi, ma Fidia come Adriano, come Buscheto, come Alberti e come Palladio hanno sempre avuto a che fare con la necessità di far stare e far rimanere in piedi gli edifici (la forza di gravità è sempre esistita) ed i calcoli strutturali, pur con uno sviluppo da Fidia a Palladio, sono rimasti pressoché identici fino allo sviluppo iniziale fine-seicentesco/settecentesco ed il grande sviluppo ottocentesco della disciplina della scienza delle costruzioni vera e proprio.
    Ultimissimo appunto: la situazione odierna del canto, che io reputo uguale come nel passato solo che oggi cantano gli asini con successo – costruito o decretato da altri asini – a fronte di tanti bravi che sono relegati in secondo piano, mi ricorda molto il passaggio dall’architettura gotica a quella rinascimentale, ossia l’involuzione tecnico-estetica da un grandissimo virtuosismo tecnico-estetico tale da poter ridurre gli edifici a sola struttura (e.g. Saint-Chapelle a Parigi) ad un ritorno di sterile mimesi intellettualizzata a forme greco-romane viste e straviste, che venne superato solo nell’Ottocento grazie ai nuovi materiali (ferro, vetro, cemento).

    • Ben tornato! 😀 L’argomentazione non fa una grinza. Solo una cosa: anche io volevo riferirmi all’aspetto puramente esecutivo (stilistico) del trillo, che in Mengozzi è chiaramente trascritto con tutte note staccate (ed una doppia legatura). Il testo chiarisce bene questo concetto, che non si ritrova nelle esecuzioni odierne neanche nelle voci di eminenti esecutori (soprattutto, ma non solo, di àmbito barocco) che spesso fanno una sorta di rantolo che manca della fondamentale intonazione chiara e distinta delle due note. Il trillo “non battuto” non è trillo, è un tremolo, forse un trillo molle (sulla cui natura si discute) ma non trova comunque giustificazione adeguata sulla scorta degli antichi trattati. È un esempio perfetto secondo me di come siano rimasti elementi del vecchio canto, slegati tra loro ed incomprensibili ai moderni interpreti. Quanto alla voce della Sutherland, non ho problemi a credere che sarebbe salita sul palco anche nel 1700 (ma con minore successo forse: restava una gentildonna poco avvezza agli attacchi di isteria descritti sugli interpreti del tempo). Concordo quindi con l’idea che un ricordo delle antiche pratiche sia rimasto, ma sono meno fiducioso di te: giusto ieri ad es. un amico mi ha fatto sentire una maestra del suo conservatorio (e relativa allieva, entrambe non cantano professionalmente chissà perché); in tutti e due i casi potevi sentire un effetto della non-tecnica contemporanea, le Signore semplicemente cantavano in bocca e con una sorta di tremore che ricordava le “onde di mare” di Tosi, altro che vibrato. Qui non esiste più nessuna dimensione strettamente tecnica, c’è un “facciamo un suono che assomigli a quello lirico”, e ci si arrangia (talora con noduli, polipi, etc., come una delle Signore in questione, per inciso). Vedo che concordi sul fatto che la metafora architettonica renda l’idea, ti invito a cercare un mastro muratore capace di costruire non un muretto in pietra, ma un intero palazzo anche solo a un piano, e qualcuno che abbia idea di come si montino le vecchie impalcature per realizzarlo (ho visto fior di architetti chiedermi “perché quei buchi” sulla facciata di casa mia: semplicemente ignoravano il fatto che i tubi innocenti siano invenzione recente…).

  8. hmmm…. mi lascia un po’ perplesso che in un articolo sulla “voce in avanti” Kraus venga citato in un solo commento, per giunta riguardo a un (presunto) uso della voce nasale o schiacciata in tarda età.

  9. Per tornare al Glossario di Mancini dopo tanta indigestione di cultura musicale, propongo ( un po’ provocatoriamente) un cantante attuale che mi pare cerchi di cantare con “la voce avanti “http://youtu.be/NlU147-oEXI
    Mi piacerebbe, popperianamnete , essere smentito, pero’ con ascolti di cantanti odierni ( se ce ne sono).
    Altrimenti passiamo subito ad esempi di “voce indietro”

  10. Io credo che non si debba illudere i giovani che esista una tecnica ideale che possa garantire l’apprendìmento del canto. Ieri l’altro ascoltavo dal vivo tale Camarena che ritengo cantante dotato di doti naturali fuori dal comune. Sono certo che diventerà qualcuno e se diventerà anche più di qualcuno ci si riempirà la bocca con la sua “tecnica”. Ma la sua voce sonora, le sue capacità dinamiche e l’incisività del registro acuto non penso le abbia imparate dai “grandi maestri” della respirazione e dell’appoggio…

          • Aspetto di sentirlo in teatro. Mi dà l’idea di un Florez II°. Per certi versi.

          • Ho cercato anch’io qualcosa. il recente Don Ramiro al MET, Nemorino al Liceu nel 2012, il pirotecnico Tonio in concerto in Messico nel 2011 con i 9 DO..
            Mi sembra corretto, certamente non sguaiato, non volgare ma non riesce a muovermi all’entusiasmo: per questo ci vorrebbe emissione piu’ piena, appunto, morbida e tonda. Gli acuti ci sono, certo, ma qualche durezza io la ravviso. Poi, una certa meccanicita’ nel fraseggio, insomma, un po anonimo. Comunque, vorrei certo risentirlo in migliori condizioni d’ascolto.

        • Ciao! Io lo sentii tre anni fa in una Lucia di Lammermoor a Padova.
          Non è vero che non canta bene ma vale quello che ha scritto qui sotto Danilo: se l’emissione fosse più morbida sarebbe meglio, non è mai sguaiato e sempre piuttosto anonimo. Però ruoli più pesanti di Edgardo no, è meglio, secondo me, se li evita.

          • Concordo con Danilo sugli aspetti relativi al fraseggio che potrebbero rappresentare anche in futuro il suo punto debole. Ad Aurelio dico invece che ruoli più pesanti dovrebbero favorirlo più dei Ramiro e dei Fenton perché la voce é veramente tanta. Io in prospettiva futura lo vedo un Manrico vocalmente assai efficace.

  11. Per Antonino:
    1) Günter Wand è stato un direttore d’orchestra tedesco (morto a 90 anni nel 2002) che, analogamente a Celibidache, ha improntato la propria carriera, su un concetto di interpretazione musicale che andasse oltre al mero dato sonoro. Per lui la musica non si risolveva nel virtuosismo e nell’esecuzione corretta (con il bel suono), ma abbracciava tutta l’esperienza artistica alla base del discorso musicale, in termini filosofici, estetici e umani. Proprio per questo non volle mai lavorare con “grandi orchestre” perché non gli garantivano quel numero di prove che riteneva necessario per imbastire una qualsiasi interpretazione che non fosse mero virtuosismo. Wand preferiva le orchestre radiofoniche (anche io le trovo superiori e più duttili), con cui costruire in tempi lunghi un’autentica simbiosi tra direttore e strumentisti, ponendosi – entrambi – al servizio della musica. Nei primi 30 di carriera non incise quasi nulla, poi divenne direttore stabile della NDR Sinfonieorchester di Amburgo, con cui incise diverse integrali (Beethoven, Bruckner, Brahms, Schubert, Schumann, le ultime sinfonie di Mozart e il maggior repertorio del sinfonismo classico). Diresse anche altre orchestre radiofoniche (WDR di Colonia, e quella di Berlino). Ci restano molte incisioni (live e in studio), pubblicate da RCA e Hanssler/Profil. Negli ultimi anni di carriera diresse soltanto (o quasi) Bruckner, del quale è considerato – giustamente – uno dei maggiori interpreti e tra coloro che più hanno contribuito alla sua diffusione. Curiosamente non volle mai dirigere nulla di Mahler, ritenendolo troppo personale. Dopo i primi anni – in cui interpretò lavori di Ligeti, Messiaen, Zimmermann, Varése – non diresse più autori contemporanei, limitando, di fatto, il proprio repertorio all’asse del classicismo europeo, da Mozart a Bruckner.
    2) Sul fatto che quella di Celibidache sia una scuola, ho dei seri dubbi: il maestro non ha certo lasciato testi fondativi né – mi riusulta – abbia mai svolto attività didattica più o meno istituzionalizzata. C’erano, è vero, dei “corsi”, ma aperti a chiunque (musicisti e non) e volti, più che altro, a discutere di estetica e misticismo musicale, con evidenti contaminazioni di “filosofia” Zen e religione buddista.
    3) Non c’è nulla di misterioso nel contratto di Celimidache con la Sony. Alla fine degli anni ’80 la Sony compra la CBS e impianta ad Amburgo la sede centrale del settore della corporation che avrebbe dovuto fare concorrenza e battere la DGG nel campo della musica classica, col marchio Sony Classical: a capo del progetto la multinazionale giapponese mette Günther Breest, già produttore discografico e manager della rivale Deutsche Grammophon (nonché stretto collaboratore di Karajan). A Breest riesce il colpo: mettere sotto contratto Celibidache, a determinate condizioni ovviamente: solo riprese video di esecuzioni dal vivo, nessuna presenza evidente delle telecamere nella sala, nessuna operazione di post produzione sul materiale registrato, nessuna iniziativa da parte del regista circa le riprese (che, anzi, devono seguire una precisa linea musicale, concordata precedentemente col direttore, e non interferire in alcun modo sull’esecuzione), e naturalmente diritto di veto su ogni registrazione prima di essere commercializzata. Il contratto era stato firmato per l’integrale delle sinfonie di Bruckner: dopo una Quarta burrascosa, che Celibidache non autorizzò (il tecnico del suono, senza consultare il direttore, “osò” riparare uno scrocchio di un corno in sede di post produzione, e il regista improntò le riprese al patinatissimo e fasullo “stile Karajan”, facendo infuriare il vecchio Celibidache che mise il veto), vennero registrate tra Vienna e Tokyo, la Sesta, la Settima e l’Ottava. Ma nel frattempo – siamo già nel 1993 – la situazione muta, gli investimenti fatti da Sony Classical si rivelano fallimentari, la DGG non viene sbaragliata: i progetti di Breest si rivelano un disastro, la produzione dell’intero settore video viene abbandonata, la sede di Amburgo viene chiusa e il manager viene pure rimosso. Il progetto Bruckner/Celibidache ne fa ovviamente le spese e ci restano solo le tre sinfonie citate (più la Quarta di cui rimane l’audio della serata). Questo dimostra chiaramente come Celibidache non fosse contrario al disco e – in ultima analisi – neppure alle case discografiche (la Sony era ed è un colosso del settore, non certo una piccola etichetta indipendente), ma solo al modo in cui i dischi venivano realizzati.

    Ps: a proposito dei rapporti tra la purezza della scuola celibidachiana nei confronti del mercato, amo ricordare che la “Celibidache Stiftung” che è la fondazione ufficiale che raccoglie l’eredcità e gli archivi del maestro, fondata e diretta dalla moglie e dal figlio, “sfoggia” tra i suoi curatori e partner Placido Domingo, Daniel Barenboim e Zubin Metha…che non mi pare siano esempi di “anti sistema”.

      • Mi spiego meglio: non ha mai insegnato direzione d’orchestra al conservatorio, ma teneva alcuni corsi di “fenomenologia musicale” all’università di Magonza e al Curtis Institute. Si trattava di corsi a mezza via tra la filosofia e l’estetica musicale. Non insegnò direzione d’orchestra al Conservatorio. Teneva corsi estivi in cui la direzione d’orchestra era un pretesto per trattare altre questioni. Non dico fossero come gli pseudo corsi di Celletti (di cui tuttora mi chiedo il senso e il fondamento) ma non erano certo lezioni di tecnica

        • Ma Duprez, ma che cavolo sta dicendo? Nelle lezioni utilizzava la direzione d’orchestra come pretesto per trattare d’altro?.. Ma come ragiona?.. Celibidache insegnava tutto ciò che c’è da insegnare riguardo alla musica ed alla direzione, tecnica compreso ( peso del braccio in associazione alla forza di gravità, impulso proporzionato, ottavazione, piani spaziali, ecc. ecc.); anzi, insegnava molto di più di quanto abbia insegnato chiunque altro: glielo assicuro. Ed è per questo che affermo con grande forza che stato UNICO.

          • Ok, unico e solo e divino. Amen… Detto ciò possiamo tornare sulla terra? Per “scuola” si intende insegnamento organico e istituzionale (conservatorio). Ma poi se davvero fosse una scuola chi sarebbero i suoi discepoli?
            Ps: mi diverte che i celiboys rimuovono con disinvoltura il contratto con Sony.. Per tacere della sua fondazione

    • 1) Dalla descrizione che ne fa, Wand è veramente degno di stima.
      2) Non ha lasciato testi perché credeva nel metodo maieutico, che ha praticato per tutta la vita, senza prendere mai soldi dagli allievi; direttori, strumentisti o salumieri che fossero: l’apertura dei corsi a chiunque ne accresce il valore, direi… Che fossero istituzionali o meno che cambia?
      3) Questo non dimostra un bel niente. Ci sarà un motivo se ad un certo punto ha deciso di stipulare tale contratto. È inutile che lei continua a voler spiegare la sua personale rivisitazione del pensiero di Celi sulla registrazione: dai documenti si evince ben altro.
      4) Direi che sta Celibidache Stiftung con Celi ed il suo insegnamento non c’entra un bel nulla. Lo capisce anche un comodino.

      • 1) Wand ringrazierà di “essere degno di stima”…una sufficienza sulla fiducia, meglio di niente da chi crede nel solo, unico, inimitabile…
        2) Girala come vuoi, ma per fondare una “scuola di direzione d’orchestra” bisogna insegnare istituzionalmente…e non fare corsi aperti a tutti. Che per carità sono pure interessantissimi e ammirevoli, ma che non generano veri e propri allievi o seguaci. Altrimenti fammi qualche nome di allievi di Celibidache: parlo di musicisti che possano vantarsi di portare avanti nella pratica lo stile del maestro, non dei tanti che – solo per il fatto di ispirarsi a lui o aver assistito ad un paio di concerti o conferenze/lezioni – si ritengono suoi eredi (si fa in fretta, in questo ambito a vantare progeniture immaginarie). Mi consta che in Italia gli unici direttori di una certa notorietà che in qualche modo furono “allievi” di Celibidache siano Gelmetti e Ceccato…sui quali non voglio esprimere pareri (per carità di patria), ma che certo non mi sembrano esempi di musicisti sopraffini.
        3) Circa il contratto con la Sony: invece dimostra chiaramente che Celibidache (lui, non i suoi troppi esegeti) non fosse affatto ed astrattamente contrario al disco per spirito etico o missionario, ma che rifiutasse il modo in cui i dischi venivano prodotti: tanto che ricevute tutte le garanzie del caso acconsentì a registrare ufficialmente i suoi concerti, con una vera multinazionale del disco (la Sony! Quello che definite il “grande satana”). E il contratto l’ha firmato nell’89…quando le sue convinzioni in materia erano già ben radicate. Il problema degli esegeti è che voglion far dire al loro maestro quel che piace a loro…e così il rifiuto di ridurre la musica a suono manipolato attraverso la tecnologia, diventa rifiuto del disco tout court per ragioni filosofiche e per altre pastoie simili… Celibidache è molto chiaro nello spiegare perchè rifiuta il disco, ossia per la falsificazione dell’evento musicale. Non perché il disco è brutto e cattivo e le multinazionali sono malattie mortali!
        4) Certo che la Celibidache Stiftung non c’entra con l’insegnamento del maestro, ma è gestita da moglie e figlio…e accoglie dei “celibidachiani” come Domingo e Barenboim…quindi attenzione agli estremismi pauperistici.

        • Va bene Duprez, basta.
          Vorrei solo sapere perché, se uno fosse allievo di Metha, Abbado, Pappano, Giulini o altri big, sarebbe tutto ok (il condizionale è perché non mi risulta che nessuno di loro o quasi si sia mai preoccupato di insegnare); invece ad essere allievi (diretti o indiretti) di Celibidache non va bene.
          Il maestro dice alla fine della lezione alla RTSI, il cui link ho messo qui sopra,: “Qui non si tratta di credere a Celibidache: si tratta di scoprire te stesso.” C’è chi vuole e chi non vuole.

  12. Vedi, Antonino, quello che può aver dato noia a Duprez è il tuo tono un po’ ultimativo, “il più grande direttore d’orchestra”, “unico” etc. Noi melomani tendiamo a fare di queste iperboli, ma esse in sostanza sono assurde e senza motivo. I geni universali, che sono qualcosa di più del mestiere che hanno scelto, vale a dire dei maestri di vita che ti invitano a scoprire te stesso, sono scomparsi da molto, molto tempo. Si chiamano Socrate o Gesù di Nazareth o Plotino; ma questi sono un’altra cosa.
    Con simpatia
    Marco Ninci

    • Esattamente! E’ proprio l’iperbole che trovo stucchevole – perdonami Antonino – e il continuare a ripetere come un mantra la presunta unicità del direttore, come se facesse addirittura un mestiere diverso (e più elevata ça va sans dire) rispetto a quello di Kleiber o Boulez. Non è tanto il giudizio sul “più grande direttore d’orchestra”, ma sul fondatore di una scuola di vita, di una nuova religione, di un culto esasperato di un mito. E lo dico da profondo ammiratore di Celibidache, uomo e musicista, ma che come tutti i mortali è vissuto nel tempo e nella storia e in essa è cresciuto, ha lavorato e si è evoluto: come sempre è il percorso che interessa e la visione d’insieme. Celibidache non è solo il santone malgrè lui degli anni di Monaco, ma anche quello degli anni berlinesi tra il ’45 e il ’52, o il musicista curioso verso un repertorio più moderno.

      • Bah, a coloro che venerano esageratamente i direttori si può solo ricordare la celebre battuta di Oliviero De Fabritiis. Rispondendo a Gavazzeni che, davanti alla lapide commemorativa posta sulla casa natale di Donizetti a Bergamo, chiedeva cosa avrebbero scritto i posteri sulla parete delle loro dimore, il maestro romano rispose seccamente: “Affittasi”.

    • la grandezza di de fabritiis è proprio nella sua autoironia. quanto al compagno di passeggiata serafin diceva “mi sono un povero vecio maestro de banda (lui che riprese semiramide e propose Wozzeck!) , il maestro gavasseni el xe un uomo così e così colto, ma quela bachetta dovaria ficaserla su per el ……”

  13. Mah, diciamo che l’autoironia non è proprio una delle componenti principali della grandezza di un direttore d’orchestra…Per il resto, si tratta del solito beccarsi fra galli del pollaio, condito in Serafin di una dose fastidiosa di falsa modestia.
    Marco Ninci

Lascia un commento