Roma: “Elektra”, sua madre… e gli altri non contano.

Ci sono serate operistiche che non ti aspetti, che ti stupiscono nella loro semplicità e con la loro professionalità.Magari non ci avresti scommesso molto, così arrivi a teatro aspettandoti tutt’altro e, al contrario, ti ritrovi ad applaudire di gusto e a pensare che non solo ne valeva la pena, ma soprattutto non è stata una recita sprecata anche nella sua imperfezione.
Sto parlando della “Elektra” romana, spettacolo nato, almeno così sembrava, sotto maligna stella dopo l’inatteso (?) forfait del direttore scelto, ovvero quel Fabio Luisi che ha abbandonato il podio di Roma e Genova per correre, non senza fiumi di polemiche da parte di stampa, melomani e teatri, al Metropolitan di New York a sostituire l’indisposto James Levine.
C’era molta attesa dunque nei confronti del Maestro Stefan Soltesz, direttore eclettico con un eterogeneo repertorio nel suo curriculum ed estremamente attivo sulle ribalte di Essen, Vienna, Amburgo, Monaco, Baden-Baden e Ginevra, chiamato all’ultimo momento per salvare il vuoto lasciato da Luisi: si tratta di un buon professionista, uno di quei direttori che conosce anche ribaltate le partiture delle opere che studia e che riesce a garantire quella coerenza e quella tenuta orchestrale atte a portare in porto la serata.
Non si tratta certo di un direttore raffinatissimo o dalla personalità soggiogante; e difatti non imprime alla partitura, vuoi anche per i tempi stringati delle prove, una sua cifra o una interpretazione particolarmente originale; eppure l’orchestra, malgrado qualche spigolatura al limite dell’intonazione degli ottoni e dei fiati, riassorbiti in ogni caso dal magma strumentale, suona in maniera più che decorosa con un suono estremamente controllato e netto, molto più morbido e ricercato nei passi marcatamente cantabili o lirici in cui il sostegno al canto è evidente, meno “nobile” invece nei passaggi più drammatici dove l’eccesso di decibel crea un muro sonoro talmente denso che la sola protagonista riesce a superarlo quasi indenne. Una direzione, quindi, bipolare, sufficiente a garantire il buon esito della serata.

Parlavo prima dei difetti, imperfezioni che appunto possono infastidire o che possono essere superati soprattutto se l’interprete utilizza ciò che resta della voce per marchiare a fuoco il ruolo che letteralmente possiede e trasmettere al pubblico ciò che sente: questo è il caso di Eva Johansson, l’Elektra protagonista di questa produzione.
Una donna piccola, vestita solo con un logoro abito nero, la pelle bianca, quasi grigia, gli occhi scavati, consumati, dai propri troppi tormenti, capelli scuri informi come la veste, incollati alla testa senza femminilità: eppure questa strana creatura, asessuata, si muove libera, “abita” la scena, corre sui pendii della scenografia senza cedimenti, graffia e accarezza la sorella, la madre ed il palazzo allo stesso modo, con ribrezzo e alterigia; non ha anima, questa Elektra, solo pura energia.
Eva Johansson incarna tutto questo da attrice superba, una erinni primordiale corrosa nel corpo, che al riconoscimento di Oreste si trasfigura: ruota intorno al fratello come un puma aggressivo e dubbioso e solo quando comprende l’identità chi gli sta davanti tutto si frantuma, come se si guardasse per la prima volta in uno specchio e comprendesse ciò che è diventata: non è degna di abbracciare Oreste, non ancora, e nel monologo che segue si accartoccia su se stessa per perdonarsi, per ritrovarsi: solo allora può cingere tra le braccia il fratello amato. Da commuoversi.
Eva Johansson, carriera trentennale, non è solo una grande attrice, ma anche una cantante che merita rispetto; ha tantissimi difetti sia chiaro: vuoto il registro grave, molte note tenute sono prese da sotto quindi fisse e successivamente vibrate soprattutto nel registro centrale e nel passaggio, un timbro sopranile lirico, più da Crisotemide (ma lo aveva anche la grande e mai dimenticata Hildegard Behrens), molto bello, ma oggi abrasivo; eppure la voce è ricchissima di armonici, si presenta ampia, penetrante e robustissima, il registro acuto è saldo e perentorio emesso con facilità, il centro è sonoro e senza sforzo oltrepassa l’orchestra.
La voce, insomma è sotto il controllo della cantante, la quale si permette anche attacchi in piano molto intonati e di suggestivo effetto drammatico.  Ciò che impressiona della Johansson è l’accento, il fraseggio di travolgente drammaticità aderente come un guanto alle azioni dell’attrice, la dizione cristallina, il carisma del tutto naturale. Certo, parte male, se non malissimo nel monologo e nel dialogo con la sorella, al limite del disastro quanto a intonazione ed emissione praticamente accennata, entrambe le scene giocate al risparmio, ma a partire dal duetto con la madre in poi, culminando nell’incontro con Oreste e nel finale, la Johansson stupisce con una interpretazione maiuscola.

Al suo livello solo la Klytämnestra di Dame Felicity Palmer, in carriera dagli anni ’60 e con un repertorio intensissimo che abbraccia Barocco e Wagner, Debussy e Britten, Janacek e Mozart, non dimenticando Puccini, Rossini, Gluck, Verdi, molto novecento e non solo. Attrice convincente in un improbabile e fasciante abito rosa in lamé e pesante strascico rosso, la Palmer evita di interpretare la solita megera grottesca e ridicola, incarnando piuttosto una anziana donna egocentrica piegata dal vizio, dall’età, dalla superstizione, dall’ossessione per la sua classe sociale d’appartenenza, molto preoccupata a rivendicare, con stile e classe invero sbilenchi, il sonno e la tranquillità proprie di una (ex) regina anche a costo di svenare il mondo intero… e sarebbe perfettamente capace di farlo nella sua ingorda perfidia.
La voce è querula e leggermente velata da una emissione ingolata, ma questo da sempre, e ovviamente l’età pesa soprattutto nello slittamento di alcune note; ma la voce è ben proiettata e sonora nonostante qualche tremore, l’estensione di Klytämnestra è coperta e, grazie al cielo, la Palmer non apre i suoni, non allarga il registro grave, evita il “parlato”, non cerca l’effettaccio ben misero e caricaturale risparmiandoci tutto il campionario di orrori tipici delle cantanti in disarmo, insomma cerca di cantare tutto. Una bella prova.

Mi piacerebbe concludere qui, ma devo, ahimè, parlarvi degli altri: e allora ecco a rovinare la festa la Chrisothermis di Melanie Diener: un disastro la sua voce piccola e indietro, appoggiata al nulla delle corde vocali, nemmeno tanto robuste a quanto pare, in costante lotta con una intonazione di carta velina e con un’orchestra che in pratica (e per fortuna) ha coperto metà della sua asettica e trascurabile performance coronata da un accento del tutto sbagliato. C’è ancora chi giura che dieci o quindici anni fa questo anemico sopranino era una bella promessa; della sua Elsa di dieci anni or sono e di cosa ne penso ho già parlato.
Ecco arrivare l’ Aegisth di Wolfgang Schmidt: già pessimo Mime a Bayreuth, continua il suo corollario di suoni che con il canto o l’intonazione hanno poco da spartire: si dirà “Va bene, ma la parte è quella che è in fondo!”, lo so, ma se ci sono le note andrebbero un minimo cantate con un certo decoro e se la voce non c’è, c’è poco da fare. Ecco arrivare l’Orest di Alejandro Marco-Buhrmester, un poco gutturale e monolitico nell’emissione, nel fraseggio e dal temperamento non esattamente debordante.
Tutto sommato buoni i numerosi ruoli minori, anche se in alcuni casi, come le serve iniziali, a causa della posizione sfavorevole dietro alla scenografia si sentivano purtroppo poco.

Diciamo la verità: Nikolaus Lehnhoff nella sua carriera registica ha allestito alcune cose molto efficaci, come il “Ring” a S.Francisco ispirato alle pitture di Caspar Friedrich, oppure “L’affare Makropulos” a Glyndebourne, il “Tristan und Isolde” a Orange, il “Parsifal” nato all’ENO e poi ospitato in numerosi teatri mondiali, alternate ad altre molto discutibili anche se con una loro idea (vagamente scopiazzata invero da Wieland Wagner in molti casi) come “Lohengrin” e “Tannhauser” a Baden-Baden, “Meistersinger” a Zurigo,  “Rigoletto” a Dresda, “Kata Kabanova” a Glyndebourne, e autentiche catastrofi quanto a gusto e stile come l’inconcludente “Ring” a Monaco oppure la ridicola “Fanciulla del West” ad Amsterdam.
Insomma non un regista originale, ma con qualcosa da dire.
In questa “Elektra”, in coproduzione con l’ENO, già andata in scena, ma con cast diverso lo scorso anno a Salisburgo e immortalata in DVD, invece fa un salto all’indietro: lascia dire e fare all’estro ed alla iniziativa dei suoi interpreti: insomma, se hai inventiva reciti altrimenti passeggia dove capita o corri.
Cita un po’ a casaccio anche altre e ben maggiori produzioni: da Graf a Kupfer, da Friedrichs a Schenk fino a Carsen e Ronconi (mancano all’appello solo Ruth Berghaus e Konwitschny);  ma loro erano registi con una idea solida e geniale, che hanno scavato nella morbosità dell’opera, nella psicanalisi più malata, nel mito tragico, nell’oscurità dell’inconscio arrivando a soluzioni di altissima poeticità; Lehnhoff  al contrario mette in scena una “Elektra” in fondo tradizionalissima: mura ciclopiche incombenti, piccole e disordinate fessure, una linea di terra ovviamente scoscesa e irta di crepe (scene di Raimund Bauer), costumi essenziali e anonimi (Andrea Schmidt-Futterer), luci espressioniste che giocano con ombre sempre più gigantesche (Duane Schuler) , mentre a riempire il vuoto concettuale ci pensano la Johansson e la Palmer (a Salisburgo poteva contare sulla Meier e sulla Westbroek, mentre la Théorin… lasciamo stare, và!). Dunque una regia innocua, che si risveglia solo nel finale, ricordando il mattatoio scaligero di Ronconi, mostrando il cadavere appeso, trucidato e capovolto di Klytämnestra, reso abbagliante dalle luci riflesse su nude pareti bianche, mentre Oreste viene circondato da una moltitudine di nere Erinni vendicatrici, la cui manifestazione può ricordare il pauroso finale delle “Coefore” di Eschilo.

Al termine il pubblico accoglie trionfalmente e meritatamente Eva Johansson, sommersa dalle ovazioni, e con prolungati e convinti applausi tutti gli altri.

 

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4 pensieri su “Roma: “Elektra”, sua madre… e gli altri non contano.

  1. leggendo la recensione mi sono detto questa volta Marianne è buonista con i cantanti,poi è arrivata la seconda parte parlando di Melanie Diener e Wolfgang Schmidt,e il buonismo è finito,naturalmente non per colpa di Merianne..

  2. Sono stato anch’io a Roma per vedere questa Elektra (opera tra le mie preferite) e ne sono uscito molto soddisfatto.

    Tra gli ascolti proposti da Marianne, anche per risollevarsi dopo la non particolarmente esaltante prova della Diener (che ricordo splendida Elsa a Genova con Pappano nel 1998), aggiungerei la più grande Chrisothermis, immortalata (per fortuna) in una serata davvero magica….

    http://www.youtube.com/watch?v=m7HG2ea6E5k

  3. Sono stato ieri sera all’Opera di Roma per vedere questo spettacolo. Un plauso alla Eva Johansson; al di là delle indubbie difficoltà di intonazione nel monologo iniziale e delle note estremamente fisse nel registro acuto è stata un’ottima Elektra! Complimenti davvero!
    Spettacolo interessante: truculento, ma è l’opera, questa storia di odio ossessivo di una figlia per la propria madre che lo impone. E del resto la musica, con la sua forza barbarica, lo dipinge magistralmente.
    Un plauso, poi, ai magnifici professori d’orchestra dell’opera di Roma per l’ottima tenuta orchestrale! Signori e signore, stiamo parlando dell’Elektra di Strauss, non dimentichiamocelo!

  4. Ma sì, la Marianne a un certo punto si è accorta che stava scrivendo nel blog della Grisi e quindi ha dovuto fare un pò marcia indietro, pena il rischio della cacciata dagli eletti! Non si spiega altrimenti la bocciatura senza appello della Diener che da alcuni anni io reputo al dessert e invece per me è stata sorprendente protagonista di una bella prova. La sottostima della regia di Lenhoff che io ho trovato assai interessante ed efficace in quanto, almeno per me, per la prima volta si vede una Elektra che esalta la sua condizione di prigionera dentro uno spazio claustrofobico, interiorizzato al massimo dettato dal suo cieco furore vendicativo, in quanto solo quello stesso le permetteva di vivere nella sua totalizzante solitudine.Soltesz, il direttore: all’annuncio della sostituzione dell’antipatico Luisi con lui, io reagii con molta gioia, perchè? Perchè io lo considero un eccellente interprete Wagnerian-Straussiano.Eccellente è stato il suo Ring ad Essen e memorabile è stata la sua Salome in giugno a Baden Baden, anche qui in coppia con Lenhoff e artefici entrambi della più bella Salome da me vista; anche qui il regista si concentra sulla grossa personalità della protagonista facendoci davvero entrare dentro le pieghe più intime della sua controversa interiorità inserita efficacemente in un ambito contemporaneo malato, ma allo stesso tempo suggestivo. Soltesz fu davvero il protagonista assoluto della serata con una lettura assai raffinata, per non dire sofisticata della partitura straussiana, con una sorprendente attenzione al minimo dettaglio della meravigliosa orchestrazione di Strauss e penetrante e incisiva nei momenti più concitati. A bocca aperta!! Sarebbe assai piaciuta allo Strauss stesso! Grande spettacolo!
    Tornando all’Elektra romana,vista da me il 02-10, straordinaria è stata la Johansson, anche alla luce della sua pessima prova a Zurigo con Gatti, dove fu irriconoscibile per il suo registro acuto assai faticoso che sfociava spesso nell’urlo e stridolio, assolutamente disturbante.
    Grande successo a Roma con un pubblico romano,spesso bistrattato, attento, maturo e molto coinvolto in un’opera non certo facile. Una sorpresa per me, abituato al pubblico scaligero che, con tanta puzza sotto il naso,quasi mai dimostra la maturità e l’attenzione dovuti. All’ingresso del teatro veniva distribuito un eccellente giornalino di presentazione dell’opera, saggi, interviste e preziosi riferimenti artistici per eventuali visite museali romani. BRAVI!! e Grazie! E Milano che fa??

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