Sorella Radio: Manon da Parigi

 L’omaggio dell’Opéra di Parigi a Jules Massenet nel centenario della morte si annunciava sotto il segno del lusso, se non sotto quello dell’originalità: una nuova regia di “Manon” affidata alla famosa cineasta Coline Serreau e tagliata su misura, almeno nelle intenzioni, per due grandi Nomi del teatro lirico, Natalie Dessay e Giuseppe Filianoti. Definita dal quotidiano “Le Monde” “una lettura costernante per bruttezza e vuoto drammatico”, questa produzione nuova fiammante avrebbe dovuto essere trasmessa nei cinema di svariati Paesi, se non che la diretta, quasi all’ultimo, è saltata, rimpiazzata dalla replica di un vecchio spettacolo berlinese con Anna Netrebko. E non sono state certo le avverse condizioni meteorologiche a determinare un simile cambiamento. Così come non appare casuale che per le recite del 2 (in occasione della quale era, appunto, prevista la diretta nei cinema) e 5 febbraio la Dessay abbia lasciato il posto alla cantante del secondo cast, Marianne Fiset. Ancora una volta, a dispetto dei detrattori del signor Marconi, la trasmissione radiofonica della recita del 28 gennaio illumina, spiega e chiarisce molto, anzi tutto, circa la produzione in questione.

Sul podio Evelino Pidò, reputato specialista di musica preromantica, si limita a battere la solfa, poco curandosi del suono orchestrale, che risulta spesso bandistico (specie all’atto terzo), piuttosto smorto e costantemente poco rifinito. Non serve dire quanto una simile bacchetta agevoli i cantanti, già provati dalle dimensioni di una sala come la Bastille.

Reduce dall’estenuata Violetta aquense e viennese, Natalie Dessay risolve anche questa Manon nel segno della consunzione. Vocale, ovviamente. Lo strumento, mai stato particolarmente ricco, si è fatto ormai smunto, tanto che in basso e al centro la voce cantata è pericolosamente prossima al parlato. Parlato non significa necessariamente intenso ed espressivo. Anzi è proprio nei momenti di canto spianato, come nel “Picciol desco” (o “Petite table” per gli amanti della lingua di Voltaire), che si palesano con maggiore evidenza i limiti della Dessay interprete, ché la buona dizione francese, l’accento querulo e i sussurri spacciati per piani e pianissimi non costituiscono ipso facto garanzia di insuperabile investimento drammatico. Il vero modello della cantante lionense non è certo Fanny Heldy né la più modesta Denise Duval, ma al massimo Edith Piaf, che peraltro aveva il buon gusto di scegliere, per l’esibizione dei propri talenti, tutt’altro territorio di caccia artistica. Quanto alla saldezza del registro acuto e sopracuto, già vanto di questa improvvida emula di Mado Robin, basta sentire nel “Je suis ancore toute étourdie” la prima salita al sol4 per rendersi conto del “buco” esistente nella voce: sotto, aria calda; sopra, suoni malfermi e urla.

Immagini cimiteriali evoca il coprotagonista, Giuseppe Filianoti, reduce dal riparatorio successo scaligero quale don Ottavio. Anche qui poche battute sono sufficienti a fotografare il disastro di una voce che, a parte il bel timbro, ha ormai perduto anche l’ultimo barlume di stabilità. Per giunta la parte del cavaliere, poi abate, quindi nuovamente mondano Des Grieux è imperniata sul passaggio superiore, zona in cui l’amoroso è chiamato a fraseggiare con passione e abbondanza di nuance, non solo nel celeberrimo Sogno ma nei duetti con Manon e nelle lunghe scene di conversazione. A parte la dizione pastosa e piuttosto cisalpina (male relativo, almeno per noi), basta l’attacco del “Nous vivrons à Paris”, condito di suoni rauchi e stonati, a rendere conto di una decozione, che consiglierebbe il pronto abbandono non solo della presente produzione, ma della carriera professionale, o quanto meno un serio ridimensionamento della stessa. Ancora peggio il Sogno: qui il tenore soccombe, privo com’è di una tecnica di respirazione degna di questo nome, di fronte alle lunghe arcate della melodia e, quando tenta di cantare piano e in modo suadente, produce suoni bianchi e sfalsettanti. Più che la casa dei sogni di questi infelici innamorati, una simile esecuzione tratteggia scenari da apocalisse postatomica. E di certo qualcuno vedrà anche in questa “scelta” il massimo dell’espressività, e quindi del canto.

Il primo quadro del terzo atto dovrebbe essere quello in cui un soprano leggero può trovare  il proprio momento migliore all’esecuzione della gavotta.
Tralasciamo l’aria nella voce evidentissima nelle battute centrali  di conversazione dove la Dessay non è neppure civetta, ma l’esecuzione del passo più famoso  mette in cruda evidenza una voce inconsistente in quelle zona, il fiato corto e sovracuti che sono solo urla, pure oscillanti e di gola. Non si capisce perché alla fine di questa scena, allorchè Manon si risolve  di andare a San Sulpizio la cantante francese ricorre al parlato assai più di quanto il testonon preveda. Lo stesso accade all’inizio del quadro di san Sulpizio.
Per altro al convento parigino si  consuma il momento più basso della serata. Nel famoso “Ah fuyez douce image” il timbro e la vocalità di Filianoti rievocano non già un giovane abatino, ma  un anziano e rabbioso sacerdote, allucinato dal ricordo di avventure, che gli costarono il voto di celibato. Vocalmente siano alla parodia di un di Stefano anni ’70 i suoni sono aperti urlati e sfibrati a partire dal fa acuto (sopra tacciamo), la voce se la nota è tenuta oscilla. L’attacco dell’aria è spettrale, le riprese del tema peggio ancor con il suono costantemente in gola. Inutile parlare di colori, dinamica , legato e fraseggio.
Per altro quando entra la  seduttrice il timbro  è quello di una Barbie vecchia, il legato insicuro, carente qual si voglia dinamica, che per le Manon “leggere” in uno con lo splendore della zona acuta sono la vera risorsa interpretativa. La voce a partire da “pardonnez-moi” suona nasale ( e non si dia la colpa alla lingua francese), incapace di slancio perché ogni tentativo di dare volume si risolve in scomposte urla. Tacciamo, poi, dell’espediente di marca verista di  spacciare il fiato corto per andamento ansimante ed interpretazione. Per fare certe cose ci vogliono la voce e il gusto di una Favero o di una Albanese, veriste e “femmes fatales” convinte.
In queste condizioni non si seduce, si spaventano i bambini e si annoiano gli adulti.
E in queste condizioni, complice la tendenza al fragore della direzione orchestrale, si naufraga miseramente alla scena successiva l’hotel della Transilvania, che vocalmente impegna sia Manon che Des Grieux destinati, viste le doti naturali della Dessay e le condizioni vocali di entrambi alla capitolazione. Capitolazione che puntuale arriva all’ultimo atto, in cui entrambi, ormai, parlano. E non solo quando la partitura lo prevede.

L’adagio popolare milanese per San Biagio, che si celebra oggi, recita “san Bias protegg la gola e il nas”. Protegge, ma non risana sicchè, credo poco giovi ai due protagonisti della Manon parigina, giunti inesorabilmente al capolinea in una età in cui si dovrebbe  essere all’apogeo. E che sia la funesta verità lo conferma PERSINO la critica francese. Notoriamente sciovinista! Altra usanza del giorno di San Biagio impone che si mangi una fetta del panettone avanzato dalle festività natalizie. Ci sembra un’immagine appropriata per questa Manon, imbandita con gli avanzi di una cantante. Anzi, due.

Massenet – Manon

Atto I

Je suis encore toute étourdie – Ersilde Cervi-Caroli (1907)

Atto II

Adieu, notre petite table – Giuseppina Baldassarre-Tedeschi (1922)

Instant charmant…En fermant les yeux – Beniamino Gigli (1955)

Atto III

Je suis seul…Ah fuyez, douce image – Hipólito Lázaro (1916)

Toi! Vous! – Giuseppe Di Stefano & Mafalda Favero (1947)

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13 pensieri su “Sorella Radio: Manon da Parigi

  1. Trovo inspiegabili simili produzioni. La condizione vocale della Dessay e di Filianoti sono noti da tempo, certamente, il timbro della “ Barbie vecchia”, come definita in maniera calzante e stupenda da Domenico, non è solo la conseguenza della Traviata di Vienna. Forse, nei grandi teatri fanno contratti con i cantanti molti anni in anticipo e quando giunge alla realizzazione del progetto ci si accorge che le voci non sono più quelle ??? I contratti non si potranno più recidere ???… Mi riesce difficile credere che nelle direzioni artistiche non ci si accorga di tale disastri o che siano tutti così in malafede da pretendere di barattare la “star”con la qualità. Alla fine, tali flop si ritorcono contro di loro facendo svuotare i teatri e determinandone la crisi e il ridimensionamento.

  2. Ho sempre trovato la Dessay quasi insopportabile anche nei momenti migliori, alla fine l’unica cosa pregevole che possedeva erano gli estremi acuti. Persi quelli non è rimasto nulla.
    Sto risentento l’amato Di Stefano e la Favero: grotteschi i deliri “veristi” del soprano, incredibile lo splendore timbrico e la sincerità di accento (nonostante alcune forzature in acuto) di Di Stefano.

    • Mafalda Favero offre, seconda solo per ordine cronologico a Emma Carelli, la più completa, pertinente e persuasiva raffigurazione della Manon “donna pubblica”. Possiamo censurarne gli eccessi, ma è impossibile non riconoscere la qualità della tecnica di respirazione della cantante, che le permette di fare con la voce, se non di tutto, certo molte cose. Insomma è la stessa base che poi darà vita a due Manon diversissime e ugualmente affascinanti, come quelle di Magda Olivero e Beverly Sills. Ed è esattamente quello che manca alla Manon di cui all’articolo. Per inciso, di fronte alle mille intenzioni (anche esagerate e “grottesche”) di una Favero il canto piatto, povero di colori e dinamica, improntato a una “generosità” generica quanto smaccata, di Di Stefano risalta per quello che è: robetta.

      • A me sembra però sinceramente esagerato il giudizio negativo su Di Stefano più volte ribadito. Come non sono d’accordo nel definire piatto il suo fraseggio. Non era perfetto, sta bene. Ma allora Pavarotti era un muro: per lui mi viene da prendere in prestito le parole di Duprez circa la Flagstad: emetteva solo splendidi suoni. O meglio: era capace di 4 colori 4 che alternava in continuazione e non poche volte si lasciava andare alla materna dizione emiliana.

          • Mancini, Pavarotti non era tecnicamente perfetto ma le basi dell’ imposto vocale erano solidissime. Se così non fosse stato, non avrebbe cantato in teatro 43 anni.

          • Mah… a me pareva avesse una solida impostazione. Ma solo quella. Posso chiederti econdo te dove mancava?

          • Qualche occasionale pecca nell’emissione c’è, talune rigidità e suoni indietro, poi sostanzialmente non aveva sfumature, quando voleva cantare piano la voce o gli andava indietro o gli si spoggiava del tutto. Di suoni brutti in Pavarotti se ne sentono eccome. Poi non era così infrequente che steccasse. Insomma, non direi che fosse un “mostro di tecnica”. Di base c’era, questo sì, un bel timbro ed una bella naturalezza e chiarezza d’imposto, che ha permesso alla voce di non subire logoramenti col passare degli anni.

        • Lo splendore vocale implica omogeneità in tutta la gamma, non solo facilità in acuto. Quanto al fraseggio, lasciando stare i vari Bonci, Anselmi e Schipa, che in quanto tenori di grazia dovevano, ripeto, DOVEVANO essere vari ed espressivi sempre e comunque, Pertile e Slezak risultano ben ad esempio più fantasiosi sia di Di Stefano sia di Pavarotti. E Slezak aveva anche degli acuti impressionanti.

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